“Alfredo, mio caro Alfredo! Ma che cosa ti sei messo in testa, santo cielo? Ci rovini la più bella serata della nostra vita!”
Friedrich Dürrenmatt – La Panne
Sembrerà una casualità, ma durante le insurrezioni popolari una delle prime cose che vengono attaccate sono le carceri. Nel giugno 1780 una folla in tumulto assalta il carcere di Newgate, Londra, dandolo alle fiamme e liberando i prigionieri; si dice che fra gli insorti vi fosse anche un giovane William Blake, suggestionato da quelle “tigri dell’ira”.
Il 14 luglio 1789, a Parigi, i rivoluzionari assaltano la Bastiglia, fortezza-prigione simbolo dell’ancien regime.
Il 20 luglio 2001, durante il G8 di Genova, il cosiddetto “black bloc” si sgancia dal corteo principale e si dirige verso il carcere di Marassi, dove cercherà di dargli fuoco.
Quando il vecchio mondo traballa, il carcere viene eretto a simbolo di esso, tanto nelle manifestazioni di rabbia quanto nella difesa di chi vuole conservare lo stato di cose presenti.

Lo sciopero della fame dell’anarchico Alfredo Cospito aggiunge un altro tassello nel decostruire l’idea della pena come “fatto indiscutibile”: che finisca con la declassificazione del regime carcerario in cui è detenuto o con la tragica conseguenza di una protesta che dura da più di 110 giorni, per più di un mese abbiamo potuto vedere una crepa nei dogmi intoccabili di queta società.
Una crepa nel 41 bis, certo, ma conseguentemente anche nell’istituzione carceraria in quanto tale, che nessuno osa mettere in dubbio come se essa fosse connaturata all’esistenza stessa dell’umano.
Come dice Angela Davis: “Il carcere è considerato talmente «naturale» che è estremamente difficile immaginare che si possa farne a meno.”

Eppure, il carcere non nasce con l’avvento della civiltà ma in epoca tendenzialmente moderna. Nel sistema di produzione precapitalistica il carcere come pena non esisteva. Nel medioevo venivano chiusi in prigione i debitori, in attesa che onorassero i loro impegni, e coloro che attendevano di essere processati, per evitarne la fuga o per estorcere loro confessioni torturandoli.
Da un punto di vista strettamente economico, è l’avvento del sistema capitalistico che permette e favorisce la diffusione della pena carceraria. Secoli XV e XVI, Inghilterra: la rivoluzione industriale crea una massa di lavoratori espropriati che diventano mendicanti, vagabondi, briganti. “Alla fine del secolo XV e durante tutto il secolo XVI si ha perciò in tutta l’Europa occidentale una legislazione sanguinaria contro il vagabondaggio. I padri dell’attuale classe operaia furono puniti, in un primo tempo per la trasformazione in vagabondi e miserabili che avevano subito. La legislazione li trattò come delinquenti volontari e partì dal presupposto che dipendesse dalla loro buona volontà il continuare a lavorare o meno nelle antiche condizioni non più esistenti”, scriveva Marx ne Il Capitale.

Con l’epoca dei lumi e i testi di Beccaria e Bentham il carcere stesso, la struttura carceraria, diventa funzionale all’espiazione della pena e non più luogo transitorio fra il processo e la punizione.
Con la nascita dell’istituzione carceraria nasce anche il movimento contro le prigioni, che raccoglie a sé oltre a rivoluzionari e filosofi anche scrittori, poeti, artisti.
Ed è da questo spunto che vorrei gettare uno sguardo a volo d’uccello su chi ha cercato di creare una crepa tra le mura di una prigione con il solo uso della parola.

Fra l’autunno e l’inverno del 1890 Anton Cechov, rinomato scrittore e drammaturgo russo, compie un viaggio verso la Siberia per visitare l’isola di Sakhalin, dove sorge una colonia penale che è a conti fatti, un immenso carcere a cielo aperto.
Qui, in qualità del suo titolo di medico, compila circa diecimila rapporti sugli abitanti dell’isola, di cui più della metà detenuti, andando a costruire un mosaico di tormenti e solitudine.Sakhalin è il carcere perfetto, malgrado non sia costruito sul modello del panottico occidentale: il mare ghiacciato, le infinite distese della taiga, la natura tanto immensa quanto inospitale, rendono la condizione dei detenuti ancora più impotente.
La caratteristica principale del detenuto è infatti una solitudine condivisa, l’impossibilità di essere partecipi alla società, e – in ultima istanza – deumanizzati.
Cechov sembra avere la stessa intuizione di Marx esposta nel libro primo del capitale: carcere e tribunali non servono a eliminare il crimine, perché esso stesso giustifica la loro esistenza.
Cechov, che non era un anarchico né un socialista, descrive la quotidiana serie di torture corporali cui i carcerieri infliggono ai carcerati.
Qui la memoria va a un altro grande reportage sulle colonie penali russe, la Memoria da una casa dei morti di Fedor Dostoevskij, dove l’autore racconta la storia semi-autobiografica di un nobile detenuto nel campo di prigionia siberiano.
Nella comune dannazione carceraria, il detenuto Dostoevskij trova la salvezza individuale e collettiva nel sentimento religioso, mentre in Cechov non c’è alcuna salvezza: Sakhalin è solitudine, violenza e miseria.
L’anno successivo scrive La corsia numero 6, un inquietante racconto su uno psichiatra che finisce per immedesimarsi completamente in un suo paziente rinchiuso in un manicomio in rovina.
In questo transfert, in cui i ruoli di guardia e recluso finiscono per fondersi e divenire interscambiabili, lo scrittore russo coglie l’occasione per sviluppare le sue riflessioni sui luoghi di detenzione:
“Dal momento che esistono le prigioni e i manicomi, bisogna pure che qualcuno vi stia dentro. Se non siete voi, sono io; se non sono io, è un terzo qualsiasi… Ma aspettate, quando in un lontano futuro cesseranno di esistere le prigioni e i manicomi, non ci saranno più grate alle finestre, né vesti da camera. Senza dubbio un’epoca simile verrà presto o tardi.“

Il ministro dell’Interno Piantedosi, durante una recente conferenza stampa, ha detto con fare tra lo stupito e l’indignato: “Gli anarchici vorrebbero abolire il carcere in quanto tale”. Forse sarebbe rimasto meno stralunato dopo un ripasso di Cechov. E di Lev Tolstoj.
Nella storia del giovane Principe Nechljudov che, chiamato a far parte di una giuria popolare e innamoratosi della imputata, una giovane prostituta cui egli aveva contribuito alla sua rovina, c’è una critica serrata al sistema penale: magistrati grotteschi e avvocati inesperti, un sistema burocratico che non guarda alle specificità dei singoli e, infine, al carcere che li degrada.
A differenza della “casa morta” dostoevskjana – che pur aveva suscitato entusiasmo in Tolstoj all’epoca della sua pubblicazione (1860) – la religione non redime l’ambiente carcerario, ma anzi si degrada essa stessa. In un passo l’autore russo descrive una messa svoltasi in prigione: “Il direttore della prigione e i sorveglianti – benché non avessero mai cercato di sapere in che consistessero i dogmi di questa fede, né ciò che significassero quelle cerimonie chiesastiche – credevano che era assolutamente necessario credere in quella fede perché l’autorità superiore, e lo stesso zar, vi credevano. Oltre di ciò sentivano, ma vagamente, (perché non sapevano spiegarsi) che quella fede giustificava la crudeltà delle loro funzioni. Se quella religione non fosse esistita, sarebbe stato loro difficile, anzi impossibile, di adoperare tutti i loro sforzi per caratterizzare gli uomini, come facevano ora, con la coscienza serena.”
Cechov denuncia la condizione del carcere fino a metterne in dubbio l’esistenza stessa, Tolstoj ritiene la prigione un’aberrazione della società e una bestemmia contro l’insegnamento cristico, London – un socialista sui generis – racconta di come la stupidità dell’istituzione non possa piegare del tutto la volontà.
“Ai vecchi tempi si puniva drasticamente e si uccideva rapidamente. Lo facevamo perché così era il volere e se vi fa piacere, anche per capriccio. Ma non eravamo ipocriti, non facevamo appello alla stampa, all’addottrinamento e all’università per ratificare la nostra barbarie premeditata. Quello che si voleva fare lo si andava a fare sulle nostre gambe affrontando la disapprovazione e la riprovazione senza nasconderci dietro le gonne dei vari economisti classici, filosofi borghesi, predicatori sovvenzionati, professori e direttori di giornali.”

15 anni dopo, al di là dell’oceano, è lo scrittore americano Jack London a scrivere un romanzo anticarcerario, Il Vagabondo delle Stelle.
Si narra la storia dell’ex professore universitario Darrell Standing, condannato all’ergastolo per l’omicidio di un collega, alla pena di morte per una lite con un secondino e alla tortura e l’isolamento per via della falsa accusa di detenzione di dinamite.
Durante questo regime differenziato, non così dissimile dal 41bis di cui tanto si parla, assistiamo alle riflessioni del protagonista sulla condizione dei carcerati e ai viaggi nel tempo e nello spazio che compie grazie alla metempsicosi, metafora di come i muri e le sbarre non possano annichilire del tutto la mente umana:
“Sono pazzi! Pensano di poter soffocare la mia immortalità con quel rozzo congegno della corda e del patibolo! Io camminerò. Io camminerò di nuovo e infinite volte sopra questa bella terra; io camminerò incarnato, sarò un principe e un contadino, un dotto e un giullare, me ne starò comodamente al posto di comando e infine a gemere sulla ruota.”

Se i meccanismi di depersonalizzazione della legge non vincono Darrel Standing, hanno la meglio invece su Josef K, lo sfortunato protagonista de Il Processo di Franz Kafka; metafora della condizione umana sul pianeta, il romanzo è anche una angosciosa satira sulla burocrazia insensata della Legge: “Cercare di capire che questo grande organismo giudiziario resta in una certa misura eternamente in equilibrio e che, se uno cambia automaticamente qualcosa lì dove si trova, si scava il terreno sotto i piedi e può precipitare, mentre il grande organismo per quel piccolo disturbo si procaccia agevolmente altrove una compensazione – tutto è in collegamento – e resta immutato, se non diventa forse, cosa che è addirittura probabile, ancora più chiuso, ancora più attento, ancora più severo, ancora più cattivo”.
Ancora una volta, abbiamo la descrizione di organismi che, sotto la propaganda della “giustizia”, non hanno altro scopo che riprodurre sé stessi.

Dalla finzione letteraria alla realtà, l’assurdità della Legge colpisce l’antifascista Belgrado Pedrini; partigiano anarchico, durante la guerra compie svariati espropri ai danni dei fascisti. Le sue azioni, però, vengono giudicate dal tribunale come “crimini comuni” ed egli viene condannato nel 1949 all’ergastolo.
Nel carcere di Fossombrone Pedrini scrive una poesia, Schiavi (più nota come Il Galeone), destinata a entrare di diritto nel repertorio dei canti anarchici e della letteratura anticarceraria:
“Siamo la ciurma anemica
d’una galera infame
su cui ratta la morte
miete per lenta fame.”
Il carcere, solitamente descritto come un Leviatano più biblico che hobbesiano, qui è raffigurato come una galera nella sua accezione originaria, una nave da guerra e da commercio spinta dall’incessante remare degli schiavi: ecco che il mostro-carcere ancora una volta deve la sua esistenza a quelle stesse persone che reclude.
Il 21 agosto 1971 un secondino della prigione di San Quentin, California, spara al detenuto e militante del Black Panthers Party George Jackson; poco prima della sua morte, egli aveva fatto pervenire al suo avvocato il testo Con il sangue agli occhi, una raccolta di scritti che, oltre alle sue idee rivoluzionarie, raccontavano la condizione carceraria dei neri americani.
Secondo Jackson, il carcere assolve la funzione di campo di concentramento per afrodiscendenti e sottoproletari, così da contenere l’esubero di povertà potenzialmente rivoluzionaria creata dal capitalismo.
Gli scritti del rivoluzionario americano arrivano anche in Italia, e il gruppo extraparlamentare Lotta Continua, a fronte anche delle grandi rivolte carceraria del 1969, istituisce una “Commissione carceri” e pubblica nel 72 il libro “Liberare tutti i dannati della terra”, una raccolta di testimonianze di persone detenute in varie prigioni d’Italia, e che ha lo scopo di indagare sul carcere come “scuola di rivoluzione”:
“A noi i detenuti interessano non perché “fanno pena”, ma per il contributo che possono dare alla lotta di classe e alla rivoluzione. È per questo motivo che ci interessano le caserme e magari i manicomi, come i proletari in divisa e i cosiddetti “malati mentali.”
La critica all’istituzione carceraria, in quegli anni, diventa un fatto non più meramente teorico ma pratico; nella primavera del 1974 nascono i Nuclei Armati Proletari, che riunisce il Movimento dei proletari emarginati, il Collettivo George Jackson, nato da alcuni detenuti del carcere di Firenze e le Pantere rosse, formatesi nel carcere di Perugia. La loro prima azione è un messaggio diffuso tramite un altoparlante minato, così da impedirne l’interruzione, davanti a Rebibbia, San Vittore e Poggioreale: “Noi non abbiamo scelta: o ribellarsi e lottare o morire lentamente nelle carceri, nei ghetti, nei manicomi, dove ci costringe la società borghese, e nei modi che la sua violenza ci impone. Contro lo Stato borghese, per il suo abbattimento, per la nostra auto liberazione di classe, per il nostro contributo al processo rivoluzionario del proletariato, per il comunismo, rivolta generale nelle carceri e lotta armata dei nuclei esterni.”
I Nuclei Armati Proletari si fonderanno poi con le Brigate Rosse, aprendo il “fronte delle carceri” per organizzare rivolte ed evasioni. Per chi fosse interessato alle storie di quegli anni consiglio di leggere “L’aria Brucia – Rivolte, solidarietà e repressione nelle carceri italiane (1968-1977)” di Antonio Susca e Giancarla Rotondi, “Correvo pensando ad Anna. Una storia degli anni settanta” del ex militante NAP/BR Pasquale Abatangelo e “Quelli erano i tempi” di Maurizio Ferrari, militante del cosiddetto “nucleo storico” delle BR.
Nel 1975 il filosofo Michel Foucault dà alle stampe uno dei testi più completi sul sistema carcerario, “Sorvegliare e punire – Nascita della prigione”, dove oltre a ripercorrerne l’evoluzione storica, riflette sul precipitato che il carcere ha sulla società intera.
Nell’esaminare la costruzione della prigione come mezzo centrale della punizione criminale, Foucault ipotizza che la prigione sia divenuta un’istituzione sovrana – che tutto egemonizza – nella società moderna. La prigione appartiene ad una rete più vasta, comprendente scuole, istituzioni militari, ospedali e fabbriche, che materializza una società panottica per i propri membri. Società e carcere hanno quindi un rapporto di compenetrazione e co-dipendenza in cui l’uno influenza l’altra e viceversa.
Ed è proprio da un carcere che voglio concludere questa lunga ma incompleta disamina sulla letteratura dentro e contro le galere; nel 1973 l’anarchico Horst Fantazzini, detto “il rapinatore gentiluomo” per via dei suoi modi cordiali nello svaligiare banche, tenta un’evasione dal carcere di Fossano, prendendo in ostaggio due secondini.
Il tentativo finirà nel sangue, dato che Horst verrà crivellato di colpi dai tiratori scelti che, tra l’altro, feriranno anche gli ostaggi. L’anarchico riuscirà a sopravvivere e, nel ‘76, farà uscire grazie al Soccorso Rosso Internazionale di Dario Fo e Franca Rame “Ormai è fatta!”, la cronaca di quel tentativo di fuga. Nei due decenni successivi Horst continuerà a scrivere riflessioni, racconti e poesie oggi raccolti ne Lo statuto dei gabbiani, pubblicato da Milieu Edizioni pochi giorni dopo la sua morte, il 25 dicembre 2001.
Era in carcere, arrestato per una tentata rapina in bicicletta, e aveva passato quarant’anni di galera quasi ininterrotta senza aver mai ucciso nessuno.
Solo un secolo fa, la pena di morte era praticata in quasi tutti le nazioni del pianeta. Neanche sessant’anni fa, in Italia, i manicomi erano ritenuti un’istituzione necessaria per internare le persone con disabilità psichiche.
Meno di quarant’anni fa, la disforia di genere era ritenuta una malattia psichiatrica, così come pochi anni prima lo era perfino l’omosessualità. Le istituzioni e i dogmi di ogni epoca sono sempre percepiti come ineluttabili, eppure vi è sempre stato un superamento che li metteva in discussione per poi abolirli.
Secondo Hegel lo spirito anticipa la Storia, ed esso tanto nella penna di Cechov quanto negli assalti alle prigioni quanto nello sciopero della fame di un anarchico individualista si manifesta per farci scorgere un mondo, finalmente, libero dalle carceri.