A oltranza | La lotta poetica continua

“Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che non può chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta.”

(Walter Benjamin, Angelus Novus, tr. it. Einaudi 1961, p. 80)

La fine della storia è l’incubo da cui tento di svegliarmi. Parafrasando Joyce, di cui questo mese ricorre il centoquarantunesimo anniversario, ci siamo svegliati nel bel mezzo della ripresa della Storia. Come Stephen Dedalus, con buona pace di Mr. Deasy[1], noi pensiamo che la Storia non si muova verso un unico obiettivo, e che per questo si manifesti nei suoi aspetti più crudi e violenti.

Ci eravamo lasciati, nell’articolo su Noumeno dello scorso maggio – contenuto in «Neutopia» vol. X, La società della cura, NdA – con un invito a non considerare la Storia in senso deterministico, matematico, ma ad esaminare i sistemi economici, politici e sociali che hanno determinato la Storia recente – quello neoliberista in primis – come il frutto di diverse narrazioni, a volte contraddittorie, il cui esito fosse ancora da scrivere.

Per molto tempo, ci hanno abituati a credere che la tanto decantata “fine della storia”, con il crollo del muro di Berlino nel 1989, fosse il risultato della vittoria del capitalismo sul resto del mondo e che questa avrebbe portato a un lungo periodo di pace e prosperità.

Eppure, come in un incubo di Paul Dienack, vissuto negli anni ’20 del Novecento ma che aveva immaginato la vita nel XXI secolo, da quando la pace e la prosperità sostenute dallo zio Sam hanno preso il sopravvento, gli Stati Uniti e il Pentagono si sono impegnati in una serie impressionante di “missioni umanitarie per la fratellanza tra i popoli”: Panama, Iraq, Afghanistan, Sudan, Somalia, Bosnia, Yemen, Libia, Siria. Sembra ieri, quando la Russia era a fianco dell’Occidente per distruggere ogni traccia della primavera siriana e salvare il regime di Assad. Invece oggi Putin ricopre il ruolo del cattivo, perché ha osato contrapporsi agli interessi della NATO e ha invaso il Donbass. Ma le cose stanno davvero così?

Collage di Klawe Rzeczy

Come scrive Maurizio Lazzarato in La guerra in Ucraina, l’Occidente e noi:

“La guerra «nasce dalla volontà delle classi capitaliste di ogni nazione di vivere dello sfruttamento del lavoro umano e delle ricchezze naturali dell’Universo» – per cui il nemico principale è, o è anche, nel nostro stesso paese.[2]

Sebbene questo ragionamento possa risultare spiazzante rispetto alla propaganda bellica che vuole che ogni parte pretenda di essere nel giusto, occorre riconoscere che, dal crollo dell’Unione Sovietica, le cose non sono andate come gli occidentali si erano prefissati e che, al contrario, questa visione geopolitica si è rivelata del tutto fallimentare. Benché ci avessero convinti di avere trionfato, in realtà avevamo perso, anche se in modo diverso dai sovietici.

Collage di Klawe Rzeczy

Due grandi superpotenze, la Russia e la Cina, a cui si stanno aggiungendo l’Africa e l’India, si contendono oggi il primato del dominio dell’economia capitalista mondiale con gli Stati Uniti, l’Europa e il Giappone. L’espansione della NATO verso Est e il tentativo del governo capitanato da Zelensky di entrare nella NATO non ha fatto che stracciare gli accordi di Minsk e ottenere l’opposto di ciò che si voleva da Putin, vale a dire un contenimento del tracollo militare iniziato nel 2014 con la guerra in Crimea. Non che Putin sia nel giusto: la Russia di cui il suo governo è espressione è quanto di più lontano dalla giustizia sociale, non c’è nemmeno più bisogno di ribadirlo, ma da una prospettiva nazionalista e capitalista la sua non è che una manovra nell’ottica della costruzione di un nuovo imperialismo, opposto a quello occidentale.

La guerra in Ucraina ha reso evidenti queste contraddizioni, e non sarà certo l’ultima. Come dimostra la corsa al riarmo dei vari Stati del patto atlantico, l’Ucraina è la prova tecnica di una terza guerra mondiale dell’Occidente, combattuta da forze para-fasciste, contro il blocco russo e cinese.

Vivevamo nell’utopia del capitale globalizzato, e di colpo ci siamo svegliati nella distopia di un imperialismo in rovina – quello americano – che pur di non soccombere, sembra pronto a portarci tutti con sé.

Ancora una volta, l’incubo della “fine della storia” viene propagandato come l’unico possibile e chi ne paga le conseguenze sono i popoli, che come sempre vanno distinti da chi li governa, siano questi russi o ucraini. Ecco l’incubo: la faziosità di una lettura deterministica della Storia, epurante la diversità, la pluralità dei popoli. Ma l’incubo è scioglibile? Può essere districato?

Magari ci sveglieremo un giorno con la consapevolezza di essere stati ciechi e ciò che veniva presentato come l’unica soluzione al conflitto altro non era che il preludio alla catastrofe. Come si può testimoniare un evento così traumatico? È possibile raccontarlo, trasformarlo in un’esperienza comunicabile, trasmissibile e, anche, archiviabile? Può, cioè, la ferita, la lacerazione sia individuale che collettiva provocata da una violenza estrema, farsi testimonianza? Come insegna la vicenda di Alfredo Cospito, anarchico detenuto nel regime di 41 bis nel carcere italiano di Sassari e in sciopero della fame da più di 100 giorni, la prospettiva di vivere in questa “tomba per vivi” non è da prendere in considerazione.

Per tornare a Joyce, uscire dall’incubo della “fine della storia” implica una presa di posizione, alternativa rispetto al decadimento dei tempi, che può essere individuata proprio nella figura dell’artista ribelle. L’artista consapevole, mosso dal disgusto verso il presente, indaga le possibilità offerte dalla poesia e prospetta, tramite la sua attività poetica, grazie a questo scontro sociale, un possibile riscatto dall’incubo.

Anche se il tempo dell’avanguardia è finito, non resta che assumerci la nostra responsabilità di artisti contro la guerra, ma anche contro la falsa pacificazione propugnata dai nuovi imperialismi, farci carico di queste contraddizioni per farle esplodere. Accettare che, come scrive Vaneigem, “la dittatura del profitto è un’aggressione contro il corpo. Affidare alla vita la cura d’immunizzarci contro la cancrena finanziaria che corrompe la nostra carne, implica una lotta poetica e solidale.[3]” Per essere vivi, malgrado la morte. Per questo, a oltranza, la lotta poetica continua.

Copertina di Luc Fierens

[1] Il riferimento è a James Joyce, Ulisse, II Capitolo, Nautilus, dialogo tra Stephen Dedalus e Mr. Deasy

[2] https://www.machina-deriveapprodi.com/post/la-guerra-in-ucraina-l-occidente-e-noi

[3] https://www.nautilus-autoproduzioni.org/wp-content/uploads/2020/02/Vaneigem-larinascita-dellumano6.pdf

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