I confini della solitudine | Francesco Gallo

Il bus, in leggero ritardo, s’intravide in lontananza. Mikael si alzò di scatto per timore di non essere notato; ad attendere sotto la pensilina in plexiglass battuta da una grigia pioggerellina c’era solo lui. La freccia lampeggiò e il bus accostò. Lo sguardo rasserenato di Mikael scorse appena, sul portellone anteriore, un cartello che non avrebbe dovuto esserci; ad aprirsi fu solamente il portellone centrale – quello a lui più vicino. Non doveva trattarsi del frutto di un’insolita gentilezza, bensì del guasto di quello anteriore, e quello strano cartello stava proprio lì ad avvisare lo spaesato viaggiatore.
Salito con i suoi scarponi madidi schizzanti gocce e rotti squittii, Mikael fece per avvicinarsi alla prua del bus e obliterare il biglietto. Una mano ferma d’autorità glielo impedì: non c’era bisogno, disse a gesti l’autista dal volto involuto nella giacca di servizio; gli indicò il cencio improvvisato che segnava il confine da non oltrepassare e lo invitò gentilmente a prendere posto. Gli sparuti viaggiatori fecero altrettanto: lo invitarono con lo sguardo a prendere responsabilmente posto a distanza (non specificata).
Sembrava che il sogno proibito di un sociofobico fosse stato finalmente esaudito: la lontananza era stata legiferata, motivo di lode la distanza, i contatti tentati gesti biasimevoli e quelli irresponsabilmente compiuti meritevoli di sdegno e disprezzo. Misure giustissime, necessità da prendere in difesa di un’umanità, quella di specie, al costo sottaciuto e inevitabile di un’altra umanità, quella dei poeti –  già segnata e martoriata. Mikael rifletteva di là dal finestrino, guardando lo stuolo d’anziani e giovani sui marciapiedi che, i primi per imbecillità, i secondi per noncuranza, non sottostavano al coprifuoco caldamente raccomandato. Ricordò i suoi genitori, che anziani sarebbero diventati e anch’essi forse piratescamente vaganti.
Uno di loro inciampò e cadde, tra lo sguardo circostante di attenta indifferenza. Un compare d’età gli porse il bastone come mano d’appoggio.

Qual è il confine di là dal quale si è disposti a spingersi? Già da tempo Mikael aveva cominciato a domandarselo. Tutti ne abbiamo uno. Tutti ne hanno uno, si corresse. Ed era questa consapevolezza a tormentarlo. In caso di bisogno, quale sarebbe stato il confine di là dal quale l’estraneo e prossimo non avrebbe osato spingersi? Due metri! Per i più pignoli accademici. Un metro per i morigerati, ottanta centimetri per i generosissimi o centimetricamente sbadati. Posto che c’è sempre un punto x di là dal quale non si è disposti ad andare, di là dal quale vige il “ho fatto tutto quello che era nelle mie potenzialità e nei miei doveri”, altra faccia ipocrita del più schietto e sincero “non è più, se mai lo è stato, affare mio”.
E questo pensiero lo torturava, viveva costantemente nella paura di soffrire o di fare una morte sgraziata per concausa altrui, laddove al suo imminente bisogno gli si presentasse davanti un suo simile dal confine un po’ troppo corto; oppure, nella peggiore delle ipotesi – non tanto impensabile in quei tempi di crisi – laddove il suo bisogno peccasse di sproporzionalità tale da richiedere una generosità altrettanto sproporzionata, una generosità genitoriale. Ed ecco che scopriva cosa realmente gli veniva a mancare: un punto fermo di riferimento, la certezza dell’esistenza nel mondo di una persona che sarebbe disposta a tutto per lui, anche ad andare oltre quel confine. Quella sconfinata generosità che, se si ha la fortuna che Mikael ebbe, si ritrova in due persone in tutta la propria vita, delle quali un bel giorno la vita stessa ti priva. A Mikael la vita aveva già presentato il conto, e come resto una terribile solitudine.

In caso di bisogno, quale sarebbe stato il confine di là dal quale l’estraneo e prossimo non avrebbe osato spingersi? Due metri! Per i più pignoli accademici. Un metro per i morigerati, ottanta centimetri per i generosissimi o centimetricamente sbadati.

Scese dal bus e, con le mani in tasca al riparo dall’aria fredda e avvelenata, si fece strada verso casa. Quel pomeriggio, ad attenderlo, la sua compagna Ulrika, con cui avrebbe condiviso quegli strani accadimenti sottacendole i lambiccamenti.
– Hanno chiuso scuole e università –  lo interruppe.
– Lo so –  lui disse.
Lei stava seduta con un piede sulla sedia e l’altro che penzolava spazientito, pallida di noia. Riprese: – Ho letto sui social di alcune iniziative…
– Iniziative?
– Gruppi di ragazzi che si propongono di dare aiuto agli anziani, fare la spesa per loro, andare in farmacia… cose del genere.
– Interessante – mormorò.
Lo sguardo distante di lei si fece presente, come se l’indifferenza di lui l’avesse rianimata.
Mikael, dopo essersi tolto zaino, scarpe e giubbotto – stavano all’ingresso nella guazza a perdersi d’umidità –  si fiondò comodo sul divano. Si ricompose, spalle contro il troppo rigido bracciolo.
– Bisognerebbe informarsi.
– Ma di cosa? – domandò stizzita.
– Neanche so se in condominio ci sono anziani!
– Uno lo conosco.
– Eh – esclamò. Prese una lunga pausa, forse per pensare oppure per intorpidirla.
– Certa gente non vuole essere aiutata – continuò – Evidentemente, pensano sia cosa da nulla uscire di casa ad una certa età.

I giorni proseguivano come al solito. La pioggia insisteva come volesse lavare via qualcosa d’incrostato da tempo.
Dopo qualche giorno, quelle mezze misure draconiane non si notavano più, alcune cominciavano finanche a farsi apprezzare. Come disdegnare il piacere di salire in metro nelle ore di punta e trovare posto a sedere?
Ma come tutti i piaceri, durò un battito d’ali: prestissimo, di nuovo tutti in piazza a smaltire la sbornia della preoccupazione. Era come se la diffusa apprensione dei primi giorni si fosse concentrata in pochi elementi della società, per cui alla strafottenza della maggioranza si contrapponeva l’estrema cautela e circospezione di quei pochi dalla bocca bendata e le mani guantate di plastica. Mikael aveva imparato l’arte della moderazione che applicò abilmente anche alla dilagante inquietudine del momento. Non gli fu difficile, anche perché ogni proposito di accanimento autoconservativo era come smorzato da una sommessa rassegnazione. Se fosse toccato a lui perire a quel giro del braccio della morte, di che stupirsi? Quante disgrazie aveva scampato, si ripeteva. Non che bisognasse avere nulla di speciale per sentirsi degli scampati al pericolo, giacché chi è disgraziato, colpa non ha se non quella di essere venuto al mondo. Scampò, in fasce, di morire di fame, al mobbing scolastico che porta al suicidio, agli scontri in tangenziale da giovane ebbro d’alcol e onnipotenza; schivò la leucemia dei vent’anni che trafisse il suo vivace collega d’università. E ora, dieci anni più tardi, si considerava un miracolato e avrebbe accettato, a cuor freddo e sereno, se a quel giro di roulette fosse stato lui a perdere la partita. Questa tetra rassegnazione lo rasserenava.
Quei pensieri non li rivelò mai a Ulrika. Non voleva che lei si vedesse come una foglia d’autunno che ondeggia in caduta tra i rami spogli e vive nella paura di imbrigliarsi in essi e non poter atterrare nel musco vetusto. E certamente lui non sarebbe stato capito. Era strano come riusciva ad amarlo non capendolo.

Quante disgrazie aveva scampato, si ripeteva. Non che bisognasse avere nulla di speciale per sentirsi degli scampati al pericolo, giacché chi è disgraziato, colpa non ha se non quella di essere venuto al mondo.


Mikael era seduto sul divano a fissare il soffitto e il lampadario e le sue palle dai vetri smerigliati, come nell’attesa che gli rivelassero le parole che faticava a trovare. Ma doveva trovarle: non c’era più tempo.
Tutto era andato così velocemente: i colpi di tosse, il rapido scadimento, l’incontenibile febbre e infine la sirena dell’ambulanza di ritorno da lavoro.
L’aveva lasciata – la sua Ulrika – nel mattino di buon’ora sul letto, finalmente in pace dal catarro gorgogliante su e giù per la gola; le diede baci, così lievi da al più parere carezze, intorno al suo viso dalla cera macilenta, e andò.
L’aveva sentita per pranzo, stava peggio ma non avrebbe mai immaginato lo fosse tanto quanto si dimostrò essere; nella strada verso casa, all’udire i latrati della sirena capì subito, fuori da ogni presentimento. Durante quei giorni – alle cui nuvole fece posto uno stoico sole raggiante –  avrebbe voluto starle vicino più che mai, ma non poteva. Un confine di sicurezza invalicabile era stato segnato. Ma Mikael riuscì a raggiungere la sua Ulrika in subintensiva, a farle arrivare in qualche modo la sua voce e tornare così a sussurrarle guancia a guancia. Usò un registratore, e vi incise la sua voce in tracce che giornalmente faceva in modo che ricevesse. Le raccontava di come si susseguivano le giornate, di quanto gli mancava e di come si sentiva stupido per tutte le piccole liti che non aveva lasciato spegnere e di quelle che, per taciute incomprensioni, aveva innescato. Le lesse le loro vecchie conversazioni digitali, di quando da giovani innamorati si confessavano sentimenti che di presenza non avevano il coraggio di spiccicare con quel pizzico di sprovveduta esagerazione che è dell’età. Le lesse le apprensioni del padre, le preoccupazioni degli amici. Le lesse la letteratura che tanto amava, e per la quale avevano condiviso momenti insieme; i poeti preferiti – Boye e Montale – con intramezzi di condivise riflessioni e ricordi indissolubilmente legati a quei testi; come quando al verso “Cigola la carrucola del pozzo… [1]” sentirono da lontano un forte cigolìo: si fissarono spauriti, e poi risero. Le lesse di quando la silvana e ardita Lisa dandosi al giovane bel Boccadoro lo instradò e fece uomo. Era un uggioso pomeriggio di domenica quando tempi addietro si immersero in quelle pagine. Al declinare di quel giorno, ricordò, si trastullarono a impersonare quei due giovani amanti in un’ecfrasi che superò in bellezza l’originale; tra carezze, sussurri e guizzi improvvisi non vi fu spazio per l’incomprensione, fu come se andassero all’unisono; e al di là dell’acme del piacere, Mikael, in groppa al postremo sospiro, vide distintamente aprirsi in petto una vasta landa rinverdita e si chiese se, fra la pace di quella natura e la quiete del suo godimento, vi fosse differenza. E quando Ulrika apparve sul limine dell’alcova vestita solo di balze di tende e in mano un cioccolatino alla crema da gustare, lo fecero insieme sotto il piqué da letto, all’unisono.

Si rese conto che, malgrado tutte le barriere fisiche o mentali che possono interporsi tra lui e la sua lei, e tra tutti, non esistono confini; non si è al mondo come parti di un macchinario che può essere ridotto ai suoi singoli pezzi; si è tutti un pezzo al mondo, si è il mondo.

Aveva trovato il modo per valicare quel confine imposto, sentiva realmente di starle vicino. Si rese conto che, malgrado tutte le barriere fisiche o mentali che possono interporsi tra lui e la sua lei, e tra tutti, non esistono confini; non si è al mondo come parti di un macchinario che può essere ridotto ai suoi singoli pezzi; si è tutti un pezzo al mondo, si è il mondo. Il registratore fu per lui solamente un mezzo, non tanto per raggiungerla – non avevano mai smesso di essere vicini – quanto per comprendere questo. Ciò annientò per un attimo la solitudine che lo affliggeva, solidale con Ulrika e con il mondo: probabile soluzione di quella pestilenza.
Ora che Ulrika stava per essere intubata e privata della coscienza, Mikael prese per l’ultima volta il registratore e questo le incise sul nastro:

Nessun lago, quando le nebbie si diradano[2], il grande urlo infinito ammutolisce e la natura si dispiega dinanzi nella sua semplicità, uguaglia il nostro attimo, di carezze, pianti e gioie, successi e delusioni, passeggiate all’aperto, notti bianche a parlare, ridere e giocare, la prima neve, casa e orchidea. Nessun dio può riscrivere la storia. Sarà un attimo il nostro attimo, è vero, ma eterno. Nessun cielo di una notte d’estate che lascia senza fiato giunge così in fondo nell’eternità[3].Ciò che può rattristarmi è soltanto l’eventualità che questa traccia di voce giri a vuoto, che non faccia in tempo ad arrivarti, che trovi la tua coscienza già anestetizzata; allora, m’inquieto nel pensarti impaurita dalla tua malattia. Non aver paura. Sono qui per destarti, amore mio, e dirti “va tutto bene”. Il nostro è stato, è e sarà, l’attimo in cui i confini della solitudine si annientano. Sono stato stupido a dubitarne, a cercare altrove, a rassegnarmi di cercare. Tu sei stata sempre più perspicace di me in questo, lo sapevi già e lo saprai anche in questo momento. Ti accompagnerò io in questo viaggio, lo faremo insieme.

Guardami, gli occhi diventano trasparenti,
ascolta le voci semplici come venti,
niente c’è più da nascondere.
Come posso ora aver paura?
Io non ti perderò mai. [4]

 

 Immagini di paul Blow


[1]Eugenio Montale, Ossi di seppia, Piero Gobetti editore, Torino 1925
[2]Karin Boye, Poesie. Testo originale a fronte, Le Lettere editore, Firenze 1994
[3] Karin Boye, Poesie. Testo originale a fronte, Le Lettere editore, Firenze 1994
[4] Le citazioni sono tratte da L’attimo di Karin Boye.

Bandamianto

Socchiudo gli occhi, trattengo il fiato, le braccia come ali distese ad assorbire le particelle di equilibrio diluite in uno spazio chiuso che trasuda piscio, ruggine e candeggina. L’acido lattico impregna le fibre e coagula nei muscoli delle gambe che tremano per sforzo e paura, ginocchia flesse in un inchino svogliato. Il cuore batte lento e i polmoni gonfiano i propri alveoli trasformandosi in vesciche natatorie nel tentativo inutile di farmi tornare in posizione eretta. Alzo lo sguardo al cielo, vedo il battente della finestra sfiorare un soffitto di nuvole gonfie di pioggia che pulsano come una giugulare recisa e osservo le goccioline d’acqua lottare con la forza di gravità per riuscire a galleggiare nel silenzio di un temporale. 

Partivamo dall’edicola accanto al Bar Savoia in sella a biciclette cigolanti; ogni mattina le stesse strade prima di fermarci nel giardino del castello a raccogliere mozziconi di sigarette.

Bandamianto. Ci chiamavamo così fin da quelle estati senza scuola grondanti di una noia che incollava le magliette alla pelle, giornate perse dentro lo scheletro spolpato dello stabilimento Eternit, un relitto incagliato nel panorama monodimensionale delle risaie.
Partivamo dall’edicola accanto al Bar Savoia in sella a biciclette cigolanti; ogni mattina le stesse strade prima di fermarci nel giardino del castello a raccogliere mozziconi di sigarette. Poi in discesa lungo il viale alberato verso la vecchia fabbrica, dove una recinzione sbocconcellata dalle fauci degli anni fungeva da blando deterrente per un gruppo di ragazzini di provincia con le gambe da insetto stecco e gli zaini pieni di sogni sulle spalle. All’interno delle mura la carcassa del blocco uffici, invasa da piante infestanti intente a ricamare inesorabili lichenificazioni geometriche, marciva sotto il sole tra cataste di macerie e immondizia. Entravamo da una finestra, incurvavamo le schiene e ricordo che poi dovevamo camminare su di un’asse sospesa nel vuoto, in silenzio, un passo dopo l’altro, mentre il cuore martellava la gabbia toracica ogni volta che lo sguardo si perdeva nel buio della voragine sotto di noi. Raggiungevamo in fila indiana il locale mensa, l’unico rimasto intatto, anomala reliquia di un passato effimero perso nella memoria. Esuli detenuti in una prigione dorata, fumavamo tabacco bevendo birre da pochi spiccioli, immersi in luci polverose, credendo di poter sconfiggere chiunque e diventare degli eroi anche solo per un giorno, come nella canzone di Bowie.
E qualcosa in quello spazio fuori dal tempo s’impossessava dei nostri corpi, imputridiva le nostre anime ancora candide e aggrediva le speranze dell’adolescenza ossificandole in una sorta di silente brumazione.

Esuli detenuti in una prigione dorata, fumavamo tabacco bevendo birre da pochi spiccioli, immersi in luci polverose, credendo di poter sconfiggere chiunque e diventare degli eroi anche solo per un giorno, come nella canzone di Bowie.

Riemergevamo da lì mutati fin nelle molecole, col desiderio di avere ogni cosa. Subito. Cominciammo con piccoli furti, poi rapine imbevute di sangue, adrenalina pura che ci avvelenava. Ogni volta rientravamo nelle viscere pulsanti della fabbrica, cani randagi che tornano da chi li nutre sapendo di essere loro stessi un pasto e lasciavamo sempre qualcosa di noi, come l’esuviazione di un serpente che restringe invece di accrescere.
Quando è arrivata Bianca pensavo di poter cambiare vita perché le risate di una figlia sono come il soffio di una valanga, la parte intangibile di ciò che è destinato a sconvolgere tutto.
Sbagliavo.
Bianca era nata una sera d’autunno e aveva ricevuto in dote il coraggio delle foglie accartocciate che resistono sui rami e la silenziosa malinconia delle giornate nebbiose.
Inginocchiato in lacrime davanti al suo lettino, ricordo di averle mentito, promettendole che non sarei più andato laggiù, mentre lei mi stringeva il volto, in cerca di una briciola di verità. Alla fine, sorrideva e annuiva, forse trovando un flebile chiarore disperso nel profondo. Un giorno, però, quel qualcosa ha sussurrato alle nostre orecchie, ha insinuato il dubbio che Bianca fosse un pericolo per Bandamianto, una spina conficcata nelle carni che ne rallentava il passo e la fine della sua esistenza sarebbe stata un sacrificio necessario per spingersi oltre. Un istante che ha destabilizzato la tensione superficiale di una vita e ha scosso il mio cuore di padre, una mioclonia sovversiva che ha reindirizzato un destino forse già scritto.

Alla fine, Bianca sorrideva e annuiva, forse trovando un flebile chiarore disperso nel profondo.


Ora, nascosto nel bagno di un Autogrill, i ricordi diventano reali e la realtà offusca il ricordo. Ascolto la pioggia sull’asfalto del parcheggio e sento le tenebre farsi vicine. Vorrei avere nella tasca della giacca una cimosa magica che cancelli parte del passato e sovrascriva memoria con altra memoria, così da morire senza rimpianti, ma le mie lacrime annacquano quest’ultimo desiderio. Non posso dimenticare i cadaveri dei compagni che ho ucciso a uno a uno e ho abbandonato al loro solitario destino di putrefazione. E non posso dimenticare che per salvare Bianca, i suoi capelli fini, la pelle che profuma di sogni, devo essere certo che nessuno possa farle del male. Me compreso. Non ho più tempo, non posso indugiare oltre, sento che qualcosa sta già invadendo l’amigdala del mio cervello per controllare la paura. Un lampo rischiara la notte e riluce sulla mia pelle sudata e pallida. Poi ritorna il buio. Sento il bisbiglio delle ombre, recido i polsi in profondità, abbandono il corpo, fotogramma immobile che precede una mortifera dissolvenza in nero.

Illustrazione di Gabriele Salvo Buzzanca

Rebecca

La Future Home High School, con il suo altisonante nome inglese, era il vanto dell’intera nazione. Coloro che la frequentavano avevano di norma l’arroganza di chi è destinato a diventare il direttore di una grande azienda o a prestare il proprio nome a un reparto ospedaliero. Se ne andavano in giro per aule, cortiletti e corridoi con attorno un’aura di immortalità di cui solo chi abbia un futuro già scritto percepisce davvero la natura illusoria e, di riflesso, la pressante esigenza di raggirare sé stesso. Non insulterò la vostra intelligenza affermando che stavo al di fuori di tutto questo. Mio padre era un chirurgo plastico e mia madre la dentista delle star: nel mio futuro c’era odore di anestetico e menzogna. Forse per reazione a una simile condanna, sebbene fossi stata abituata a considerare solamente la facciata delle cose, negli anni della mia giovinezza ero attratta da tutto ciò che mi sembrava autentico, reale e genuino. Come ogni adolescente sentivo l’urgenza di vivere tutto e di viverlo subito, ma per noi della Future Home c’era anche qualcosa di più. Ci sentivamo come se stessimo vivendo all’interno di una lunghissima estate, una finestra vacanziera sul confine della vita vera, e sapevamo che ogni relazione che non si fosse consolidata nella prospettiva di una collaborazione professionale era destinata a sciogliersi con l’arrivo dell’autunno, per noi rappresentato dal conseguimento del diploma. Ogni esame superato era un passo in più verso il baratro del nostro successo, e la fine del tempo in cui ci era concesso sbagliare. Così vivevamo illudendoci di essere eterni, convinti di succhiare l’essenza della nostra giovinezza, senza renderci conto che invece la stavamo avvelenando. Ma Rebecca era diversa.
Rebecca, capelli neri, occhi verdi e una bellezza impossibile da ricreare in laboratorio, non era la ragazza più ambita della scuola solo perché aveva un’indole caotica e confusa che la portava a desiderare di nascondersi nel mucchio: peraltro, un desiderio vano. La sua andatura curva, la lacca nera delle unghie e l’aria guardinga non toglievano nulla al suo fascino, bensì le conferivano un alone trasgressivo (non c’era niente da cui Rebecca fosse più lontana) che si sarebbe dissolto se lei avesse acquisito una maggiore consapevolezza di sé stessa, e che a chi è stato omologato tende a incutere paura (motivo per cui molti le giravano alla larga). La sua uniforme era sempre fuori posto, con la camicia bianca che sbucava dal gilet, e a causa di questo Rebecca finiva ogni giorno nell’ufficio del rettore, che l’aveva etichettata come una minaccia alla comune disciplina. Ma Rebecca non lo era, e neppure lo voleva. Ci provava, a essere come tutti gli altri, solo che non ci riusciva.

Ci sentivamo come se stessimo vivendo all’interno di una lunghissima estate, una finestra vacanziera sul confine della vita vera.

A lei era capitata la sorte peggiore per la sua indole. I suoi genitori, famosi sessuologi, le avrebbero lasciato il loro studio, le loro colonne sulle riviste di settore e il loro posto fisso nei talk-show del sabato pomeriggio. Non ce la vedevo proprio, Rebecca, a porgere domande intime ai propri pazienti, quando a Claudia e a me, che eravamo le sue compagne di stanza, non riusciva neppure a chiedere un Tampax.
Claudia non era bella quanto lei, ma per i ragazzi del campus era più rassicurante. Lei e Rebecca si spartivano equamente la fascinazione dell’ala maschile, con la sola differenza che Rebecca non se ne accorgeva. La vicinanza di un’altra persona, e di un ragazzo in particolar modo, le scatenava reazioni di panico e orrore. Il minimo che poteva capitarle era paralizzarsi in preda alle palpitazioni. Per questo, quando si scontrò sul piazzale con Dillinger, un nutrito gruppo di studenti era già pronto a immortalare l’evento per le pagine dell’annuario.
Dillinger, che il suo vero nome lo usavano soltanto gli insegnanti, non lo chiamavamo così perché somigliava al famoso fuorilegge o per le grandi dimensioni del suo pene, ma perché era un outsider. Anche di lui, come nel caso di Rebecca, il rettore si era fatto l’idea che costituisse una minaccia. Nessuno era in grado di vedere cosa si nascondeva dietro la sua facciata.
Quello che tutti videro quel giorno fu il comico schianto tra due individui fuori luogo che si ritrovarono, loro malgrado, a condividere un attacco di panico, sebbene l’idea di condividere qualcosa con qualcuno trascendesse le loro intenzioni presenti e future, mentre i preziosi libri di latino, geografia e trigonometria si infangavano assorbendo l’umidità delle foglie sparpagliate sul vialetto. Ma io vidi qualcos’altro.
Ho già detto che avevo la tendenza a impressionarmi riconoscendo quella particolare bellezza che la sola verità sa rivelare, una qualità a cui tendiamo ad attribuire sempre minore importanza, col tempo, (io stessa ho ormai perso quell’abitudine, purtroppo) – e quei due idioti erano veri.

La vicinanza di un’altra persona, e di un ragazzo in particolar modo, le scatenava reazioni di panico e orrore. Il minimo che poteva capitarle era paralizzarsi in preda alle palpitazioni.

Quel giorno fui la sola in grado di spezzare l’impasse della situazione, mentre gli “immortali” si limitavano a guardare (e la vergogna dei due protagonisti continuava a crescere e a sedimentare) e a deridere quella capacità che loro non avevano (la capacità di provare vergogna) solo per consolidare l’illusione che li manteneva in vita. Non li biasimo per questo, e non li biasimai allora; ma c’era qualcosa nei due ragazzi al centro della scena che mi spinse ad agire allo scopo di riuscire a preservarli. Sapevo che raccogliendo i libri di Rebecca e accompagnandola fino all’ingresso non avrei guadagnato le sue simpatie, (e difatti Rebecca non parve gradire l’inevitabile contatto della mia mano su una zona neutra del suo corpo), ma non mi interessava. Volevo solo sottrarla agli sguardi e ai giudizi degli altri prima che questi potessero inquinarla. Volevo che lei e il suo clone maschile restassero puri, innocenti, incontaminati. E lo sarebbero rimasti per altri cinque anni.
La nostra estate scorreva veloce (anche se allora ci sembrava interminabile) e io cessai di interessarmi alle vicende di Rebecca (anche perché non esistevano) per concentrarmi sulle mie. Non ero popolare come Claudia, ma intrattenni un paio di relazioni sentimentali piuttosto serie ed ebbi cura di riempire i tempi morti con tutte le situazioni di alcol, droghe e intemperanze richieste dall’età. Naturalmente lo studio assorbì la maggior parte delle mie giornate. Superai tutti gli esami a pieni voti e collezionai un ricco medagliere grazie alle gare di atletica. Per tutto il tempo Rebecca fu una figura di sfondo nella mia vita e nella mia stanza, benché quest’ultima, grazie a lei, fosse sempre immersa nel principio dell’entropia termodinamica. All’ultimo anno quasi non ci parlavamo neanche più. Finché arrivammo al giorno del diploma.
Per noi ragazze il giorno del diploma aveva un duplice valore. Non si trattava solamente della fine di qualcosa, ma era anche l’ultima occasione che avevamo per sfuggire alla minaccia del lavoro grazie a una proposta di fidanzamento. Tutto ciò che avremmo dovuto fare, se ci fossimo sposate, sarebbe stato partorire quei due o tre bambini che un giorno, quel lavoro, lo avrebbero svolto per noi. Per Rebecca questa opzione sembrava particolarmente importante, e tutti davamo per scontato che avrebbe accettato la proposta di uno dei suoi pretendenti. Il primo era Gabriel, fratello di Claudia; l’altro Max Schiscetti, primogenito della famiglia fondatrice di una nota casa automobilistica. Lei non si smentì neppure in quell’occasione e si presentò in ritardo, a cerimonia già avviata, mentre il rettore era intento a distribuire coccarde e pergamene. Aveva l’uniforme in disordine, come sempre, e lo smalto non si era ancora asciugato sulle unghie. Lanciava sguardi nervosi alla divisione maschile e, quando le chiesi se qualcosa non andava, rispose che là in mezzo c’era il tipo che le piaceva. Claudia interpretò le sue parole come la conferma che aspettava e, certa che Rebecca avrebbe scelto suo fratello, iniziò a maneggiarla come una sua proprietà. Non amava particolarmente Rebecca, ma non metteva in dubbio la supremazia del suo sangue: se Gabriel la voleva, di certo l’avrebbe ottenuta.

Volevo solo sottrarla agli sguardi e ai giudizi degli altri prima che questi potessero inquinarla. Volevo che lei e il suo clone maschile restassero puri, innocenti, incontaminati.

Claudia non era stata sufficientemente attenta da notare che, per la prima volta, Rebecca aveva osato metterci a parte di un argomento tanto personale. Il ragazzo che le piaceva. Era evidente che qualcosa la turbava, e l’urgenza di prendere una decisione non c’entrava. La lunga estate stava finendo anche per lei.
Io avevo già scelto il lavoro e, come da regolamento, non avrei partecipato alla festa che si sarebbe svolta quella sera. Mi preparai dunque a tornarmene a scuola, dove avrei cenato con le altre ragazze destinate a fare carriera. Ma ero troppo curiosa e sul percorso tornai indietro. Presi Rebecca in disparte e: «Di’ un po’, non è Gabriel il ragazzo che ti piace, vero?» dissi.
Lei scosse il capo, arrossendo di colpo.
«E scommetto che non è neppure Max Schiscetti».
Scosse il capo più forte. Le sue labbra divennero viola.
La buttai lì: «Lo sai, vero, che Dillinger è innamorato di te?»
Non so perché lo dissi, ma qui il capo di Rebecca si fermò.
«Dunque è lui il ragazzo che ti piace?».
Non disse nulla, il suo viso era bianco come un narciso. Capii che avevo fatto centro. Presi Rebecca sottobraccio e la portai a passeggio al solo scopo di farle perdere del tempo. Parlammo molto, o meglio: io parlai e lei fece alcuni cenni con la testa. In seguito sarei stata felice di averlo fatto. Quando arrivammo ai nostri alloggi, tutti coloro che avrebbero partecipato alla festa erano in ghingheri nelle sale comuni. Alla vista di Gabriel che si distaccava dalla folla preparandosi a scortarla, Rebecca fu scossa da un tremito d’orrore e si nascose dietro i tendaggi di velluto.
«Non preoccuparti» le dissi. «Puoi rimanere qui. So che Dillinger partirà su un’auto per i fatti suoi, gli dirò io di aspettarti».
Non rispose, ma nei suoi occhi lessi la speranza.
«Vieni come me», dissi poi, dopo aver compiuto la mia essenziale ambasciata, porgendole una mano che inaspettatamente accettò di tenere nella sua. «Non vorrai mica presentarti in questo modo».
Pensavo che non sarebbe mai riuscita a salire le scale, ma lo fece. Giunta nella nostra stanza rovesciò l’intero contenuto dell’armadio sopra il letto e restò a contemplarlo con aria sconsolata. Non avrebbe mai scelto un vestito da sola, così mi intromisi e lo scelsi per lei. Lasciò il suo piccolo antro in un abito verde di chiffon, del colore dei suoi occhi. Fuori l’impresa era già al lavoro per spazzare via la nostra vita dagli alloggi e prepararli per le nuove leve. I corridoi erano invasi da lunghi teli di nylon mossi dal vento che smorzavano la luce del tramonto attraverso le vetrate. Rebecca si sentì disorientata. Volse il capo e Dillinger comparve all’improvviso, dietro un telo polveroso. Si fissarono a lungo, incapaci di esprimersi a parole. Poi lei gli fu vicino, e lui prese la sua testa sul suo petto e le odorò i capelli neri. Nessuno li ha più visti, da allora. Sono scomparsi in silenzio, attraverso gli strati del tempo, come succede a tutte le cose che ancora sono vere.

Illustrazione di