L’Altra Parte e The Weaver sono due progetti di Marco Paltrinieri che oscillano tra spoken word e sperimentazione musicale, usciti tra settembre e ottobre 2020 per Canti Magnetici, che condividono tra loro molto più che l’essere stati pubblicati nell’arco di un mese e l’aver scelto come voce la recitazione analitica, concentrata e colorata d’accenti oltreconfine di Lucie Page, che interpreta testi originali – nel primo caso, di Pierangelo Di Vittorio, filosofo e scrittore – nel secondo caso di Paltrinieri stesso.
Nonostante la penna dietro ai testi cambi, nonostante la forma con cui i due progetti sono presentati differisca (il primo è un unico lungo spoken in italiano, l’altro è un vero e proprio concept album in inglese), la ricerca condotta da Paltrinieri è orientata in entrambi i lavori attorno al tema della percezione e dell’elaborazione dei dati sensoriali, dei loro modi e mezzi, delle implicazioni filosofiche ad esse annesse, del rapporto tra queste ed il tema dell’identità, delle loro conseguenze sul piano sociale (qui non strettamente inteso come rapporto persona-persona, ma più ampiamente come persona-altro) e, viceversa, delle influenze dell’ambiente esterno su di esse. La prospettiva è postumana, sconfinando in maniera accennata verso suggestioni cyberpunk. La mappa del percorso è già tracciata dagli ultimi versi stampati sulla copertina squisitamente testuale di The Weaver: “These images drove me through the world, they were the world. By the time I became aware of this, I knew neither where nor who I was”. Il mondo interiore e quello esteriore si ritrovano nudi, enigmatici e collassati su sé stessi in una serie fitta di scene su cui la voce di Page scivola con sapiente esitazione, quasi suggerendo l’affilatezza dei sensi iperacuiti e il costante dubbio e la costante accettazione, elementi compresenti, generati dal non sapere quanto del percepito arrivi dal piano reale e quanto invece no – che sia nell’osservare la superficie dell’acqua oppure la luce – approcciata in una sezione di L’Altra Parte in maniera sorprendentemente simile a come Jun’ichirō Tanizaki la descrisse nel suo Libro d’ombra.
Il dialogo persona-altro si moltiplica, si amplifica, osservando con quanta abbondanza il noi ed il we tendano a sostituirsi alle forme singolari, invadendo il campo, in quasi ogni componimento. L’altro con cui si parla, l’altro con cui compartecipiamo e l’altro di cui siamo parte sono gradienti di sfumatura non più definiti, vivi assieme nell’azione di un recitare che è meditazione, dialogo, coro e solista. A circondare il tutto, un lavoro sul suono di una raffinatezza eterea disciolto in una forma che non vuole più legarsi a nessuno schema e diventando spesso piano narrativo a sè stante, fino a parlare da solo come in Infinitive Being. Il mondo di suoni che Paltrinieri investe è ricco e immerso nella musica concreta, nell’astratto e nel noise, ed è nel suo utilizzo di foley così dettagliati ed in prossimità, unito ad un sound design minimale ed ad un sapiente rimaneggiamento di tracce vocali, che ritorna il tema delle due opere: la percezione, sempre in bilico tra fascino ed irrequietezza, familiarità e mistero, analisi ed immersione.
L’ALTRA PARTE
Ricordi? Credevamo di non farcela. Piangevamo nascosti in giardino, che sciocchezza! Poi il momento della separazione.
Ora qui è tutto diverso, sai? Noi siamo completamente diversi. E quelli che sono riusciti a dimenticare ciò che eravamo ce l’hanno fatta. Alla fine l’altro mondo è arrivato.
C’è tanto da fare adesso ma ogni gesto è solo un’attesa. L’idea del primo mattone che porta dentro di sé, come una femmina gravida, le architetture di domani, è ormai evaporata. Non c’è più la fretta del progetto che divora attimo dopo attimo. La sua bocca famelica si è richiusa. Adesso si vive in una calma attesa di nulla. Sì, tutto è cambiato.
Pensavamo che, nel rapporto con la realtà, la cosa più importante fosse la luce. Portavamo chiarezza e trasparenza ovunque, dalle vette più elevate alle profondità più abissali. Bramavamo di vedere tutto. La nostra vista aguzza era la spada di un impero che avanzava annettendo i territori del visibile e dell’invisibile.
Alla fine abbiamo invece scoperto che tutto ciò che ha un significato nasce negli interstizi ciechi che solcano e scavano la realtà, all’infinito. Ora lo sappiamo. Che la realtà è infinitamente porosa e che dai suoi infiniti punti di sospensione sgorga il senso, come acqua di fonte, e che negli stessi punti d’intervallo il senso rifluisce. Ora lo sentiamo, che in queste faglie, informi e mute, si creano i legami primordiali con noi stessi e con le altre creature, con l’ambiente, con gli ecosistemi cosmici, con l’indicibile tutto.
Sì, tutto è cambiato e sai quando? Quando ci siamo tolti dalla testa il sogno del mondo perfetto. Quel sogno era come un film che scorreva senza soluzione di continuità nelle nostre reti neurali. E che ci intossicava, da dentro. Era la nostra prigione. Le sue sbarre d’acciaio avevano nomi banali. Si chiamavano sicurezza biologica, benessere economico, bellezza estetica e onnipresenza mediatica. Estirpare dal proprio cervello, espellere dal corpo il sogno del mondo perfetto è stata la più grande emancipazione. Perché, paradossalmente, era proprio il sogno di emanciparsi da tutte le forme di precarietà, comprese la malattia e la morte, che ci condannava a uno stato di minorità cronico. Che erodeva le basi di ogni possibile autonomia. Poi un giorno…
Ci volle un pò prima che ce ne rendessimo conto. I vecchi nemici che turbavano il nostro sogno di una vita perfetta, non solo non ci facevano più paura, ma erano diventati i nostri compagni. Con essi, senza nemmeno realizzare, stavamo uscendo piano piano dalla catastrofe. Il bozzolo si era rotto e dal bruco si vedevano spuntare dei timidi abbozzi di ali. E la vita appariva come uno strano fiore, ibrido e acefalo. Un rizoma che aveva l’aspetto di uno strano montaggio di materiali eterogenei. Una macchina improbabile, fatta di pezzi umani e pezzi animali, pezzi biologici e pezzi di vita inanimata, pezzi di vita spirituale e pezzi di esistenza sociale e politica.
Semplicemente scoprimmo il senso della parola “possibile”.