Tempo diversi sui monumenti

A un mese e mezzo da quella notte, scrivo qualche riga su Monumenti, perché credo sia utile fare il punto sull’operato, talvolta virtuoso, del collettivo Tempi diVersi. Nato come compagine di ventenni improvvisata e mutevole, ha posto l’accento sulla condivisione e l’ascolto della poesia; il gruppo, che comprende, tra gli altri, Tommaso Russi, Andrea Viecelli, Antonio Paciello e Francesco Carlucci, è stato capace di mettere in luce un aspetto poco conosciuto della nostra città.

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Il collettivo Tempi diVersi, nato come compagine di ventenni improvvisata e mutevole, ultimamente è stato capace di mettere in luce un aspetto poco conosciuto di Milano.

Non scriverò una cronaca della passeggiata – ci ha già pensato Luigi Cannillo sul Corriere, qui –, bensì un’associazione di pensieri; preferisco sottolineare il contatto con il mondo, prerogativa necessaria ad ogni scrittore per acquisire la sua materia prima, che nella kermesse di Monumenti è stata costantemente ricercata.
Ciò che secondo molti pareri ha ridotto l’impatto e la rilevanza della poesia nel sentire comune sono l’autoreferenzialità e l’isolamento del poeta. I versi di per sé non significano nulla; certo, si può parlare del proprio personalissimo sentire o dolore o visione del mondo, ma occorre anche che questi lascino qualcosa al lettore perché poi vengano riconosciuti e tutelati.

Ciò che secondo molti pareri ha ridotto l’impatto e la rilevanza della poesia nel sentire comune sono l’auto-referenzialità e l’isolamento del poeta.

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Di questi giochi rimane pochissimo, il ricordo di chi vi ha partecipato, forse, ma sono pur sempre semi gettati che speriamo qualcuno raccolga in ogni città, perché ogni città è muta, quindi distante. I monumenti dovrebbero esserne i portavoce; abbiamo provato a farli parlare con poeti, attori e scrittori dai venti ai sessant’anni. Raccontarvi com’è andata annoierebbe per primo me, quindi non lo farò. Chi c’era sa il clima che si è creato, la sensazione di abitare uno spazio pulsante e vivo ma invisibile e cieco, come un bimbo nel grembo materno.

L’invito è di replicare Monumenti in ogni città, perché ogni città è muta, quindi distante.

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Lo scrittore Marco Philopat in un momento della manifestazione

Scrivo queste righe al tavolino di un monumento di quest’epoca; sono seduto a un McDonald croato senza aver consumato neanche una patatina, spero non mi caccino prima della fine della pagina. È la notte di Halloween, i ragazzini zagrebelesky sono travestiti e bevono per forza dai beveroni, prendono l’autobus verso feste che non vedrò. Ho comprato una penna e una vodka da pochi centilitri per undici kune, un euro e mezzo. È bello essere nessuno. Forse pensano sia zagrebese anch’io. Io quando vedo qualcuno scrivere lo interrompo e gli chiedo come sporca quel foglio, è una curiosità più forte di me. Nessuno mi si avvicina, però. Quattro ragazze addentano i loro cheeseburger, probabilmente parlano di niente. Come tutti. Anche io mi do arie da scrittore senza scrivere nulla di significativo.

La vodka è a metà. Le ragazze hanno finito i cheeseburger. L’ennesima cicca mi brucia le dita. Se qualcuno si avvicinasse a chiedermi cosa scrivo direi: la vita. Irrilevante come queste pagine sporche e come solo i monumenti, apparentemente, sanno essere.

Fotografie di Morgane Quere
Grafica di Isabella Cortese

Il collettivo Tempi DiVersi ha raccontato la mutazione di Milano nel corso del proprio tempo attraverso la passeggiata di Cabine in via d’estinzione (2015) – concentrandosi sull’abbandono di una modalità di comunicazione vissuta da tutti e presto sostituita da un’altra più interconnessa –, seguita da Il sole sorge anche a Milano e Stati d’animo (2016), incentrate invece sul rapporto con la città, fino all’eterno limbo dei ventenni narrato in L’amaro miele della giovinezza (2017), prendendo spunto dai versi di Gesualdo Bufalino. Il tutto con uno sguardo generazionale, saldo al terreno e astratto come le nuvole, calpestando le vie della metropoli lombarda.

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