Il progetto fotografico L’animale chiamato uomo è un lavoro di ricerca che si prefigge di rappresentare una possibile sovversione di senso nell’antica problematica del limite tra l’Uomo e l’Animale, contestualizzandola nell’epoca urbana contemporanea.
Di questi tempi, infatti, si parla proprio di era urbana per l’animale uomo in quanto, secondo le statistiche ONU, più del 55% della popolazione mondiale vive attualmente nelle città. Alla fine del suo processo evolutivo pare proprio che l’animale-uomo abbia eletto l’urbano come suo habitat prediletto. Ed è questo il secondo rapporto, quello tra lo spazio urbano e l’uomo, che questo progetto – in fieri – cerca di contorcere e significare in maniera nuova, reinserendo l’animale-uomo negli spazi ormai desueti e lasciati a se stessi del suo stesso habitat.

Il discorso pragmatico-normativo dominante sulla posizione dell’uomo di fronte all’animale e al mondo, si articola sempre in forme diverse nella storia e si annoverano diversi pensatori che hanno analizzato metafisicamente la questione – Aristotele, Cartesio, Kant, Heidegger – ma partendo sempre da premesse molto rigide quali: «l’animale non parla, l’animale ha un’esistenza programmata».
La non-risposta – dato che il loro linguaggio viene identificato dalle scienze come un sistema programmato e limitato di segni – è stata identificata dall’Uomo come premessa di non-libertà per gli esseri che non parlano ne rispondono. L’animale rientra quindi perfettamente nell’immaginario dell’uomo come essere da addomesticare, relegato tra gli assoluti dell’etica della bontà-innocenza e del male-crudeltà, in quanto eterno paragone opposto all’umano.
L’animale rientra perfettamente nell’immaginario dell’uomo come essere da addomesticare, relegato tra gli assoluti dell’etica della bontà-innocenza e del male-crudeltà, in quanto eterno paragone opposto all’umano.

Basti pensare anche solo a cosa hanno ideato le scienze occidentali per rendere la biologia del mondo disponibile ad ogni cittadino pagante in un grande spettacolo di retaggio ottocentesco: lo zoo. Spazio urbano emblema della città moderna nel quale l’animale è ingabbiato per essere a disposizione dello sguardo curioso; lo spazio urbano che esemplifica perfettamente il diritto di dominio e di addomesticamento che l’uomo si è arrogato sul mondo animale nella sua totalità.
Spazio urbano emblema della città moderna nel quale l’animale è ingabbiato per essere a disposizione dello sguardo curioso, lo zoo esemplifica perfettamente il diritto di dominio e di addomesticamento che l’uomo si è arrogato sul mondo animale.
Nel costruire le immagini per questo progetto è stata adottata una riflessione à la Derrida e al suo pensiero espresso in L’animale che dunque sono: “e se l’animale rispondesse?” (Cap III).
Prendendo spunto dal filosofo algerino, Davide Galipò ha iberbolicamente sovvertito il senso di supposta superiorità dell’essere umano rispetto al mondo animale, facendolo decadere e lasciando spazio a nuovi, foucaultiani significati: se mai il sorvegliante diventasse il sorvegliato, come si divertirebbe un Dio a vederci rinchiusi nell’immenso zoo del mondo? E se l’animale fosse dotato di un linguaggio, sarebbe ancora stabilito in questo modo il rapporto di forza Uomo-Animale?
Se l’animale fosse dotato di un linguaggio sarebbe ancora stabilito in questo modo il rapporto di forza Uomo-Animale?
Quest’idea di esplorare il possibile sfondamento della frattura tra i due mondi (U-A) ci ha portato alla realizzazione di collage grafici di sagome di tipi umani su fotografie ambientali che ritraggono i vecchi spazi del dismesso giardino zoologico di Torino.
Questi primi lavori hanno cercato di mettere in luce un ulteriore elemento: il rapporto di disconoscimento che ha l’uomo con i luoghi più desueti e dimenticati dell’urbano, come in questo caso lo zoo di Parco Michelotti.
Gran bella idea! Complimenti!
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Grazie, Daniele!
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