Se il realismo magico è il racconto puntuale e dettagliatissimo di una realtà “troppo assurda per essere vera”, la voce e le parole di Atzori e il contrabbasso di Perego in Iperrealismo Magico (Studio BNDCKS, 2021) raccontano una iperrealtà fittizia, volutamente grottesca, con echi che vanno dalla poesia alla musica demenziale, che diventa pantomima, performance, teatro dell’assurdo.
“Ho cantato. Io canto sempre”, recita Atzori in Terra mia stupida bitch. “Anche se gridassi, sarei in silenzio” aggiunge però in Silenzio, con parole che sembrano rimboccarlo e che risuonano a distanza di più e più brani come universi, odori, immagini radicalmente diverse, raccolte in quella cornucopia abbondante che è Iperrealismo Magico, album di Luca Atzori & Veronica Perego, menzione speciale al Premio Sanesi di poesia e musica, prodotto da Brattini negli studi BNDCKS. Il disco comprende i componimenti di due differenti raccolte di poesie: Vangelo degli Infami (Eretica Edizioni) e Teorema della Stupidità (Ensemble Edizioni), interpretati da Atzori stesso con la complicità del contrabbasso di Veronica Perego, che lo accompagna anche nelle sue performance live. Infatti Luca Atzori è prima di tutto attore, ancor prima che autore prolifico, regista, poeta e performer, ed è questa la chiave attraverso la quale i suoi testi e i suoi brani – pensati separatamente – acquisiscono una forma unica.
Se già nella scrittura di Atzori vivono echi più aperti di quelli di una sola individualità, risonanze ampie che coinvolgono le vite degli altri vissute quasi in prima persona e che lui stesso accoglie, tra empatia e possessione, per poi in quell’Altro rivedere se stesso, nella performatività si aggiunge un altro layer di alterazione e ritrovamento. L’autore desidera fortemente suonare contemporaneamente sempre diverso e sempre uguale, e il suo eclettismo – presente già nei suoi lavori precedenti – è frutto anche del distacco che applica tra sé e l’opera, sì, ma anche della distanza che interpone con il suo stesso linguaggio.
“In fondo è una cura, distanziarsi tramite la poesia, il teatro, la musica. Un’ipocrisia grazie alla quale la realtà prende forma. E quando questo succede significa che ci stiamo allontanando da essa. Significa che la nostalgia del delirio è l’unico sentimento che possa aiutarci a rappresentare e non spiegare”, racconta lo stesso Atzori nel presentare la sua opera.
Ed è proprio la rappresentazione come fine che svela l’autorialità che sottende a questi brani che, mondi a sé stanti, quasi sembrano estratti da album diversi. Questo album è, a ragione, presentato come raccolta: ciò di cui si parla è largamente lo sguardo di Atzori sulle cose e come esse gli rispondano, né più né meno, con un focus che switcha continuamente e che consente una ripresa di un dettaglio così preciso da toccare l’irreale, il paradossale, il grottesco. Sta in questa soglia tra l’allucinazione nitida e il discorso confuso che riposa la proposta dell’Iperrealismo Magico, che molto ha a che fare col teatro: spogliare la realtà di ogni cosa per poi riaccostarla unicamente agli elementi (non importa più se artificiosi o naturali) utili a descrivere ciò che l’ha generata.
Ascoltare il disco o leggerne i testi diventano quindi esperienze strettamente separate, in cui persino il significato dell’opera stessa muta e si offre a sguardi differenti, come una tragedia greca nelle mani di un regista contemporaneo. La voce pura di Atzori è completamente bypassata, declassata, per scegliere uno strumento che seppur meno personale è più intimo e viscerale, come un musicista che, dimentico delle tecniche introiettate, comunica con maggior profondità con lo strumento che con le parole. In una selva di maschere, i testi contemporaneamente fioriscono e vengono inghiottiti in scelte musicali asservite e sorprendenti: dalla trasformazione di The Garden of Love di Blake, unico componimento non originale dell’album, in un ritornello punk dal gusto simile ai Clash, alla trap di Terra mia stupida bitch. Spesso è proprio quello che si sente nelle orecchie che consegna il significato più grande – o un significato altro – di quello sulla pagina, come in Stalking Stilnovo, dove l’ossessività ritmica con cui il testo viene recitato racconta il personaggio parlante con ancora più chiarezza delle azioni che descrive.

Atzori parla pericolosamente di sé, ancora più direttamente che in prima persona, stando dietro a maschere e riflessi, estetiche ed interpretazioni, quasi fosse l’azione in sé la più importante, la più capace di comunicare il significato sottile dietro alle maglie che, sia nella voce che nei testi, rimangono ancora troppo larghe. Canta, ma starebbe in silenzio anche se gridasse: ecco la coerenza nei suoi versi. Destabilizza proprio per l’assoluta mancanza di sé, eppure colpisce così forte quando, indipendentemente da quale punto del disco si prenda in esame, appare subito chiaro e riconoscibile il suo lavoro nonostante tutti gli strati di metamorfosi e idee dietro ai quali si veste. Il suo lavoro è simbolico, catartico, supera il testo e supera il suono, utilizzandoli come strumento e mai come fine, operando su di sé la complessa magia del perdersi nella pluralità.
(Isidoro Concas)
SILENZIO
Devo confessarti
che ogni volta che mi parli
mentre sei seria
e dici cose importanti
io immagino di infilartelo in bocca
hai delle belle labbra
immagino che se tu fossi me
potresti avere lo stesso desiderio
e mi duole non poco sapere
che tu non desideri te stessa
così come io ti desidero
perché io desidero solo
chi desidera sé stessa come io la desidero
perché solo così
può capire il mio desiderio
e quindi capire bene e a fondo
che cosa intendo quando dico
che vorrei infilarlo in bocca
forse è la fine del mondo
ma voglio lo stesso chiavarti
perché la tua coscia
profuma della tua pelle
che sta dietro la spalla
la tua pelle che è la parte del tuo corpo che più resta in silenzio
anche la tua voce sta in silenzio
sei solo tu che parli
così ti do un’arancia perché tu possa mangiarla
e tu mi rispondi “ma mi ascolti?”
tu non lo sai
ma sei sempre in silenzio
io ti vedo da un’isola
mi taglio la testa
mi faccio una sega
questo è un rito di morte
prendo la metropolitana
fra le tue braccia
come un sortilegio
anche se gridassi sarei in silenzio
perché tutti siamo in silenzio
in realtà
non lo sapevi?
Vorrei scivolare
la mia cappella pulsante
sulla tua lingua
con poche fessure di volta in volta
che cosa è meglio per il cazzo
non poterne più di stare dentro
o non poterne più di stare fuori dalla tua bocca?
il cazzo
è in silenzio
tutto è in silenzio
anche la tua voce,
non lo sai che in realtà
siamo tutti in silenzio?
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