Per cucinare l’aragosta occorre | Davide Galipò

Non odio la gente
Né ho mai abusato di alcuno
ma se divento affamato
La carne dell’usurpatore diverrà il mio cibo.
Mohamud Darwish, poeta palestinese

La mia vita è stata votata alla ricerca della perfezione. La simmetria, il rispetto dei colori complementari, l’esatto equilibrio tra i quadri appesi alla parete. Né troppi, né pochi. Non sono un curatore, né un gallerista. Però, in un certo senso, potrei definirmi un artista, sì; un artista dalla fervida immaginazione, anche.
Sapete, il materiale con il quale lavoro alle mie performance – tra i più pregiati al mondo – non è affatto a buon mercato, e per procurarselo occorrono meticolosità e accuratezza assolute. Voglio dire, può capitare che alla cena organizzata da un famoso catering qualcosa vada storto, che il pesce non sia stato scongelato all’esatta temperatura, magari perché il maître ha pensato bene di farsi la sua fumatina poco prima di iniziare, che sarà mai, “dopotutto è soltanto una canna”, voi penserete, e invece no: chili di aragoste vomitate sul pavimento in cotto del pied-à-terre, indigestione generale, panico, ambulanze, ospedale, denunce come se piovesse. È proprio questo il genere di imprevisti che possono capitare nel mio lavoro, anche se non mi occupo di ristorazione e anche se questo non è un manuale per cucinare le aragoste. Se non si sta attenti, se non si esegue il piano alla lettera, tutto può precipitare a velocità iperbolica verso l’inevitabile fallimento. E il fallimento non è contemplato.

Se non si sta attenti, se non si esegue il piano alla lettera, tutto può precipitare a velocità iperbolica verso l’inevitabile fallimento. E il fallimento non è contemplato.

Un altro problema può essere rappresentato dai fotografi. Se non sai esattamente dove si piazzeranno, possono destabilizzare la riuscita della pièce in men che non si dica, specie se utilizzano i flash. Trucco sbavato a causa del sudore che cola dritto sulla collana di perle offerta su un generoso decolté. Click. L’oliva greca che va di traverso al sindaco proprio davanti al presidente mentre bevono il loro Martini. Click. La first lady annoiata che flirta visibilmente con un cameriere mostrandogli il culo. Click. Mai una volta che i fotografi non tentino il grande scatto. È nella loro natura. Una copertina sul National Geographic, una menzione di merito al World Press Photo of the Year. Anche se non lo ammetteranno mai, nascondono tutti un animo da paparazzi, e il 4.0 è il loro parco giochi. Ma adesso il gioco si è fatto più difficile: per fare una buona foto, bastano un po’ di fortuna ed uno smartphone. Trovarsi nel posto giusto al momento giusto. Pensate la rabbia di chi ha speso milioni di dollari in apparecchiature fotografiche e si vede superato da un ragazzino che si trovava lì per caso, il quale, se va bene, ha utilizzato un filtro su Instagram: mai sottovalutare il risentimento dei fotografi; sono belve affamate di immagini nella società che ne produce di più, non ne hanno mai abbastanza e ci vuole poco perché si mettano a fare gli eroi.
Ciononostante, è mia abitudine rispettare sempre i margini e i rispettivi ruoli. Anche se inutili, i fotografi sono necessari. Insomma, chi può dire che hai fatto un buon lavoro se questo non è stato opportunamente documentato?
Altra categoria, invece, è rappresentata dai giornalisti. Molti di loro non scrivono neanche, vengono soltanto per mangiare al buffet o per rimorchiare qualche ricca ereditiera. Tirano fuori dal taschino della giacca il loro tesserino rinsecchito e sorridono malconci, beandosi del loro unico privilegio: entrare gratis. Poi copieranno di sana pianta il comunicato stampa, elogiando a caso l’illuminazione e la musica di sottofondo – oppure stroncando in toto la manifestazione perché non hanno gradito l’aragosta (ritorno delle conseguenze all’inconveniente di cui sopra). Ad ogni modo, sono lì per dare una parvenza di rispettabilità e di risonanza alla cosa, e sono realmente convinti che questa non possa andare avanti senza tutta la farsa di cui sono portatori. Ovviamente, questo è falso. In cuor loro lo sanno, infatti non si impegnano neanche più di tanto a rovinare la vita della gente.
Altra tipologia di persone che incontro spesso nel mio lavoro sono i filantropi, benefattori di varia risma, amanti dell’arte in tutte le sue forme. In una parola, i finanziatori. Ci sono poi le autorità, i politici – cui ho fatto già menzione nella parte dedicata ai fotografi – i mondani e i portaborse. Questi ultimi possono variare di età e di ceto, ma hanno tutti scritta in faccia la stessa, identica espressione: “Non so cosa ci faccio qui. Non lo vedi, che vorrei andare via? Insomma, da bambina io sognavo di ballare, e poi fare un viaggio in India alla scoperta di me stessa, incontrare un uomo meraviglioso e continuare a studiare. Invece eccomi qui, a pendere dalle labbra di questo coglione”.
«Una magnifica serata, Melissa», si complimenta la marchesa Von Strade con la curatrice della mostra, esibendo le zanne sporche di rossetto e caviale.
«Troppo gentile, mia cara», risponde lei, ossequiosa.
«Gradisce un altro gin tonic?».
Io le guardo entrambe, statuarie nel loro vestito su misura, e mi permetto persino di passare il cocktail richiesto, facendomi da tramite tra il vassoio del cameriere e i loro guanti bianchi. Mi ringraziano, poi sparisco e rientro nella mia veste di osservatore.

“Da bambina io sognavo di ballare, e poi fare un viaggio in India alla scoperta di me stessa, incontrare un uomo meraviglioso e continuare a studiare. Invece eccomi qui, a pendere dalle labbra di questo coglione”.

Quando l’ambasciatore fa il suo ingresso, nella sala si crea un discreto silenzio, presto interrotto dal brusio che riprende subito dopo, sospeso solo momentaneamente dall’autorevole presenza del nuovo arrivato. Appena comincia il suo discorso, colmo di riferimenti alla Santa Madre Russia e di patriottismo, sull’importanza della vicinanza tra i nostri rispettivi Paesi eccetera, tutti ascoltano distrattamente. Ogni tanto l’ambasciatore fa delle lunghe pause, per dare il tempo alla traduttrice di riportare le sue parole di rito in turco. Durante le pause, si guarda la punta delle scarpe.
A questo punto sollevo una parte della giacca. Sono proprio dietro di lui, ma nessuno fa caso a me. Faccio parte dello sfondo, esattamente come le imitazioni di Masaccio che ho alle mie spalle. Otto colpi bene assestati alla schiena del maiale che sta massacrando la mia famiglia ad Aleppo – uno per mia madre, uno per mio padre, uno per mia sorella, due per mia cugina e il suo ragazzo e gli ultimi tre per mia moglie e le mie due figlie – ed ecco che divento subito protagonista.
Il corpo, del tutto simile a quello di un balenottero spiaggiato, è riverso verso l’alto; per terra non c’è sangue. Sul volto un’espressione di incredulità, la bocca semiaperta che lascia intravedere la lingua, la montatura anni ’60 degli occhiali rialzata fino alle sopracciglia.

Ormai a Istanbul le sirene della polizia si sentono più dei canti dei mujaidin. Semplicemente, la gente ci ha fatto l’abitudine, come si finisce per abituarsi a qualsiasi cosa: le bombe in piazza Taksim, l’abbattimento degli aerei russi in volo, i soldati all’ingresso delle metropolitane e i carri armati attorno a Gezi Park, che stonano all’incrocio con Istiklal, la via più commerciale della città. O meglio stonavano, ora è normale. Le insegne del Burger King e i negozi di Tiger sono soltanto l’altra faccia della medaglia.
“Non si cambia il mondo con una canzone”, diceva Bob Dylan. Neanch’io ho mai pensato di cambiare le cose con il mio mestiere, ma di farle andare per il verso giusto sì, lo ammetto. Il mio è un lavoro delicato, che solo un vero professionista può permettersi di compiere senza sbavature. Se c’è un campo nel quale oggi più che mai è lecito investire, questo è il terrore. Chi sostiene il contrario, verrà puntualmente smentito dalla statistica. Quanti sono i casi di un corretto funzionamento nelle democrazie occidentali? Pochissimi. Se c’è un principio ordinatore dell’universo, questo è il caos. Figuriamoci di uno Stato. Io forzo soltanto le mani del caso, e il principio di volontà che riporta all’azione. Io sono il mezzo, lo strumento attraverso il quale tutto può giungere al suo naturale compimento. Io sono l’alfa e l’omega delle vostre giornate e – anche se la storia mi condannerà – non potrete mai fare a meno di me. Io sono il motivo per cui andate a letto presto e non parlate con gli sconosciuti in stazione. Io sono il vostro odio, la vostra vendetta, il vostro piatto principale e come tale vado servito freddo.

Illustrazione di Sara Dealbera

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