Un’anatra al buio che becca le briciole

Il ponte di piazza Vitto, alla sera, fa come tante mezze lune sul pelo dell’acqua. Dei fari sotto le arcate illuminano la pietra di luce calda, luce che muta forma e riflesso a seconda del punto d’osservazione. Dal club dei canottieri, che sporge sul fiume oltre la boscaglia della sponda bene, s’affacciano sagome scure a guardare la gente di qua: la cascata di brilli ciaparat del venerdì sera e del sabato, della domenica e di tutti i giorni della settimana, perché tanto di lavorare – sulla riva del Gianca e del Doctor Sax – mica se ne parla.
«To’, accendila».
Ce ne stiamo seduti, io e il mio amico Berto, su due scalini viscidi di alghe e scommettiamo a distanza sul sesso delle anatre in avvicinamento. Col buio non è facile, gli spiego che i maschi sono quelli con la testa verde smeraldo e che le femmine sono quelle marroni. Gli racconto dei pavoni, del fatto che nel mondo animale sia molto più frequente osservare la bellezza come un obbligo genetico maschile: «È una questione di dimensioni» gli dico «e di numero: un grande ovulo sta a miliardi di minuscoli spermatozoi».
Berto ridacchia, si leva la coppola da picciotto emigrato e la posa sulla mia testa.
«Stando a questa teoria, noi donne dovremmo poterci permettere di avere i peli sulle gambe.»

Ce ne stiamo seduti, io e il mio amico Berto, su due scalini viscidi di alghe e scommettiamo a distanza sul sesso delle anatre in avvicinamento. Col buio non è facile, gli spiego che i maschi sono quelli con la testa verde smeraldo e che le femmine sono quelle marroni.

Hanno aperto un bar futuristico, in uno degli ammuffiti magazzini dei murazzi, in cui a preparare Negroni e Spritz è un robot arancione. Si ordina attraverso un computer e un robustissimo paio di braccia shakera l’elisir. Una roba che Marinetti sarebbe fisso lì a sbronzarsi e a fare versi tipo zang e zang e tumb, ma che per noi è ancora troppo avanti e non ce la facciamo a stargli dietro. Ci siamo ubriacati alla vecchia maniera, seduti al bancone del circolo Arci Sud, a botte di vino stappato, brindando alla nostra e al barista. Che bel posto che è l’Arci Sud! Mi mette una nostalgia… Viva i nostalgici, viva!
Da San Salvario ai muri è un attimo ed è tutto in discesa, ma perché siamo qui non saprei dirlo, e non saprei dire neppure dov’è che abbiamo legato la bici.
Io e Berto in mezzo a un mucchio selvaggio di bestie febbricitanti, messi assieme in un ping pong di fumo e dalla comune voglia d’evasione e ancora più vicini per quel mero e condiviso senso d’inappartenenza, passandoci una torcia fatta su in fretta e senza accortezza, col filtro largo e un tiro faticoso. Mentre questi pensieri s’affacciano, subito la voce di Giulia mi sputa addosso sentenze, perché chi si esilia da solo non ha neppure il diritto di lamentarsi.
Non è il nostro paese, fratello mio, ma nessuno ci ha cacciati dal nido: ce ne siamo andati noi, con le nostre gambine, e senza preoccuparci del sentiero e dell’avere una destinazione. Hai ragione, nessuno è venuto a rincorrerci, ma non possiamo continuare a fuggire in eterno con la speranza che prima o poi qualcuno ci venga a recuperare. Lo sguardo di Berto si posa sul molo abbandonato vicino a noi.
«Ci sei salito, sì?»
Berto mi fa di no con la testa: «Mzé. Ho una foto là sopra, ma non mi ricordo quando l’ho fatta».
Mi piace tanto quando fa quel verso, mzé, che è un esercizio complesso d’espressione affidato a lingua, denti e labbra e dice più di una parola. Può essere un e un no contemporaneamente, nel dubbio un non lo so. Penso al verso come a un colpo di marranzano che risuona nella bocca, la cui eco si perde dentro chi scocca il suono e non fuori. Berto scocca suoni per se stesso e nessun altro e questi suoni gli rimbombano nei nodi delle viscere e si stringono, fischiando, tra le costole. Vorrebbe poterne fornire una versione tradotta, ma si sistema gli occhiali, per adesso, con un gesto nervoso, e mi racconta di quando la sua compagna di banco s’era abbassata le mutande e gli aveva concesso una visione diversa del mondo.
C’è qualcosa di clandestino, nel comprendersi, così quando accade non occorre dirselo, o meglio, non si deve affatto.
Dal monte dei Cappuccini, che non somiglia neppure lontanamente a una montagna, la città fa meno spavento. Le si può dare un contorno, che è fatto di alture a corona e finestre triangolari tra le cime. Si vedono i due grattacieli lampeggiare di rosso e la lancia stellata della Mole trafiggere la cappa di smog; sullo sfondo sale piano, ogni tanto, il pallone incatenato del Balon.

Non è il nostro paese, fratello mio, ma nessuno ci ha cacciati dal nido: ce ne siamo andati noi, con le nostre gambine, e senza preoccuparci del sentiero e dell’avere una destinazione.

L’ultima volta al monte c’era la neve e faceva un freddo pazzesco, Giulia aveva i capelli lunghissimi.
Una grossa palla di ghiaccio mi era arrivata sul muso, facendomi male, ma non ero riuscita a incazzarmi, non ci riesco nemmeno adesso dopo tutto quello che è successo.
Posso tracciare il contorno della città col dito, posso chiudere gli occhi e disegnare la perfetta topografia di Torino, ma non riesco a definire il confine tra ciò che provo davvero e ciò che mi convinco di provare per sentirmi più normale e adatta a campare sopra alla faccia tosta della Terra.
Tira fuori quello che senti, Giulia mi spronava al dialogo nei momenti peggiori, cercando il mio sguardo, solitamente fermo su un qualche punto della stanza, prova a farmi capire cosa hai in testa, mi diceva, se non parli come faccio, come faccio ad aiutarti. Spalle al muro, attendeva che io esplodessi.
Il più delle volte mi lasciavo andare a un pianto eterno, sragionato, che era la cosa più onesta di cui fossi capace. Altre volte non sgorgavano lacrime e allora toccava recitare. Mi inventavo tragedie inesistenti, ma spiegabilissime e sensate. Forse esistevano sul serio, anzi sicuramente, in qualche angolo del mio inconscio; erano parte della mia vita, ma non mi toccavano così nel profondo come volevo far credere. C’è chi darebbe la colpa allo zodiaco: nata sotto il segno del Cancro. Il primo vagito era già disperazione, un tentativo di raccogliere attenzioni.
«Quello lì non lo sopporto» mi fa Berto, tossendo. «Ogni volta che parla mi sembra di sentire Aldo Moro»
«Sta sul cazzo anche a me.»
Cerco di tagliare corto, non ho voglia di argomentare, ma Berto continua:
«Non si può piacere a tutti, eddai, sempre con questa oratoria, questi paroloni per dare ragione a chiunque, senza mai tirare fuori un’idea che sia una.»
Annuisco, prestando ascolto ai discorsi della comitiva di liceali seduta a pochi mattoni da noi. Parlano di sesso, di inciuci vari tra i membri del gruppo. Loro hanno un branco con cui passeggiare nel bosco.
Ho visto fare a Berto cose indicibili, come rubare il vetro di una cornice larga novanta centimetri e riuscire a condurre, pulito, il bottino fuori dalle barriere elettroniche del negozio. L’ho visto lanciare un bicchiere di gin, intendo il bicchiere intero, in faccia a un ragazzo dopo una battuta di pessimo gusto; l’ho visto fare a cazzotti col suo miglior compagno, minacciare di lanciarsi in un triplo salto mortale, di darsi all’onda triturante della Dora; l’ho visto insultare, elargire opinioni senza l’ombra d’un filtro; l’ho visto fare terra bruciata attorno a sé; l’ho visto perpetrare la sua propria personale rivoluzione e opera di distruzione e tutto questo, dico tutto questo, in nome dell’arte. Non conosco uomo più innamorato di Berto dell’arte.
«Ogni tanto un rospo lo devi ingoiare, ci hai già discusso una volta.»
«Lo so, lo so.»
«Abbiamo bisogno di un appoggio adesso, basta stronzate.»
Io sono sempre stata più codarda di lui, più giudiziosa e sotto sotto infimamente manipolatoria, e non per questo meno monade. Non ho idea di cosa abbia in testa Berto, ma posso leggere tra i suoi gesti un sentire affine al mio e il luccichio residuo di una verità divenuta frottola, una fiamma che Berto continua a mettere alla prova, passandoci sopra il palmo della mano, e che continua a ustionarlo nonostante il suo progressivo rimpicciolirsi. Quante bugie ci siamo raccontati e quante menzogne ci hanno rifilato affinché questa sottile presunzione d’essere speciali potesse farsi largo in noi e dilaniarci dall’interno ogni qualvolta l’enorme aspettativa rispetto al nostro stesso genio si fosse schiantata contro la mediocrità della persona umana che costituiamo.

Quante bugie ci siamo raccontati e quante menzogne ci hanno rifilato affinché questa sottile presunzione d’essere speciali potesse farsi largo in noi e dilaniarci dall’interno ogni qualvolta l’enorme aspettativa rispetto al nostro stesso genio si fosse schiantata contro la mediocrità della persona umana che costituiamo.

Tiro fuori dallo zaino un maglioncino infeltrito di un celestino chiarissimo. L’afa di fine estate ha lasciato posto alla frescura autunnale, è quel momento dell’anno in cui non si capisce bene come uscire di casa e perciò si tira a indovinare, sperando di azzeccare la combinazione dei tessuti. Berto cerca di nascondere i brividi per non darmi a vedere che ha freddo, trema con le braccia conserte nel tentativo estremo di tenersi stretto il calore corporeo. Sta letteralmente gelando, magro com’è, ma non cede e non accenna a una ritirata. Si è messo addosso una giacchetta verde guerriglia di cotone duro, con tanto di tasche e taschino sul petto, dal quale pende il gancio di una stilografica.
«Chi l’arriccia, l’appiccia e…»
Lascio che il sapore delle ultime note mi culli e conduca all’atarassia. Mi basterebbe essere un’anatra al buio che becca le briciole: un qualcosa di indefinito, dondolante e senza sesso. Un organismo deforme che è in procinto di arrivare e beccare le briciole una ad una, fare un cenno e sparire di nuovo. La testa sott’acqua e giù, giù.
Vorrei addormentarmi qui, in riva al Po, con le nutrie e le pantegane a mordicchiarmi le dita dei piedi, piuttosto che sollevarmi da questo scalino e avviarmi, un passo storto dopo l’altro, alla porta di casa e verso la stanza in affitto dove nessuno mi aspetta, se non una catasta di robaccia da quattro soldi e qualche capello cascato dal letto.
Vorrei che Giulia mi accarezzasse ancora la schiena con la spugna, nella vasca da bagno, che mi facesse sentire in diritto di essere mortale, tale e quale a tutti gli altri. Ché alla fine è questo essere amati: non dover mentire a se stessi sul proprio conto per soddisfare le proiezioni del prossimo. Di Giulia ho amato lo smascheramento. Ci siamo abbassate così tanto, a furia di sberle e colpi di onestà, da arrivare a strisciare come due larve in muta sul pavimento stradale, ridotte a un’ombra, incapaci di trovarsi. Dio, quanto vorrei sollevarmi da questo scalino e schizzare velocissima fuori da questa bolla! Sanguino e provo una fitta costante al basso ventre, ho preso un coltello da macellaio e ho aperto un varco nella carne per accelerare la procedura chirurgica di svisceramento. Tutta aperta e grondante umanità, sono, e persino questo è distante dall’essere sufficiente. Dio! Dove cazzo sei? E soprattutto dove cazzo è Giulia?
«Non lo so, vediamo gli altri quando possono e ci becchiamo in Cavalla o da me» dico a Berto, che nel frattempo è riuscito ad alzarsi e s’appresta ad andarsene. «Vedi che qualcosa la combiniamo.»
«Vabbuò, io adesso cerco di capire a soldi come stiamo messi, fammi sapere poi per il tirocinante che dicono.»
Ci diamo appuntamento alla prossima riunione, pronunciando qualche battuta riciclata sullo sfruttamento del lavoro e sul capitalismo, incerti sul da farsi e sul perché lo si debba fare. Indecisi sul come, sul quando, senza nessuna probabilità evidente e con sulle spalle un bagaglio di fallimenti già troppo pesante.
Di fronte a noi, ogni mattina, la tentazione di mollare ciascuna ambizione e velleità artistica, il desiderio di vomitare in strada ogni rigurgito di creatività e sedersi alla scrivania di un ufficio o alla cassa di un supermercato, dire al massimo Carta o Bancomat, signora e sentirsi rispondere, male che vada, non lo so, faccia lei.
Berto procede, mani in tasca, percorrendo la salita asfaltata che conduce alla piazza. Io resto dietro, a pochi passi da lui, ma non troppo distante da risultarne divisa sul serio. Dev’essere una scena ridicola, vista da fuori: due che si salutano e che poi si inseguono lungo la medesima via.
Siamo abituati così, io e Berto, a far la strada da soli. Ci voltiamo soltanto di rado, velocemente, in modo che non desti sospetto, spinti da una fantasticheria o da un presentimento, a controllare se per caso un’anima non ci stia raggiungendo.

Fotografia di Louis Dazy

Un metro quadrato di cielo blu

 

In una città triste, in un quartiere triste, è possibile che la prima giornata di pieno sole passi inosservata. Può anche succedere che si faccia notare, ma non si abbia il tempo di approfittarne.
Io, oramai, di tempo ne ho da vendere e poi il mio quartiere è famoso per essere trendy. Della città, invece, non ho granché da dire. Sono seduta sul davanzale della finestra, e ho voglia di una cicca.
So già che non ne troverò nel mio appartamento, sto cercando di smettere, se non altro per dare l’impressione di fare qualcosa. Guardo che succede nella corte interna dell’isolato: il tetto del garage dove l’estate scorsa qualche giovane dinamico ha piazzato delle piante che non sono sopravvissute all’inverno. Qualche gioco di plastica qui e là a completare il ritratto desolante di un prefabbricato. Un triciclo blu, un secchiello grigio e le palette rosse e verdi dei ragazzini del terzo piano ai quali ogni mattina, attraverso il soffitto, sento spargere la loro giovinezza fin sotto al mio cuscino. Se davvero la felicità sta nelle piccole cose, allora sia lodato il cielo che non si trovino lì ora, sul tetto, a riempire il vuoto con le loro urla stridenti. È che rimbombano, qui.

Se davvero la felicità sta nelle piccole cose, allora sia lodato il cielo che non si trovino lì ora, sul tetto, a riempire il vuoto con le loro urla stridenti.

La superficie del tetto bitumato è tagliata in due dai raggi del sole, grigio uggioso da una parte, scintillante dall’altra. Mi domando, tra l’altro, cosa diavolo si siano inventati questi mocciosi per conficcare quelle palette rosse e verdi sul tetto del garage. La caccia al tesoro è annullata bambini, c’è il cemento sulla spiaggia. Fra qualche mese, quando il sole sarà più deciso, l’afa diventerà soffocante ma adesso, comunque, mettiamo la felicità nelle piccole cose: il caldo timido emanato dal cemento è un balsamo per le mie ossa, fisse sul bordo di questa finestra che non conoscerà mai nient’altro che l’ombra.
Mi ricordo perfettamente quel primo giorno di primavera che, se posso dire, è stato il primo giorno non troppo lontano ad avere il privilegio di venire ospitato nella mia memoria. Non perché abbia approfittato di quella giornata, no, sono rimasta rifugiata in casa come ogni domenica. A suon di sei giorni su sette in laboratorio, sopporto più i neon che il sole. Il problema della domenica è che non cade mai a inizio settimana.
Sì, ho teso le braccia per due volte quel giorno, per poter sentire i raggi del sole accarezzarmi la mano fino al polso. Come potrei fare adesso, se ne avessi voglia. Ma di quella domenica me ne ricordo soprattutto perché diede inizio a quello strano fenomeno delle cocorite. Avevo ancora il mio lavoro in quel periodo, ma non avevo che quello nella vita.
E Bingo, il gatto.
Bingo è morto. L’ho trovato la settimana scorsa dietro la cornice delle aiuole all’entrata del palazzo. La zampa posteriore sporgeva un po’, irrigidita, altrimenti non l’avrei notata al rientro dal laboratorio.
È spuntata la vecchia del sesto piano, quella che tutte le settimane viene a suonare alla mia porta per dirmi signorina, come siete buona. Gentile com’è, mi ha detto buongiorno sorridendo. Io non ho risposto: fissavo il corpo del gatto, gonfio tra le cortecce di pino e gli arbusti sempreverdi, tristi d’estate come d’inverno. Non mi ha chiesto come mai non fossi a lavoro, quella mattina.
Ero appena stata licenziata e insomma trovare il gatto lì, sotto casa, era piuttosto grottesco. Avrà pensato che soffrissi nel vedere la bestiola senza vita, perché la sua mano mi sfiorò il braccio. Mi sono sforzata di non fare un balzo indietro, le membra flaccide delle persone anziane mi fanno venire la pelle d’oca. Mi sono voltata verso di lei per abbozzare un piccolo sorriso come si deve. Ho sempre pensato che sarebbe crepata prima del mio gatto, quella lì.
Per consolarmi, mi porse le palle di grasso per uccelli che aveva l’abitudine di portarmi ogni settimana. Mia cara, mi disse, per i nostri amici pennuti. Una volta mi presi la briga di spiegarle che solo le cocorite mangiano quelle palle e che le cocorite sono nocive per la biodiversità. Quando ho capito che non afferrava dove volessi arrivare, ho aggiunto che è per questo motivo che non si vedono più i passeri.  Lì per lì le ha fatto effetto.
Sono salita a cercare un sacco dell’immondizia e dei guanti di lattice.
Bingo amava la primavera. Aveva l’abitudine di portarmi degli uccellini che in genere non si dava la pena di uccidere. La primavera annunciava giorni fasti. In quella famosa domenica di primo sole, mi portò una cocorita, bell’è morta questa volta. Mi ero alzata per aprire la porta ai miagolii, ed era lì dietro, fiero, con una cocorita tra le zampe. Non aveva tracce di sangue, né di sofferenza. Il suo piumaggio luccicava di un verde mela: era morta stecchita ma di una morte buona. Bingo entrò con l’uccello in bocca. Volevo quasi congratularmi.
Appena fu entrato divorò la caramella di piume, incurante del mio sguardo – sconvolto o affascinato, chi può dirlo. Il fatto è che di solito non li mangiava, gli uccelli.
Da quel momento, la situazione non è migliorata. Tornando dal lavoro, trovavo regolarmente delle piume verdi o gialle sul pianerottolo, a volte una o due zampe. Un’altra domenica, notai una piccola pallina verde sul tetto del garage. Ho visto Bingo avvicinarsi felinamente, poi, quando ho riguardato, entrambi erano scomparsi. Da allora, tutte le mattine ho preso l’abitudine di scrutare il tetto del garage. La scena si ripeteva, sempre uguale: cocorita-giace, gatto-che-striscia, gatto-afferra-cocorita, nessuna-traccia-del-crimine. Le cocorite morivano più o meno sempre nello stesso posto, dal mio lato del cortile. Sentivo che avrei dovuto punire Bingo per quel che aveva fatto, ma come fargli capire che lo avevo visto ingoiare la bestiola a crudo e che non si fa, quando veniva a miagolare dietro la mia porta e a sfregarsi contro le mie gambe con il suo portamento seducente? Non mi portava più cadaveri, li mangiava direttamente sul pianerottolo davanti alla porta. Cadevano sempre nello stesso punto, ho provato a scrutare il cielo ma niente, né cavi elettrici né altro, solo il triangolo delle Bermuda delle cocorite. Un metro quadrato di cielo, un metro quadrato di cemento.
Inoltre, risparmiavo sui croccantini.

Tornando dal lavoro, trovavo regolarmente delle piume verdi o gialle sul pianerottolo, a volte una o due zampe.

Ora che il compianto Bingo non è più di questo mondo, le cocorite si ammassano. Ieri mattina, giuro, le ho viste sfilare lungo il vetro, in verticale. Mi stavo versando una tazza di caffè in salotto, mi sono bruciata la mano e mi sono catapultata verso la finestra. Il tempo di aprire, in cielo: niente. Tre cocorite al suolo. Una in più rispetto al giorno prima, morta stecchita come le altre. Le zampette tese.
Oggi, terzo giorno dopo l’enigmatico decesso di Bingo, aprendo le tende, sul tetto: niente. Penso involontariamente al servizio di raccolta dei rifiuti e mi domando se i netturbini siano già passati a svuotare il bidone dove ho gettato il sacco dell’immondizia dal dubbio contenuto. Mi chiedo anche quante vite il mio gatto avesse già bruciato, prima di finire in quel sacchetto. Mi attardo un po’ sulle possibili cause della scomparsa della specie Psittacula krameri, penso alla velocità della loro caduta libera, a quello che si dice sulla lotteria e sui meteoriti. La probabilità, la fortuna e tutte quelle altre cose. Lascio la scomoda posizione sul davanzale della finestra. È l’ora di fare il mio solito giro al bar tabacchi all’angolo.
Da quando non compro più le sigarette, ci sono i biglietti della lotteria. Non vinco mai niente e pago due volte di più, ma almeno non mi gioco la salute. E poi i meteoriti, non si sa mai.
Infilo la giacca e vado verso la porta. Prima di spingere il battente di vetro in basso, proprio dove mi ero bloccata, inebetita davanti al cadavere obeso di Bingo, scorgo la vecchia del sesto piano. Lei non mi vede, né lei né i marmocchi del terzo ai quali sta parlando. Delle nuove palette di plastica blu e rosso fiammante poggiano sulle loro spalle. Le loro posture noncuranti e fiduciose, come se partissero a cercare un tesoro nello Yukon. Ascoltano attentamente le istruzioni della vecchia, ma non sento cosa dice. Ha un sorriso a fior di labbra. Uno dei mocciosi porta un sacchetto del Carrefour. Distinguo tre sporgenze attraverso la plastica bianca, non più grandi di un kiwi. Attraverso il bianco traslucido, del verde e del giallo.

Da quando non compro più le sigarette, ci sono i biglietti della lotteria. Non vinco mai niente e pago due volte di più, ma almeno non mi gioco la salute. E poi i meteoriti, non si sa mai.

La mano striata di vene della vecchia fruga in una sporta rosa. Come quando mi allunga le sue palle di grasso per uccelli, distribuisce delle caramelle a ognuno dei bambini. Ricevuto il dovuto, se la filano di corsa. Il braccio di quello che tiene il sacchetto ruota, la plastica descrive dei semicerchi nell’aria, sballottano all’interno tre piccoli pompon.  La vecchia guarda i bambini allontanarsi, poi vedo il suo sorriso rivolgersi lentamente verso di me. Un sudore freddo mi invade al pensiero che in una decina di secondi la sua mano magra e macchiata, la sua mano inondata di vecchiaia, si avvicinerà al mio corpo. È l’ora delle palle di grasso. Mia cara, per i nostri amici pennuti. Tre brividi mi accarezzano la spina dorsale.
Resto piantata lì come una stupida, seguendo con lo sguardo la vecchia che si allontana incespicando verso l’ascensore. L’odore rancido delle palle di grasso mi penetra le narici. L’ascensore si richiude, la signora comincia la sua ascesa. Rimango immobile ancora qualche istante, mi domando vagamente se in sua presenza mi sono mai lamentata di altro, oltre alle cocorite. Non saprei, dei ragazzini del terzo piano per esempio.

Foto di Maurizio Di Iorio
Traduzione di Viola Ottino

Il trofeo

Occorre sempre togliere: solo così, ciò che altrimenti
subito scomparirebbe, rimarrà nostro per sempre.
— Gabriele di Fronzo, Il grande animale

Stavo seduto su una panchina al parco a leggere il mio libro settimanale. Vengo qui tutte le domeniche pomeriggio. Ero quasi arrivato a metà frase, quando un anziano signore in completo grigio a scacchi mi afferrò la mano.
«Piacere» disse, prendendo posto. «Guarda un po’» e tirò fuori dalla busta di plastica che aveva con sé la testa di un ratto, nera come la pece. Aveva occhietti rossi come biglie scintillanti, il pelo ad aculei ritto dietro la testa e orecchie scorticate grandi come piattini da caffè. Un paio di persone che facevano jogging lì attorno inorridirono alla vista di quella cosa sconosciuta.
«È così piena di vita!» dissi, a voce alta.
Il signore intervenne: «Dici bene, ragazzo! Questa è un’opera d’arte, imitazione della natura, più vera del vero perché filtrata dalla fantasia dell’artista che valica il reale con la bellezza».
«Ma chi è lei?»
«Mi chiamo Piero Manzoni e sono un tassidermista e un imbalsamatore.»
Mi riferì che la bestia doveva essere consegnata a casa di un cliente. Mi raccontò che da qualche tempo il signor Barrano e signora, sentivano dei rumori provenire dalla cantina e spesso avevano ritrovato dei brandelli di tessuto bianco rosicchiati, che appartenevano all’abito da sposa della signora. Un giorno il signor Barrano, determinato a svelare l’origine di quei rumori, prese una fionda e un bastone, e insieme al suo amico Chio si addentrò in cantina. Appena accesero la luce videro un’ombra dietro una pila di vecchi giornali. I due amici si avvicinarono di soppiatto, e quella macchia nera schizzò dietro un cumulo di scatoloni raggrinziti. Il signor Barrano diede un calcio alla pila di giornali, pensando così di far sbucare la creatura, ma nulla. Poi, il suo amico indicò una punta rosea che pareva un ditale sbucare da un ripiano dello scaffale, tra una conserva di pesche e un vasetto di marmellata di amarene, la preferita della signora Barrano.

Appena accesero la luce videro un’ombra dietro una pila di vecchi giornali. I due amici si avvicinarono di soppiatto, e quella macchia nera schizzò dietro un cumulo di scatoloni raggrinziti.

L’animale, come se avesse sentito il peso dei due uomini sulla punta della coda, scattò su due zampe e con un balzo affondò i suoi gialli incisivi nella carne di Chio, che lanciò un urlo disperato mentre tentava di strapparsi dal petto quella bestia ripugnante. L’urlo lasciò attonito il signor Barrano, ma non scosse minimamente l’essere mostruoso, che continuò a mordere e squittire. In un attimo, il signor Barrano ritornò in sé e afferrò il bastone caduto all’amico. Lo brandì saldamente e provò a colpire quell’ammasso di peli neri, ma le uniche cose che riuscì a centrare furono il polso e le tre dita dell’amico, che si ruppero sul colpo.
Un secondo urlo spaccò l’aria umida della cantina: «Mi hai rotto la mano!», gridò Chio, mentre tentava di liberarsi dalle fauci del mostro, invano. Le mascelle del roditore lo stringevano in una morsa sempre più atroce, e le zampette acuminate gli infliggevano tremende ferite grattandogli via la camicia intrisa di sangue.
«Buttati a terra e rotola!», esordì il signor Barrano, come se avesse avuto l’idea più sorprendente di tutta la sua vita.
L’amico si lanciò a terra e rotolò come un disperato che ha preso fuoco, ma servì a ben poco. La pelle di Chio continuava a sputare sangue, che si allargava per terra in una pozza rossa. Il roditore non mollava, addentava e artigliava. Allora il signor Barrano provò a tirare su l’amico, ma cadde in quella piscinetta rubino. Ancora a terra, il signor Barrano fu preso da un atavico ricordo primordiale e caricò la sua fionda con una pallottola d’acciaio.
Se sbaglio la mira e lo prendo alla testa morirà!, pensò, esitando. Ma devo farlo, non c’è altra soluzione. «Muori, bestiaccia!»
Il topo, come se avesse potuto intendere l’offesa, piegò leggermente il collo verso il signor Barrano e in quell’istante la pallottola gli trapassò il cranio con uno sbuffo di pelliccia e uno spruzzo di sangue. La bestia senza vita aprì le fauci e consumò il suo estremo rantolo, annaspando in quel lago di sangue umano. Istintivamente il signor Barrano diede un calcio all’orrenda creatura e poi si chinò sull’amico.
«Chio, è morto! L’ho ucciso! Ora ti porto all’ospedale.»

L’urlo lasciò attonito il signor Barrano, ma non scosse minimamente l’essere mostruoso, che continuò a mordere e squittire.

Il signor Barrano avvolse il ratto in una busta di plastica e andò al laboratorio del signor Manzoni, che non si tirò indietro e accettò entusiasta l’incarico. Contro il volere della signora Barrano, contro il rispetto per amici e parenti e contro il generale senso del buon gusto, il signor Barrano avrebbe esposto tra le mura di casa il cadavere di quel rifiuto di fogna, perché con questo trofeo avrebbe imbalsamato il proprio coraggio e la propria destrezza per i posteri, oltre a provare agli increduli le titaniche dimensioni del roditore.
«Vi giuro, era poco più grande di quei levrieri che corrono al cinodromo. Aveva denti gialli e ricurvi lunghi come queste matite», raccontava il signor Barrano infilandosi due matite sotto il labbro. «Il muso sfregiato e appuntito, lungo come una baionetta e zampe enormi con artigli uncinati, davvero! E una coda, non scherzo, grossa come un quotidiano arrotolato».
Ben si capisce come le persone si mostrassero riluttanti riguardo a quelle spropositate misure. Nessuno potrebbe realmente credere che esista davvero un ratto di tali dimensioni. Come poteva essere così grande? Eppure questo è quanto mi riferì il signor Manzoni, esattamente come ve l’ho riferita io.
Alla fine il signor Manzoni, con i suoi modi privi di qualsiasi cerimonia, esordì: «Allora, vuoi accompagnarmi dal signor Barrano a consegnargli il suo trofeo?»
Non saprò mai perché, ma accettai. Bussammo e la signora Barrano venne ad aprirci. Era una donna bassina e un po’ in carne, ma comunque di bell’aspetto. Subito alle sue spalle si materializzò il signor Barrano.
«Prego, accomodatevi signor Manzoni. Immagino che in quella busta scura ci sia la mia preda», il signor Barrano sorrise e i suoi occhi furono attraversati da un luccichio di vera gioia. «Ma chi è questo giovanotto?»
«Sono…».
«Caro, non mi presenti ai signori?», disse la moglie.
«Perdonate il suo temperamento», disse, sottovoce. Poi, più sostenuto: «Questa è mia moglie Lucia. Lucia, ti presento il signor Manzoni e…»
«Piacere mio. Il ragazzo è il mio nuovo apprendista», disse il signor Manzoni. Io acconsentii senza scompormi e lui mi sorrise fiero.
La signora Barrano c’invitò a bere una tazza di caffè e ci accomodammo in salotto. Io e il signor Manzoni ci sedemmo sul sofà, il signor Barrano in poltrona e sua moglie gli stava accanto, seduta sul bracciolo.
«Cara, a che punto è il caffè? Perché non vai a vedere?»
La signora ubbidì e si recò subito in cucina e il signor Barrano scattò in piedi.
«Allora, io pensavo di metterlo proprio qui, sul caminetto, sotto la mia licenza di pilota di linea. Sì, perché io sono un pilota!» disse, dandosi un certo tono, mentre con un dito pulì una macchiolina sul vetro della cornice.
«È pronto, arrivo subito!», disse la signora dalla cucina.
Immediatamente il signor Barrano balzò sulla sua poltrona e richiuse la busta. La signora giunse in salotto e servì per primi me e il signor Manzoni. Sorbimmo il nostro caffè lentamente, a differenza del signor Barrano che lo bevve tutto d’un fiato. La sua tazzina incominciò a tintinnare sul piattino e d’improvviso si alzò e disse impaziente:
«Allora cara, non sei curiosa di vedere la bestia?»
Immaginai quella stessa frase ripetuta tra le lenzuola, e l’immagine di quel sesso rugoso mi attraversò il cervello come un chiodo.
«Mi è venuta un’idea, cara. Sentiamo se ti piace. Signor Manzoni, posizioni lei la preda. La metta sul caminetto. Chiudiamo tutti gli occhi e riapriamoli solo quando sarà al suo posto! Che ne dici, cara? Starà benissimo, vedrai.»
Il signor Barrano, inequivocabilmente esagitato, si sfregava le mani e sudava. Puntò la moglie con occhi di bambino. La signora non poté fare altrimenti e gli rispose con un tenero sorriso materno. Di certo, la signora Barrano non agognava avere quello scherzo di natura sul caminetto. Trovarselo in mezzo al salotto, proprio accanto alla foto del nipotino, poi. Da quel momento il grugno del roditore imbalsamato si sarebbe riflesso su quel faccino paffuto, quella coda avrebbe tagliato in due la sua foto da ragazza e quelle zampe avrebbero artigliato quella serie di statuine di gattini vinte alla tombola di Natale del ‘73.
Non dimenticherò mai il pelo duro di quella cosa che striscia sulla busta di plastica. Rumore di gessetti che graffiano sulla lavagna. Poi, il tamburellare della mano del signor Barrano sul bracciolo. Aveva le dita al galoppo. La sua bocca si piegò in un fanciullesco sorriso, come quello di un bimbo che scarta il suo regalo di compleanno.
«Ta-dan!» esclamò il signor Manzoni.
Riaprii gli occhi e osservai per intero quel mutante, di cui prima avevo visto solo la testa. Era un animale dai tratti preistorici, col pelo incatramato. Sembrava provenire da un incubo e metteva una paura ancestrale. Anche gli amanti dell’orrido avrebbero sofferto alla vista di quell’obbrobrio. Il signor Barrano fece un gridolino acuto. Aveva gli occhi iniettati di sangue come se, osservando quella cosa, stesse rivivendo le fasi dello scontro consumato in cantina. Lo sguardo del signor Manzoni, come un pallina da ping-pong, saltava dalla sua Opera d’Arte al signor Barrano, mentre questi aveva occhi solo per la belva. Occhi fissi ed estasiati.

Il signor Barrano fece un gridolino acuto. Aveva gli occhi iniettati di sangue come se, osservando quella cosa, stesse rivivendo le fasi dello scontro consumato in cantina.

Spezzai il silenzio schiarendomi la gola. Poi il signor Barrano esclamò: «Sembra vero! È più bello di come lo ricordavo. Una creatura davvero maestosa. Vero, cara?»
La signora Barrano ci mise un po’ a rispondere.
«Beh, è molto grande caro», disse imbambolata, mentre fissava il luccichio perverso negli occhi del marito. «Ma immagino sarà un ottimo spunto di conversazione», proseguì a denti stretti e con un certo rammarico.

I coniugi Barrano si separarono poco dopo l’arrivo in casa di quell’incubo, lo venni a sapere dallo stesso signor Manzoni. Una notte, mentre andava in cucina per bere, la signora aveva visto quella bestia muoversi e sosteneva fosse ancora viva. Il signor Barrano morì poco dopo, non per la disperazione causata dal divorzio, no, lui oramai viveva per quel ratto, lo venerava. Il signor Barrano perse la vita a bordo del volo AZ 5711, inspiegabilmente caduto subito dopo il decollo. Di lui oggi resta solo quell’incubo preistorico.

Immagine di Rob Stohard