Ci hanno insegnato a non temere il nulla che governa le nostre esistenze. La mancanza di senso tra una parola e quella successiva, il trauma della pagina bianca. Le parole ‘violenza’, ‘guerra’, ‘amore’, ancora prima di significare qualcosa, sono suoni articolati che nella nostra mente riproducono determinate immagini delle cose e delle sensazioni che abitano il mondo. Infatti, siamo alla costante ricerca dell’esatta correlazione semantica tra parola e sua immagine evocata.
C’è una generica tendenza, nell’immaginario occidentale contemporaneo, di totale pessimismo e conseguente conservatorismo che io trovo – oltre che limitante – di una spocchia francamente insopportabile: l’abitudine eurocentrica e tipicamente nostrana a considerare il mondo esterno come qualcosa di finito, sepolto, non più capace di suggerirci alcunché di sensibile e degno di nota.
Nella totale scomparsa di punti di riferimento, vi è una conseguente scomparsa dei generi letterari, in un’attitudine europea e nordamericana a considerare ogni cosa come appiattita, superabile e obsoleta.
Nella totale scomparsa di punti di riferimento – politici o, se preferite, ontologici dell’essere umano – vi è una conseguente scomparsa dei generi letterari, in un’attitudine europea e nordamericana a considerare ogni cosa come appiattita, superabile e obsoleta.
Ma nella letteratura contemporanea c’è ancora bisogno di generi? Forse è proprio questa la domanda che dovremmo porci, data l’incapacità delle esigenze di mercato di interpretare i reali bisogni della vita e, espressivamente, dell’arte. Basti pensare a come il genere fantasy sia stato relegato nella macro-categoria dei young adults, benché il buon Salgari puntasse sicuramente ad altri obiettivi durante la sua produzione.
Ancora una volta, il concetto di Capitalism Realism elaborato ironicamente dal critico inglese Mark Fisher[i] ci aiuta a comprendere perché l’immaginario odierno sia così povero di inventiva. In un mondo senza alternative («There isn’t another way», cfr. Margareth Thatcher), dove non sembrano plausibili altri modi di pensare, di parlare, di vivere, sentirsi sull’orlo del baratro appare quasi naturale.
Proviamo quindi a fare un passo indietro.
Se consideriamo l’estetismo come fenomeno artistico e letterario nato in Europa nell’Ottocento che affonda le proprie radici nella cultura ellenica – riassumendo, la visione apollinea e quella dionisiaca si compenetrano, generando una progressiva crescita della prima a discapito della seconda, pena la mancata civilizzazione della società, in un più ampio disprezzo di derivazione platonica e cristiana verso la materialità della vita a favore di un’ idealizzazione maggiore; gli esteti predicavano invece un recupero dei piaceri e un ritorno a una società arcaica basata sul godimento di derivazione dionisiaca – e che ha tra i suoi massimi esponenti Pater, Ruskin, Huysmans, Wilde e, sul versante italiano, D’Annunzio e, spostandoci al decadentismo, Fogazzaro. Sappiamo che queste idee di creatività e di bellezza assolute provenivano dal «genio», sorta di entità creatrice distaccata dalla realtà circostante e, proprio per questo, eterea. Non per niente, l’idea di «arte per l’arte» si è sviluppata al suo interno e gli esteti di ieri e di oggi considerano il realismo come il fallimento di qualsiasi forma artistica che sia votata alla ricerca del bello.
Il realismo ci ha fornito gli strumenti per tentare di dare una visione, anche se parziale, quantomeno verosimile della realtà circostante.
In risposta, il realismo ci ha fornito gli strumenti per tentare di dare una visione, anche se parziale, quantomeno verosimile della realtà circostante. Con ciò non si è voluta affermare nessuna verità. La vita, da sola, non è letteratura. Dall’osservazione critica e attenta l’arte trae il confronto attraverso il quale può nascere un attrito e, dunque, un senso. Senso di cui oggi più che mai sentiamo il bisogno, proprio in virtù della mancanza di punti di riferimento espressa fin qui.
Ciò che avviene oggi, sebbene sia un fenomeno diametralmente opposto e cioè riguardante il realismo minimale contemporaneo, presenta determinati vizi che dell’estetismo, a nostro avviso, sono eredi illegittimi. Visto che di estetica stiamo parlando, che si tratti di fiction oppure no, dal momento che l’autore opera una scelta sulla messa in scena di un dato preciso, non è un caso che chi propugna la tesi della perdita del dato reale parli di «incorniciare il nulla».
Un carattere estetizzante domina il realismo contemporaneo e si collega direttamente all’incapacità di molti scrittori di gestire il loro (im)personale rapporto con la realtà.
Un carattere estetizzante domina il realismo contemporaneo e si collega direttamente all’incapacità di molti scrittori di gestire il loro (im)personale rapporto con la realtà. La scrittura diventa, allora, una sorta di terapia d’urto, quando va bene, per colmare un vuoto di significato. Un viaggio non è altro che un’esperienza percettiva o – per dirla con le parole del palermitano Giorgio Vasta – «un’ininterrotta descrizione di cose senza mai una consapevolezza precisa»[ii]. Se il mondo ai nostri occhi è privo di senso, ognuno è libero di inventarsi il proprio, sperando che trovi credito presso la cerchia ristretta dei propri simili, come un’installazione o un grazioso gingillo che ci rassicuri, se non totalmente, almeno in parte. Non c’è più niente là fuori, nessun altro a parte noi, perché quell’altro che poteva aprirci un mondo a noi ancora sconosciuto – forse anche perché non ancora rappresentato – lo abbiamo annientato e distrutto. Niente di cui preoccuparsi, dunque. Storie sicure e sogni tranquilli.
In realtà, ad un’analisi più attenta, ci rendiamo conto di essere i testimoni di un’apocalisse che è già avvenuta e che ha nell’autoreferenzialità il suo morbo più ostinato. Riconoscere invece di non essere (più) il centro del mondo, che i nostri modelli di riferimento non sono (mai stati) universali, che al di là della nostra naturale predisposizione al pessimismo in virtù di una (mancata) comprensione della realtà (non) occidentale, c’è un mondo che sta crescendo demograficamente e (non solo) economicamente, è una scoperta che dovrebbe arricchirci, invece di spaventarci.
Non per nulla, quando il fotografo Luigi Ghirri e lo scrittore Gianni Celati realizzavano, negli anni ’80, il loro progetto sul nuovo paesaggio italiano dal titolo Viaggio in Italia, riconoscevano che non si poteva dare una visione esauriente dei luoghi da loro visitati proprio perché questo favoriva un atteggiamento mistificatorio che tendeva a distruggere ogni significato possibile; quello che ha bisogno di una presa diretta, di tempo, sedimentazione e silenzio[iii].
Riconoscere dunque l’Altro come antidoto all’isolamento e alla cultura estetizzante di un mondo che non è finito, ma che sta semplicemente cambiando e che ha bisogno di narratori all’altezza per poterlo raccontare, in un rapporto diretto con l’esterno che possa arginare «il niente assoluto incorniciato e immortalato»[iv] che ci hanno insegnato ad adorare neanche fosse un nuovo dio.
Fotografie di Luigi Ghirri
[i] Per approfondire il pensiero di Mark Fisher, si consiglia la lettura dei seguenti articoli: http://effimera.org/mark-fisher-capitalist-realism-alessio-kolioulis/ e http://www.pixarthinking.it/spettri-e-macerie-dopo-mark-fisher/
[ii] G. Vasta, R. Fazel, Absolutely nothing – Storie e sparizioni nei deserti americani, Quodlibet Humboldt, 2016, cit., p.30.
[iii] Sull’argomento, si consiglia il II capitolo del libro di Giulio Bollati sul rapporto tra italiani e immagine contenuto nel libro L’italiano – Il carattere nazionale come storia e come invenzione, Piccola biblioteca Einaudi, 2011.
[iv] In relazione all’articolo di G. Didino su Pixarthinking del 7 Novembre 2016, Vasta, Dyer e il mondo fuori: https://www.pixartprinting.it/blog/giorgio-vasta-geoff-dyer-mondo-finito/
[…] questo proposito molto si è scritto e ancora tanto si scriverà. Per cercare di dare una risposta potremmo partire dal presupposto che […]
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