Prove tecniche di santità

 Vocale 04.
Registrazione
delle  19:54. 8’ 25’’

Il tramestio della folla in strada aveva in sé qualcosa di trascendentale e materico insieme. A Tino, dopo l’ultimo derby perso dal Toro e la caduta del muro, non era rimasta che la Fede: ragazza tonica, bionda, abbronzata.
– Tu non sai proprio come va il mondo, gli disse, scaricandolo.
Da quando anche con lei era finita – dopo intere settimane di romantica non-arrendevolezza, che il cinismo degli inquirenti filistei si azzardava a definire stalking – non gli era rimasto più nulla, a parte un sibilo che lo rendeva insonne nel silenzio infranto della notte. Quel suono vibrante e alieno lo inquietava da diverse settimane, captando la sua attenzione come una falena attirata dalla luce.
La cosa-misteriosa-venuta-da-un-altro-mondo era comparsa un lunedì alle 9:35, dopo che Tino era rientrato nel suo palazzo, giunto all’ultimo piano per errore: dovendo prendere l’hard disk contenente la presentazione che aveva scordato sul tavolo in cucina, nella fretta aveva pigiato il tasto proibito nell’ascensore, quello segnato con una X di nastro isolante a cui si poteva accedere salendo l’ultima rampa di scale a piedi.

La cosa-misteriosa-venuta-da-un-altro-mondo era comparsa un lunedì alle 9:35, dopo che Tino era rientrato nel suo palazzo, giunto all’ultimo piano per errore.

Quando le porte dell’ascensore si apersero, esitò. Pensò ai denti gialli del principale, ai disgustosi grumi di saliva che gli si addensavano agli angoli della bocca ogni volta che sputava un rimprovero per i suoi ritardi, troppi secondo la politica aziendale. Dopo la mozione di demerito sarebbe dovuto tornare alla sua scrivania tra i sorrisi di scherno, salutare con fare puerile ma colpevole Pietro, Giorgio e me, che come sempre tentavo di coprirlo, dato che dividevamo lo stesso ufficio. Anche quel giorno Barbara, con le gambe accavallate in segreteria, non lo avrebbe degnato di uno sguardo: avrebbe preferito limarsi le unghie e consultare il cellulare per decidere la meta delle prossime vacanze.
Il cartello sulla porta alla fine delle scale diceva ᴘᴇʀɪᴄᴏʟᴏ ᴅɪ ᴍᴏʀᴛᴇ, accompagnato da un teschio con le ossa incrociate – o almeno così mi disse mentre mi raccontava tutta la storia, tentando di convincermi che avesse ritardato per qualcosa di diverso dai video porno con cui si trastullava di solito.
Cosa potrà nascondere di tanto pericoloso? – Tino non fece in tempo a rivolgersi la domanda che il palazzo venne colpito da un blackout improvviso. L’intero piano era freddo e buio. Dalla finestra che dava sul cortile, sentì le urla dei bambini e le lamentele degli altri condomini. Tremò. Il bagliore da sotto la porta illuminò le punte delle sue scarpe. La mano di Tino si mosse sola, guidata da una forza sconosciuta e indipendente dalla sua volontà. Afferrò la maniglia, lo scatto della serratura lo fece trasalire. Rimase immobile. La porta si spalancò, emettendo un cigolio sinistro. Il sordo rumore lo avvolse. La luce irradiante gli inondò le iridi di verde e non riuscì a vedere più nulla. Si riparò con una mano per non rimanere accecato dalla folgore, poi socchiuse gli occhi. Le pupille ci misero un po’ ad abituarsi. Fissò un punto in alto, mettendo lentamente a fuoco, e la vide.

Disconnessione.
Ctrl + Alt + Canc.

La versione leonina di Federica gattonava ai piedi di un letto a lui sconosciuto. Nuda, si arrampicò tra le lenzuola sfatte. Ridendo.
Distese le braccia per raggiungerla, per poterla toccare. Il vetro smerigliato glielo impedì. Poteva assistere a quella scena come dietro ad uno schermo, ma non poteva in alcun modo prendervi parte. Una dura membrana sottile e invisibile lo divideva da quella dimensione, così come dalle altre circostanti. Ruotando il capo di pochi gradi, poteva ripercorrere intere fasi della sua esistenza rimaste intatte nella sua memoria. Adesso non era nell’hard disk: lui era l’hard disk e il tempo gli apparteneva. Pochi movimenti delle dita e il cubicolo lo portò all’infanzia: eccolo da poco rientrato a casa dei suoi genitori in periferia, ancora giovani, con lo zaino in spalla e le scarpe slacciate. Scroll. Eccolo al suo primo esame alla facoltà di ingegneria, con il sudore a colargli giù dal collo della camicia fino al fondo schiena. Poteva quasi riviverne il brivido. Scroll. Ed eccolo, infine, disteso nel lettino singolo della sua camera in residenza universitaria, mentre esplorava per la prima volta, sommessamente, il calore e il piacere di una donna, Margherita mi pare si chiamasse, sì è così, Margherita.

Afferrò la maniglia, lo scatto della serratura lo fece trasalire. Rimase immobile. La porta si spalancò, emettendo un cigolio sinistro. Il sordo rumore lo avvolse. La luce irradiante gli inondò le iridi di verde e non riuscì a vedere più nulla.

Tino si svegliò all’ingresso del suo condominio, i vestiti e il cappello fradici di pioggia. Guardò l’orologio, le lancette erano ferme. Dovette entrare in un bar per capire che ora fosse, le 11:07, prendere il cellulare e comporre il numero dell’azienda, 011 745578…, scusandosi più volte per l’imperdonabile ritardo. Nella mano sinistra teneva la valigetta contenente il computer e l’hard disk. Cercò di ricordare, ma proprio non riuscì a capire come fosse arrivato fin lì. Uscì dal bar accompagnato da quel senso di assurda amnesia, corse sul primo tram in direzione del centro, varcò la soglia del palazzo di vetro dell’ufficio, entrò nell’ascensore e si diresse velocemente al sesto. L’ascensore dell’azienda percorse tre piani al secondo, una vera meraviglia della tecnica. Il signor Burlani lo accolse con la nota di demerito già stampata in mano, senza aggiungere altro. Mancava la sua firma. Tino l’afferrò e la ridusse ad una palla, centrò il cestino sotto la scrivania e accese il PC.
Quel giorno il lavoro proseguì come al solito, senza particolari intoppi. Lo osservai mentre fissava il codice HTML che aveva davanti. Parentesi graffa che chiude parentesi quadra. Due punti e a capo. Una serie di numeri arabi determinava il colore, la spaziatura tra i caratteri e la dimensione del testo. Ogni tanto si divertiva a giocare con la punteggiatura. Così. Per. Puro. Diletto, giusto per passare il tempo prima che scattasse l’ora d’uscita. Poi, al momento di consegnare, rimetteva tutto in ordine. Salutò prima Barbara, che rispose con un cenno del capo ricoperto di riccioli, poi me, e scomparve nel traffico dell’ora di punta.
Mentre tornava a casa, un unico pensiero gli affollava la mente: tornare nel luogo dove aveva visto quella cosa, entrarci e poter assistere ad un’altra esperienza multidimensionale. Quella sera, tuttavia, l’unica cosa che vide fu la lampadina gialla penzolante illuminare appena la penombra dello stanzino all’ultimo piano. Sconfortato, tornò a dormire con la promessa di riprovare il giorno dopo.

Mentre tornava a casa, un unico pensiero gli affollava la mente: tornare nel luogo dove aveva visto quella cosa, entrarci e poter assistere ad un’altra esperienza multidimensionale.

Allora? È quello che gli domandai anch’io mentre mi raccontava. Immaginate la scena: Tino ogni giorno per una settimana intera fece su e giù da casa sua all’ultimo piano del condominio, ma non trovò mai niente. Gli altri condomini cominciarono a pensare che avesse qualche rotella fuori posto, se capite cosa voglio dire. Ogni giorno era sempre più smagrito, sempre più trascurato, sempre più sciatto. Sembrava un santone. Ormai entrava e usciva senza salutare nessuno, sbrigava quel che c’era da sbrigare, come un automa. Non si faceva la barba da giorni, credo di averlo visto con gli stessi vestiti per un mese di fila, fino a quando, poi, sparì del tutto.
Il giorno prima, ero un po’ preoccupato per lui. Gli telefonai.
«È tutto okay» disse. «Devo solo scovare il prossimo accesso.»
Così lo chiamava: l’“accesso”.
Vi dispiace se mi accendo una sigaretta? Okay, okay. Ho capito, non si può. Ad ogni modo, io credo che avesse ragione. Sapete perché? Perché un giorno l’ho vista anch’io.
Non lo so di preciso, saranno state le dieci di sera e mi ricordai di quanto mi aveva detto Tino. C’era un rumore piatto, come un fischio, che echeggiava in tutta la casa. Sì, era appena uscita la notizia del ritrovamento.
Salii le scale e mi accorsi che qualcosa di pesante si era posato sul tetto. Uscii sul terrazzo, coprendomi con la giacca perché, come al solito, pioveva. Sentii il rumore degli ultimi autobus che rientravano.
Da lì potevo vedere mia moglie, in piedi in un angolo, entrare in un grande cilindro verde. In mano teneva una clessidra.
«Maria!» urlai, «sei viva!» ma non riuscì a sentirmi.
Per un attimo ebbi l’impressione che si voltasse verso di me. Ma non era così. Non guardava me: guardava il vuoto, io ero il buio, la pioggia scendeva.
Poi vidi la luce, ma non ebbi il coraggio di seguirla. Mi richiusi dentro, dove il tempo e lo spazio sembravano ancora seguire un ritmo lineare, cercando di resistere al richiamo. È tutto quello che posso dirvi, perché poi sono svenuto.

Vocale 05.
Registrazione
delle  20:03. 0' 19''

Il ragazzo di fronte mi fa cenno di aspettarlo. Interrompe il vocale e salva. Ripone lo smartphone nella tasca, i documenti nella 24ore.
Bussano alla porta, si alza e va ad aprire. Un energumeno in giacca e cravatta entra nella stanza e mi dice di seguirlo.
La liberatoria firmata è già sul tavolo.

Foto di Maurizio di Iorio