Controra

Uscita dalla doccia, si asciuga alla svelta. Poi, completamente nuda, corre in camera da letto. È eccitata, eccitatissima. Tonino le ha dato finalmente appuntamento alla balera.
Sceglie con cura il vestito da mettere. Quelli nell’armadio li ha cuciti tutti lei: le stoffe a fiori, con grasse margherite bianche o tulipani blu, così come le fantasie geometriche.
Oggi indosserà quello a pois. I pois fanno bene all’amore, come tutte le cose tonde: le pesche, le bocce, le tette.
Non fa in tempo a rivestirsi che piccole gocce di sudore le bagnano l’interno coscia. Le sente scivolare fino alle caviglie mentre indossa un paio di tacchetti bassi, ché sennò non riesce bene a frenare.
Si guarda di sfuggita allo specchio, decreta di essere pronta, e si avvia verso la macchina sfidando la calura insopportabile della controra.

Sua madre l’avrebbe messa a letto dopo pranzo e le avrebbe detto di non muoversi da lì prima del tardo pomeriggio, perché fuori sarebbe arrivato il demone Keteb.

 

Sua madre l’avrebbe messa a letto dopo pranzo e le avrebbe detto di non muoversi da lì prima del tardo pomeriggio, perché fuori sarebbe arrivato il demone Keteb.
Parte infrangendo le leggi della siesta. Le cicale friniscono senza tregua e davanti a sé ha solo terra battuta e grano, grano e sole, sole e calore.
Sul cruscotto, una foto di Berto in divisa da ufficiale. Berto è partito e non è più tornato, lasciandole soltanto una festa povera, una notte di fuoco e i dolori del parto.
Mentre guida le cade lo sguardo sulle mani strette attorno al volante. Percorre le linee delle rughe, le ombre delle pieghe interrotte soltanto dal luccichio della fede. Sente ancora le dita di Berto che incerte si intrecciano alle sue, ma a quel tempo le vene non si vedevano, il sangue scorreva senza farsi notare e la pelle era spessa, perfetta, non quella carta velina macchiata di adesso.
Per un istante le cicale tacciono, è segno che il diavolo sta passando. Annarella trema e rallenta, tutto si fa silenzioso, più opaco e impenetrabile. Gli ulivi diventano all’improvviso esseri infernali, dalla corteccia scura. Potrebbero afferrarla e spingerla verso le fiamme che ardono al di sotto della polvere argillosa.

Gli ulivi diventano all’improvviso esseri infernali, dalla corteccia scura. Potrebbero afferrarla e spingerla verso le fiamme che ardono al di sotto della polvere argillosa.

Il rumore ricomincia e lei è salva, al sicuro nella sua macchina, tra i campi.
Più avanti, scorge dei fichi piantati sul ciglio della strada. Li raggiunge e riesce a raccogliere un frutto abbassando il finestrino. Cerca di mangiarlo senza sporcarsi, senza sbucciarlo. Dà un primo morso e poi assapora il resto, prova a baciare l’interno del fico immaginando che sia la bocca di Tonino, gira e rigira la lingua tra i semini e la polpa, ne ingoia poco a poco il succo. Fa quelle cose che fanno le ragazzine inesperte e vogliose, quelle cose saltate quand’era il momento di farle, le fa con la dentiera al posto della verginità.
Uno scambio equo, pensa, ridendo.
Si lecca le dita lentamente, le dita grassocce che usa per fare la pasta alla domenica –  appiccicaticce, dolciastre – prima di tornare alla guida e seguire la retta nera di asfalto che si perde all’orizzonte, sempre uguale.
Scala le marce, accelera e si sorprende a giocherellare col cambio, lo afferra e lo stringe, molla la presa e lo gratta con le unghie, lo accarezza.
Berto è ancora lì che la guarda torvo, con la stessa espressione giudicante con cui una volta l’aveva guardata per minuti e minuti, solo perché lei si era tolta la gonna al mare.
Infila una musicassetta nel lettore e la lascia andare. Suo padre suonava la tromba e le aveva fatto conoscere il jazz. Andava matto per Louis Armstrong, il suo idolo indiscusso. Una volta l’aveva abbracciata fortissimo dopo aver scoperto, grazie a lei, che Armstrong, tradotto, volesse dire «Braccioforte».
Era successo quando erano entrambi già adulti. Lei gli aveva accarezzato un bicipite, dicendo:
«Anche tu papà, sei un Braccioforte».
Lui le aveva fatto segno di avvicinarsi e si era messo a piangere dalla contentezza.
Le sembra di aver vissuto sempre in ritardo: a cinquant’anni il primo momento di affetto con suo padre, a quasi settanta un vero appuntamento.

Le sembra di aver vissuto sempre in ritardo: a cinquant’anni il primo momento di affetto con suo padre, a quasi settanta un vero appuntamento.

Adesso il paesello in cima alla collina è visibile, Annarella è ai suoi piedi.
Arrivando dal mare, non lo si riesce a scorgere, finché non è in prossimità delle porte. Questo piccolo accorgimento dei costruttori, lo aveva salvato per anni e anni dalle invasioni dei pirati saraceni, che – passando con le navi – non si accorgevano della cittadella arroccata.
Una volta dentro le mura, il paese continua a sembrare un fantasma. Le case basse imbiancate a calce riflettono la luce in modo surreale, quasi senza ombre, se non quelle tra le crepe da cui spuntano rovi e arbusti seminati dal vento di Maestrale.
Tonino pressa il tabacco nel cratere della pipa e la accende sfregando un cerino, nel mentre una scintilla lo punge sulla pelle e gli scappa un’imprecazione ai morti e ai santissimi, in seguito alla quale chiede scusa – guardando il cielo – alla Madonna. Aggrotta le folte sopracciglia aspirando il fumo e lo butta fuori rilassando il petto, tira un calcio a un sassolino cercando di sfogare la tensione, stropiccia il fazzoletto di seta che tiene nella tasca dei calzoni.
Dietro la rezza, al fresco, i suoi amici suonano e cantano alticci, così che le parole quasi non risultino parole, ma lagne, grida.  Le femmine se ne stanno sedute attorno alla pista e aspettano che i signori le invitino, ma spesso i signori preferiscono darsi alle carte napoletane, piuttosto che ballare. Lì dentro la musica viene coperta dal chiacchiericcio delle comari, dalle risate degli uomini, dalle voci del vino.
«Buongiorno, signor Tonino!»
«Buongiorno assignuria, Don Michè! Che ci fate in giro con ‘sta calura? Vestito di nero, poi!»
«Eh signore mio, il Padre ha chiamato un nostro fratello e io debbo pur celebrarlo.»
«Stia attento, Don Michè, fino alla chiesa. Ci sta Keteb a controra sulla strada!»
Il prete si fa il segno della croce per scongiurare l’arrivo del demone  e prosegue il suo cammino con scioltezza. Tonino lo guarda andar via e scuote la testa. Non capirà mai gli uomini casti.  Pure lui non si era azzardato a prendere moglie, ma proprio perché le donne erano tutte così belle e scegliere gli sembrava un’offesa per quelle che ingiustamente sarebbero state scartate. Sapeva che la fedeltà non era cosa che gli si addiceva. Aveva deciso di non tradirne nessuna, lui, amandole tutte senza farle di sua proprietà.
«Tonino il biondo», come lo chiamavano le ragazze un tempo, pensa ad Annarella che tarda, lo fa aspettare. Si tocca un po’ in mezzo alle gambe, chiedendosi quanto ancora possa funzionare.

La macchina in salita si spegne di colpo.  Ogni tanto succede. Annarella tira su il freno a mano, tiene un piede schiacciato sulla frizione e uno sull’acceleratore, gira la chiave e comincia ad accelerare facendo ruggire la carcassa.
In cima, nella piazza coronata di lecci, sfila il carro funebre seguito da Don Michele, dalla vedova Trisolini, dai figli Peppino e Mariuccia, dagli amici, dai nipoti e dalla banda di paese che suona cupa A mio fratello del maestro Ippolito. Marciano oscillando come le vocali di un lamento, stringendosi e allargandosi in un pianto, una processione di formiche scure alla ricerca di un nido sotto la terra.
Don Michele china il capo e lo sguardo scivola sulle curve ancora in forma della vedova.
«Requiem aeternam», ripete a bassa voce. Non riesce a spegnerla, c’è ancora quella fiamma.

Gabriel salta nel vuoto e spalanca le ali. Dall’alto la collina è piatta. Avvicinandosi comincia a ergersi, a rigonfiarsi.
Da piccolo guardava gli uccelli planare sulle onde, tuffarsi e risalire in superficie con dei piccoli pesci nel becco. Rimaneva per ore a fissare il loro volo, mentre gli altri bambini costruivano castelli di sabbia o cacciavano granchi e paguri. Certe cose lo annoiavano, non capiva che gusto provassero nell’intrappolare in un secchio le bestie del mare. Lui le prendeva solo per mangiarle, quando gli veniva fame, proprio come i gabbiani.

Annarella lascia andare i freni e schizza in salita a tutta velocità, slittando appena in partenza sulle lastre di pietra.
Tonino è ancora lì all’angolo in attesa, avvolto nel fumo della pipa. Osserva il funerale. Dentro la balera tutti tacciono in rispetto del morto che passa con l’annessa carovana, si sentono soltanto i piatti che battono e coprono i fiati e i tamburi.
Dall’alto qualcosa rotola furiosamente verso la piazza gremita.
Inizialmente nessuno lo nota, poi la distanza diminuisce, il suono delle urla si fa vicino, compete coi piatti della banda, coi tamburi e coi fiati, lunghi capelli avvolgono il rotolio del corpo che precipita, formano come delle fiamme attorno ad esso, accompagnano le urla, anche la gente sotto urla, mentre Annarella accelera e «Braccioforte» è lì che canta e la assorda. Il sole picchia forte sul carro funebre e sulla tonaca di Don Michele, le campane suonano.
Poi, all’improvviso, un ultimo colpo di tamburo, un tonfo e il silenzio.
Lo sportello della macchina si apre, spuntano i pois e i tacchetti, Tonino fa un passo impaurito e si ferma, si inginocchia.
Don Michele si fa un altro segno della croce: lo fa sempre quando si sente scoperto, colto in fallo. Infine sviene, diventa pece sciolta e cola spargendosi al suolo.
La controra è pericolosa, «Keteb arriva come una furia a colpire le anime dei lussuriosi dritte al petto». Tutti lo sanno, ma adesso lo sanno meglio, lo vedono: il demone è lì, sul tetto della macchina.
Nessuno osa muoversi. Anche la foto di Berto è caduta, nello schianto. Annarella la guarda per qualche minuto sul tappetino del passeggero a lato.
«Mannaggia.»
Il cuore le riparte, riesce a sollevarsi e a uscire dalla vettura.
«Che ci fate lì impalati? Chiamate un’ambulanza, rimbambiti!»
Sente il polso al giovane paracadutista sul tettuccio della sua Panda, non batte più.
«Rettifico. Chiamate un altro carro funebre e sollevate quel pollo nero prima che lo faccia io a calci!»
La gente comincia a rinvenire, mormora, si fa coraggio a vicenda e decide sul da farsi. Annarella raggiunge il prete e lo prende a schiaffi, finché non riapre gli occhi, confessando di aver guardato il seno della vedova Trisolini e implorando perdono.
«Alzati Don Miché, hai da fare» gli dice tenendolo per le pieghe della tonaca.
Qualche metro più in là qualcuno bestemmia. Annarella riconosce la voce e gli corre incontro.
«Scusa per il ritardo, Tonì.»
Tonino le accarezza il viso e la rassicura.
«Tranquilla, ho un amico meccanico che farà tornare la tua macchina come nuova.»
La donna che ha davanti è giovanissima, lui ha ancora i capelli biondi e il petto gonfio e presto balleranno.
«È tanto che aspetti?»
«Ho quasi finito la pipa, ma ti ho aspettata.»
Il prete si avvicina al corpo esanime del paracadutista e cerca i documenti, ne legge il nome per raccomandarlo al Signore.
«Hai visto, Tonì? La morte è improvvisa.»
Tonino afferra Annarella dai fianchi e la stringe, dandole quel bacio polposo che sa di fichi che aveva sempre desiderato.
La banda ricomincia a suonare il requiem, il prete tace.
«Mannaggia», dice Annarella, pensando al tempo perso, e infila nuovamente la sua lingua tra le labbra secche di Tonino.

Illustrazione di RESLI

 

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