Dal 3 al 5 maggio 2019 si è svolta a Torino, nel quartiere di Barriera di Milano, la prima edizione del festival su nuova poesia e urbanismo dal titolo Poetrification_Urbanismo inverso. A un mese di distanza dalla sua chiusura, apriamo il dibattito sugli argomenti trattati pubblicando la trascrizione della conferenza di apertura a cura di Davide Galipò e Francesco Terzago, tenutasi al teatro Monterosa il 3 Maggio, con interventi di Davide Galipò, Francesco Terzago, Margot Modonesi, Mister Caos.
Davide Galipò
Urbanesimo e nuova poesia
Uno spettro si aggira per barriera.
Buongiorno a tutti e tutte,
quel che sta accadendo negli ultimi tempi, nei quartieri periferici della città di Torino, è sotto gli occhi di tutti: una rimozione forzata.
Il grande “spettro” che sembra aggirarsi come un parassita è quello del lavoro: il distretto più grande di Torino, Barriera di Milano, vive un calo demografico preoccupante. Ciò che aumenta, invece, è la popolazione migrante; un tempo erano i migranti dal sud, oggi sono i migranti africani.
Questa nuova conformazione chiede a gran voce spazi dove poter esprimere liberamente la propria creatività, nutrire le proprie aspirazioni, coltivare interessi e sogni. Ciò che viene dato loro in cambio, quando va bene, è la ghettizzazione forzata – se va male, sfratti e repressione.
Tutto unicamente votato agli interessi di privati che, con la loro influenza nei consigli d’amministrazione, pretendono di ridisegnare i quartieri a proprio uso e consumo, ma chiamano lo Stato a intervenire quando è il momento di usare la forza. Sono gli effetti della cosiddetta “riqualificazione” urbana.
In un clima del genere, ci chiediamo quale ruolo possano avere l’arte e la poesia, in una prospettiva di relazione con l’alterità e di confronto con quella che è la storia e le molte contraddizioni di questo quartiere.
In che modo possiamo porci, tra un aperitivo e l’apertura di un nuovo ipermercato, a pochi metri da qui. Per questo motivo, seguendo un’intuizione di Ivan Fassio, abbiamo scelto di chiamare questo festival Poetrification_urbanismo inverso, mettendoci in dialogo con quello che le neoavanguardie negli anni ’60 e ’70 avrebbero chiamato “arte comportamentale”.
Vi è, in effetti, una differenza sostanziale tra quella che Tristan Tzara avrebbe chiamato poesia “manifesta” e la poesia “latente”. Esattamente come esiste un pensiero diretto e un pensiero indiretto, così come la fotografia è la trasposizione della realtà su un altro piano, la poesia “latente” si concretizza nella trasposizione del linguaggio su un altro piano. Questo ha a che vedere con il pensiero, ma anche con l’azione.
Da qui l’esigenza di creare una serie di momenti, situazioni, performance e poetry slam, che vanno dalla poesia di strada alla site-specific art, dall’azione spontanea al teatro.
L’idea di quartiere che abbiamo in mente prende vita dalla poetizzazione del quotidiano. Forse era questo che i situazionisti francesi intendevano parlando di “urbanismo unitario”: la creatività della poesia al potere per contrastare l’oppressione dell’essere umano nella modernità.
Basti pensare alla proposta di Debord di applicare pareti semovibili agli appartamenti, in modo da modulare lo spazio a seconda dei bisogni – oppure di tenere la metropolitana di Parigi aperta tutta la notte.
A ripensarci oggi, sembrano sogni assurdi di libertà. Eppure, queste stesse idee sono state sviluppate e rese concrete dagli architetti di Berlino, Hong Kong e New York.
Ma il potere, come sempre, non inventa nulla; il potere recupera.
Se, convinti come siamo che la poesia debba essere “accrescimento della vita”, il potere ci darà mai ragione, non lo avremo previsto. Sicuramente, limitare e reprimere le libere forme di vita che abitano questo quartiere renderebbe la poesia un vuoto di significato.
La trasposizione della realtà concreta del mondo esterno sul piano poetico è, dunque, un non-senso.
L’impegno del poeta non è un’azione che ha attinto alla letteratura ma alla vita, nelle sue diverse manifestazioni.

Francesco Terzago
Cite-specific art e poesia di strada nelle zone di confine
Arte urbana e capitalismo: una «religione che non concede abiura»
È anche per me questa l’occasione di tornare su alcuni temi che mi sono particolarmente cari, tra i quali il rapporto che intercorre tra fenomeni di creatività urbana e la dimensione della poesia, e quindi come il sovrapporsi di questi due specifici frame possano – o non possano – generare dei processi esteticamente significativi nel contesto metropolitano.
Dico questo in virtù, soprattutto, della mia esperienza al confine tra due mondi in termini geografici e anche in termini di forme espressive; ho trascorso due anni nella Repubblica Popolare Cinese grazie a delle borse di scambio culturale e di ricerca, occupandomi in quei luoghi del diffondersi della street art e dei suoi linguaggi, rapportando tutto ciò a fenomeni imperialistici o alla globalizzazione. In molti casi, il termine “globalizzazione” non fa che nascondere un principio di dominio, che attraverso una “religione che non concede abiura” – riprendo questo concetto da Benjamin – che è quella del capitalismo, fa sì che in ciascuna cultura del Pianeta trafili un modo, una struttura del pensiero che manifesta poi alcune risultanti.
Quando parliamo di poesia di strada, che è un’espressione felice che porta al contempo alcune criticità, ci stiamo riferendo in particolare a un’insegna sotto la quale, a partire dai primi anni Duemila, tutta una serie di persone operanti nella dimensione muraria hanno cominciato a riconoscersi. Poesia di strada dovrebbe, in linea di principio, considerare un sodalizio – riuscito e maturo, almeno per quella che è la mia visione – tra una componente artistica, una conoscenza delle strutture e dei dispositivi propri dell’arte contemporanea, e un’erudizione nei confronti dei fenomeni linguistici tout-court, e della poesia in quanto genere e soprattutto in quanto veicolo di una funzione linguistica che è quella poetica, come sosteneva Roman Jakobson.
Il sovrapporsi di queste due lenti può produrre un evento estetico rilevante; viceversa, uno dei pericoli che ci troviamo a correre è quello della dimensione spontaneistica della creatività urbana, che si propone come una “mimesi” dei modelli comunicativi della società dei consumi. Perché quando l’esperienza della poesia di strada si avvicina ad uno sforzo egotico, che possiamo incontrare ad esempio nel graffitismo, lo sforzo futuro di un’archeologia del pensiero diventa molto più complesso. La cinghia di trasmissione si interrompe. Questo passaggio, che può apparirvi oscuro, necessita di una breve esegesi.
Quando parliamo di poesia di strada, che è un’espressione felice che porta al contempo alcune criticità, ci stiamo riferendo in particolare a un’insegna sotto la quale, a partire dai primi anni Duemila, tutta una serie di persone operanti nella dimensione muraria hanno cominciato a riconoscersi.
Il graffitismo: «essere come la Coca-Cola»
Il graffitismo ha come “padre putativo” un writer di origine greca, Taki, il quale, nella sua più celebre intervista degli anni ’70, dice che la sua intuizione di scrivere ovunque questo tag, “Taki”, era dovuta al fatto che lui, muovendosi per la città di New York, trovasse ovunque riprodotto il logo della Coca-Cola. Quindi lui dice letteralmente: “Io voglio essere come la Coca-Cola. Io voglio comparire in ogni luogo possibile. Così facendo, occupandomi di consegne a domicilio, ogni volta che raggiungevo un luogo di consegna io lasciavo questo mio segno”.
Questo “segno” è molto diverso dall’Adamo me fecit di poundiana memoria: è la volontà di farsi, in un certo senso, prodotto.Di imitare la funzione stessa del linguaggio persuasivo legato a una merce di consumo, quindi “vendere”, senza che vi sia uno scambio di denaro, un’esperienza: l’esperienza di quel segno specifico. Fino a quel punto, il graffitismo era stato per lo più un fenomeno indagato dai sociologi che serviva a delimitare, apponendo determinati “sigilli”, l’influenza delle bande di strada newyorkesi. Questi segni che comparivano, cioè, sulle pareti, sulle strade, sugli idranti ecc., potevano significare, per chi apparteneva a un determinato gruppo sociale, l’infrangere una consuetudine, cioè l’attraversare un limes, un confine. Questo poteva implicare anche l’aggressione e la morte. Per chi non faceva parte di questi specifici gruppi, tutto ciò era invisibile se non nelle sue componenti criminali, di cronaca, non certo nelle implicazioni dettate da un simile vincolo.
Roland Barthes, i media e l’importanza della «trasmissione»
Perciò io sostengo sempre che la poesia di strada, nel momento in cui non si interroga sul sistema artistico da un lato e letterario dall’altro, al quale può fare riferimento – e c’è un’eterogeneità di esperienze straordinaria in questo senso – se, per lo meno, non si pone delle domande di questo tipo il rischio è che le forze generative che la agitano siano convogliate spontaneamente nell’imitazione di un sistema culturale al quale nessuno di noi può rinunciare. La rinuncia consisterebbe nell’eremitaggio. Da questo eremitaggio, però, Adorno ci mette in guardia: non possiamo rinunciare ai media della modernità; dobbiamo in qualche modo comprendere che il nostro stesso messaggio, benché da essi ricomposto, come se fosse un pulviscolo sottilissimo che entra in una forma e ne va a riempire ogni interstizio, può e deve essere trasmesso.
Non è un caso se anche la riflessione di natura semiologica legata alla parola conduce in questa direzione: c’è una vaga sovrapposizione tra un pensiero di questo tipo e quello contenuto nella Lezione di Roland Barthes. In Lezione, ed è il periodo in cui è più vicino a Foucault, per cui viene invitato alla Scuola di Francia, Barthes non usa mezzi termini: “La parola è fascismo”. Cioè il “codice”, per come ci viene consegnato attraverso i sistemi di indottrinamento scolastico è, di per sé, potere. Solo nel silenzio e negli interstizi tra i segni convenzionali è possibile che sia celata la vastità creatrice di qualsiasi messaggio. Quindi non è la rinuncia alla scrittura ciò a cui noi dobbiamo rivolgere i nostri sforzi, nel momento in cui dobbiamo essere felici “emittenti”, ma dobbiamo considerare in ogni istante, come scrittori, poeti, filosofi, critici, giornalisti, artisti, quello che è il pericolo di lasciarci sedurre dalle forme retoriche di più ampio consumo. Quelle estremamente “efficaci”, tutte quelle che utopisticamente sono definite “fallacee argomentative”.
Con ciò non voglio nemmeno suggerire che poesia, arte, filosofia debbano metodologicamente andare a sovrapporsi, a incidere e ad occupare lo stesso spazio: ci dev’essere sempre una tensione e anche un desiderio di attraversamento. Tuttavia, se questo attraversamento è possibile, lo si deve fare considerando che lo spirito creativo debba continuare a ponderare, a riflettere attentamente su una breve lista di cose: la natura del linguaggio e i mezzi con i quali esso trasmette, soprattutto nella dimensione urbana, perché la dimensione urbana è il registro di tali tensioni da quando essa è avvisabile. Nelle città dell’antica Roma, l’incisione di contenuto poetico, così come l’incisione di contenuto elettorale, era presente. Nel momento in cui assegniamo delle parole ad una dimensione muraria, stiamo potenzialmente lasciando una testimonianza, che nel mio auspicio, assolutamente utopista, deve considerare due fuochi: uno è quello dell’attualità, e quindi del rapido deperimento dell’oggetto di consumo, e dall’altro del contemporaneo, cioè il valore d’uso di quel gesto creativo – tenuto in considerazione anche del sito dove questo si realizza – abbia la forza di riverberarsi attraverso il tempo. Ovvero, che sia uno sforzo attraverso il quale, cogliendo delle urgenze e anche dei conflitti, chi lo sta praticando si possa idealmente porre a un comune tavolo con figure canoniche. Non come canone di memoria occidentale, il canone di Bloom, ma come individui, anche che non hanno avuto la fortuna di entrare a far parte di un sostrato stabilito da delle élite culturali, ma capaci di sedere tutte ad uno stesso “fuoco”. Che è il fuoco del racconto, del quale sono stati tedofori sia un Dante, sia uno Shakespeare, sia tutta una serie di persone che hanno avuto delle intuizioni ma non hanno avuto la fortuna di essere testimoniate.
Nel momento in cui assegniamo delle parole ad una dimensione muraria, stiamo potenzialmente lasciando una testimonianza.

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