Ea son, tite sè, lu lè,
non semmo, vu si, no reiè.
Presente del verbo essere
in gombitellese
Edo ha 83 anni, due occhi azzurri come la distesa di Mar Tirreno che si scorge da Gombitelli e una bocca grande, sdentata, collaudata al sorriso. Non è stato difficile constatare ciò, dato che come le altre poche persone che ho incontrato tra le viuzze di Gombitelli, anche Edo non indossa la mascherina. Qui del Coronavirus non sembra esserci stata traccia o, quantomeno, la pandemia non è stata percepita come qualcosa di vicino e pericoloso. Solo l’albergo-bar-ristorante, ultimo locale rimasto nel paese, non ha riaperto nonostante la fine del lock-down.
“Ma che Coronavirus! Un c’incastra niente cor fatto che un hanno ancora apetto l’abbeggo”, mi racconta Edo con la parlata tipica camaiorese. “È corpa della divisione tra fratelli…”.

Gombitelli è una frazione del comune di Camaiore arroccata sul versante orientale delle Alpi Apuane, a cinquecento metri circa di altitudine, situato tra la Lucchesia e la Versilia. Il paese è raggiungibile attraverso una strada stretta e tortuosa che, arrampicandosi sui verdi fianchi del Monte Calvario, giunge a quel cumulo di case e stradine in pietra che fanno di Gombitelli un vero e proprio ‘presepe vivente’.
Poche persone sarebbero propense a imboccare il ripido bivio che porta a Gombitelli, se non fosse per la presenza di un piccolo cartello dallo sfondo marrone che si sporge a lato della ‘camaiorese’, la via alberata che, passando da Montemagno (paese in cui visse e morì il cantautore milanese Giorgio Gaber) collega Camaiore a Lucca.
Sul cartello c’è una scritta: “Gombitelli – isola linguistica”.

Qui, infatti, fino alla prima metà del Novecento, si parlava una lingua completamente diversa da quella parlata dagli abitanti dei paesi circostanti. Una lingua incomprensibile per coloro che non erano cresciuti a Gombitelli. Una lingua di cui qualche parola la si può ancora sentire pronunciare dagli anziani del paese, ma che è destinata, inesorabilmente, a scomparire.
Il dialetto gombitellese ha origine gallo-romane e probabilmente risale al tentativo di Paolo Guinigi, signore della Repubblica di Lucca, di ripopolare il paese di Gombitelli decimato dalle tre ondate di pestilenza susseguitesi nel Trecento. Così, nel 1450 la Repubblica di Lucca inviò a Gombitelli alcune centinaia di persone per lavorare il ferro e fabbricare spade, pugnali e chiodi. Erano gente senza fissa dimora, spesso provenienti da varie parti del Nord Italia, molti di cui erano stati mercenari al seguito degli eserciti di passaggio. In un luogo impervio, al riparo da contaminazioni esterne, queste persone finirono con il creare un nuovo idioma che condivideva alcune parole con il dialetto lombardo, piemontese ed emiliano.

Chiedo a Edo se mi fa sentire un assaggio del dialetto gombitellese.
“Un tempo si parlava, ora non un lo parla più nessuno. Io conosco solo alcune parole” mi dice Edo e inizia a sciorinarmi delle frasi che alle mie orecchie suonano vagamente comprensibili. Mi spiega che “andemme accatoa” significa “andiamo a casa tua” e che “omme” sta per “fratello”.
Edo mi invita nella sua casa (o per meglio dire, accasoa) e mi mostra dei documenti storici sul paese e sulla lavorazione del ferro, arte in cui i fabbri di Gombitelli erano considerati maestri in tutta Italia. Qui, durante la guerra del 15-18, vennero prodotti i gavorchi, i chiodi che furono montati sulle suole degli scarponi dell’esercito italiano. Per la loro artigianalità e necessaria velocità di realizzazione, i gavorchi uscivano dalla bottega l’uno diverso dall’altro, con la testa irregolare e il fusto storto. Oggi, in lucchesia, la parola “gavorchio” è sinonimo di “brutto e fatto male”.

Nella prima metà del Novecento, Gombitelli contava circa novecento abitanti. Adesso ne sono rimasti meno di cento. “Ormai il prete viene da Camaiore una volta ar mese per fa la messa, e il 29 settembre, la festa di San Michele un si festeggia più” mi dice Edo che si mette a ridere quando gli chiedo se il paese abbia un sindaco.
“Ehi, un tempo. Adesso c’abbiamo un consigliere comunale. Anch’io una volta lo so stato” mi dice Edo.
Come spesso accade, lo spopolamento del paese è legato al disgregamento economico della comunità: le nuove tecnologie industriali, infatti, hanno travolto l’attività dei fabbri e oggi non c’è più una sola bottega in tutto il paese che lavori il ferro battuto. “Dopo la guerra il paese s’è spopolato. I fabbri so andati a lavorà da altre parti. In Liguria, a La Spezia e Genova, oppure a Livorno, Viareggio, Lucca. Adesso un ce n’è nemmeno uno, so morti tutti. Però adesso il Comune sta facendo il museo dei fabbri per ricordà la nostra storia” – dice Edo con tono di rassegnazione misto a una punta di orgoglio. “Quando arrivarono le bollette di Parigi, quando le misero sur mercato, i fabbri andarono in crisi. I chiodi costavano meno”, spiega Edo.

Incontro i due figli di Edo, Andrea e Marina, entrambi sulla quarantina d’anni. Andrea fa il carpentiere a Livorno mentre Marina fa le pulizie negli alberghi della Versilia durante la stagione estiva. Mi dicono, a malincuore, che conoscono solo pochissime parole del dialetto gombitellese. “In passato non c’è stata la volontà da parte degli abitanti del paese di difendere e salvaguardare la propria identità culturale”, spiega Andrea. “Era un qualcosa di cui ci si vergognava. Quando andavo a scuola a Camaiore, i compagni di classe mi prendevano in giro chiamandomi ‘la montanara’. Si faceva di tutto per non sembrare “sempliciotti di paese”, così si dice noi. Per questo motivo i nostri genitori e nonni non volevano che parlassimo il dialetto”, mi spiega Marina.
D’altra parte, già nel 1986 il professore di linguistica Gastone Venturelli scriveva sul Quaderno dell’istituto di linguistica dell’Università di Urbino che “quasi tutti gli abitanti di Gombitelli parlano dell’antico dialetto senza alcun entusiasmo, talora addirittura con un certo fastidio, come di cosa dimenticata e da dimenticare”.

Adesso Gombitelli non è più un’isola linguistica, dato che tra i pochi abitanti che la popolano si parla il tipico camaiorese. Non è nemmeno il paese del ferro, visto che non ci sono più fabbri. È rimasta, tuttavia, la tradizione norcina portata avanti dalle storiche famiglie dei Cerù e dei Triglia. Nel paese viene lavorata la carne di maiale per produrre insaccati tipici di alta qualità, famosi in tutta la Toscana (basti pensare che il lardo qui prodotto fa concorrenza al lardo di Colonnata). “Se son boni i salumi di Gombitelli? Son boni sì..”, mi dice Edo rispondendo a quella che, ho ragione di credere, sia stata la domanda più scontata a cui avesse mai dovuto rispondere in vita sua.

Ma a Gombitelli, oltre alla memoria del tempo che fu, sono rimaste altre cose preziose, come la ridente posizione, il verde dei boschi, il silenzio e la tranquillità che abitano il suo borgo, che fanno di questo paese una meta amata da turisti di tutto il mondo, alla ricerca di quiete, aria buona e vita semplice.
“I turisti vengono ogni estate, anche se ora gli è tutto bloccato. Anche dall’America un possono veni, ma vedrai che tra poco torneranno”. Edo afferra la mazza e scatta in piedi. “Guarda”, e indica un punto verso il mare. “Da qui si ve la costa dar porto di Livorno a quello di La Spezia. Si ve il il Tirreno e le isole dell’arcipelago toscano come Capraia, l’isola d’Elba e la Gorgona”.

“Sparì Gombitelli, un sparirà. Che un s’appino a ripopolà i paesi”, conclude Edo, con il tono di chi la sa lunga.
E chissà se, proprio come la peste del Trecento incentivò il ripopolamento di Gombitelli, questa pandemia porterà più persone a considerare di vivere in posti più isolati e a contatto con la natura. E quale posto migliore di Gombitelli, la cui etimologia, secondo il parroco del paese Don Eugenio Bovini, deriverebbe dal latino ‘cumulus’ (mucchio), ellus (terra), elios (sole)?. Vale a dire, Gombitelli, “un mucchio di terra al sole”.