Animaliguida è un progetto nato nel 2018 da Elio D’Alessandro e Roberta Lanave, entrambi diplomati alla Scuola per attori del Teatro Stabile di Torino e che, da lì, conducono una ricerca sui percorsi ibridi tra il testo messo in voce e il suono. L’obiettivo dichiarato del duo è quello di portare sul palco happening tra la performance teatrale e un concerto spoken word, sfruttando le doti canore e attoriali di entrambi, la scrittura di Roberta e le capacità compositive di Elio, che tramite synth, strumenti elettroacustici e drum machine elabora dal vivo il suono.
Il duo nasce infatti da una costola più propriamente musicale, il progetto solista di Elio, che ha dato vita a un desiderio da parte di entrambi di mescolare la parte strettamente legata alla forma canzone dei live con band a un approccio più intimo col pubblico, mediato dal linguaggio teatrale. Passando anche attraverso una prima esperienza col testo scritto, affrontando Le Lacrime di Mirra, una produzione di Teatro Piemonte Europa curata da Marco Lorenzi che vedeva Animaliguida e Gaia Ginevra Giorgi approcciare assieme una riscrittura del mito ovidiano della metamorfosi di Mirra e la sua messa in voce e suono, pian piano il duo decide di scindersi dalla forma band e, parallelamente, concentrarsi sempre di più sulla parola scritta.
“I primi concerti”, raccontano, “erano una amalgama di testi nostri e altrui, musicati e recitati cercando di creare un racconto unitario, un fil rouge chiaro che si dipanasse lungo l’intera performance.”
Il loro prossimo lavoro, il primo a nascere in un’ottica più consapevolmente spoken word, sarà la messa in voce e musica di un poemetto di Roberta stessa, dal titolo Poli(cis)tica, testo da lei stessa descritto come “strutturato proprio come una serie di agglomerati, di cisti, di forma e natura differenti” e che prende vita sonora in un patchwork di stili che talvolta va verso il recitativo, altre verso il cantato, altre volte piega la metrica ad un flow più aguzzo e tendente all’hip hop, altre si colloca in una delivery più intima e decostruita. Con uno sguardo che riesce a mantenere un taglio cosciente di sé, analitico anche nei momenti meno concreti, la scrittura di Lanave affronta un viaggio nel profondo, con quell’impulso lirico che riesce a trasformare – potenza performativa figlia del teatro – il suo racconto in prima persona in immagine plurale in cui rispecchiarsi, cercando i punti in contatto e umanizzando archetipi, seguendo un lavoro sonoro che, nel rispetto delle complessità, mantiene una propria identità stabile inserendo le sue suggestioni con l’attenzione che il testo richiede. In anteprima a questo lavoro, il duo ci propone in esclusiva il primo studio del prologo di Poli(cis)tica, lavoro che programmano di poter portare completo, sui palchi, già tra qualche mese.
Isidoro Concas
POLI(CIS)TICA – PROLOGO
Come si può chiamare buio
questo – smarriti i sensi
e con essi il sentimento
che fa di ogni fenomeno
uno specchio
e di ogni coincidenza
un segno.
La pelle ingrigita non pulsa
la lingua riposa gonfia
le pupille non vedono più:
han fatto assalto all’iride
per sempre inghiottite
le forme, nessun profumo
mi parla del mondo.
Muoio. Io muore.
Ed è bianco rumore.
È precipitare lungo un corridoio
orizzonte a gravità deposta.
Quel che ero non sono più
quel che sarò già sono.
Ogni secondo un omicidio.
Migliaia di corpi ammassati
ai bordi delle strade
ignorati dai passanti e dalle
autorità.
Alle mie spalle crolla
tutto ciò che conosco
si ricostruisce al mio fianco
e crolla
ad ogni nuovo passo.
Sono immanente
inoppugnabile
eppure non consisto.
La realtà è stradimensionale
fatta di sole – frequenze.
Amo ciò che non comprendo.
Quel che mi lascia sguarnita
moribonda. Quasi vinta
eppure con un briciolo di forza
per gioire alla conquista che verrà
più in là nel tempo mai nel punto
del presente che potrebbe uccidere
il pensiero.
Amo ciò che non trattengo
che mi abita come un vecchio silenzioso
che coltiva un giardino nel mio petto
e diligente lava le finestre
e discreto riaccende il fuoco spento
tanto per fare una minestra
e star quieto e leggere nelle veglie.
Sono una popolazione – io
mi occupo dei loro passaporti,
li nutro con sempre nuovi sensi
e sollecitazioni e nuovi
sogni e visioni
di quel che potremmo essere
o fare.
Li tengo vivi con promesse
che si dissolvono – meduse al sole
lumache sotto sale.
Sono un presidente
sovrana spesso assente
spesso in ospedale
firmo dichiarazioni di guerra
e trattati di pace
con fervente distrazione.
Vola la berta marina
sul mar dei sargassi e dice
di trovarmi un porto
di scrostare le conchiglie
dai forzieri e usare il bagaglio
perchè non affondi.
“Mezza donna e mezzo uccello
io sono la sirena
io son colei che chiama
io son colei che sposta che plasma
che informa che interra la ghianda
che traccia la rotta, munita
di lira. La nave è ormai attratta
rapita nei gorghi del sapere.”
E i cittadini costretti
a farsi marinai
guardano una piuma cadere
e dondolare sul pelo dell’acqua
finchè tra loro uno la raccoglie
e la usa per penna
e scrive sul diario di bordo
di quanto vorrebbe essere un uccello
e perdere una piuma nel mare
affinchè qualcuno la raccolga
e la usi per scrivere quanto arde in sé il desiderio
di farsi uccello e solcare distese immense
e battere le ali tanto forte
da perdere una piuma e vederla volteggiare
fino alla superficie dell’oceano
dove qualcuno la troverà e penserà di farne una punta
da intingere nell’inchiostro per vergare su un foglio
il sogno di volare e planando verso una preda marina
smarrire una piuma e dimenticarla lì a galla
ad attendere paziente che un marinaio la raccolga
e ci scriva di quando è stato uccello
e tutto ha visto dall’alto e di come ha tentato cantando
di dire al mondo di non difendersi dai propri sensi
ma di andare incontro al fuoco e vedere e sentire e odorare
com’è la carne che brucia, com’è quel fuoco
quando non è fonte che genera ombre
ma viva cosa che grida.