Luca Atzori | Teorema della stupidità

La poesia di Luca Atzori sfiora il passaggio a livello di due dimensioni ben precise, evidenti, stridenti e squillanti nelle performance presentate oggi da «Neutopia». Se da una parte siamo messi di fronte al tentativo, intellettuale e linguisticamente accademico, di conoscere e descrivere il mondo interiore attraverso il linguaggio e la forma, dall’altra ci viene lanciata in faccia l’assoluta certezza che il linguaggio e la forma non possano descrivere il mondo interiore. Da questo scherzo, da questa presa di posizione reciproca della lingua e della non-lingua emerge un personaggio a tratti leggiadro, meravigliosamente poetico e artistico, a tratti strisciante, schifoso, melmoso. Un dissidio interiore e una contraddizione aleggiano dunque sul palco, testimoniando il ritorno a qualcosa di meno bello ma più puro della semplice poesia o declamazione. Come un’eiaculazione, un rutto o un peto, difatti, la poesia di Luca Atzori, inseparabile dall’anti-performance recitativa che l’accompagna, prova ad esprimere l’assolutamente contraddittorio e quanto mai polimorfo (esemplificato nel rapporto bruco-farfalla) mondo interiore con l’anima sia di un poeta filosofo, sia di un mostro avulso alla lingua.
Se nella poesia Il bruco è lo sproloquio, a tratti profetico a tratti sfogo, dell’Io lirico a prendere la posizione e a dipingere i contorni aleatori, vaghi di questa forma/non forma, di quest’identità sfiancata da una molteplicità di istanze, in Silenzio è analizzato il contrasto di cui sopra nell’immagine di una libidine funesta, stridente nella sua parti in quanto latrice di godimento e morte, emergente dal chiasso sovraumano nella psiche del soggetto ma evidente solo nel silenzio, un silenzio vibrante, carico di emozione e di sesso. Un silenzio come una contraddizione, come l’essere umano, isolato dentro se stesso ma rizzante i suoi peli all’idea del contatto con l’altro, che dà la forma al proprio sé, elevandolo e al contempo torchiandolo, marchiandolo indelebilmente. Un silenzio abbandonantesi ai gesti e ai versi più tribali per esprimere una forza, di sesso e di parole, eruttante come un vulcano e non completamente contemplabile dalle parole.
La contraddizione emerge, infine, anche nell’ultima poesia, che dà il titolo alla raccolta Teorema della Stupidità, edita da Ensemble nel 2019, nella quale confluiscono alcuni lavori già pubblicati nel disco Mama Roque de Barriera. Nel brano Teorema della stupidità si costruisce un nuovo, fallace pons asinorum, non più in grado di delimitare la differenza tra intelligente e stupido: il poeta, mordendosi la coda, girando invano per l’aia, non riesce a dimostrare la sua intelligenza, dimostrando così la sua stupidità, dunque la sua intelligenza. Il circolo vizioso testimonia ancora una volta la natura sfaccettata ed inafferrabile dei nostri gesti e della lingua di cui facciamo uso (e, a volte, sfoggio) per descrivere il quadro diluito dell’Io e dei suoi mostri, mostri che, come vuole Wittgenstein nelle sue Ricerche Filosofiche (1953), non hanno contorni, si mischiano come fluidi  e non sono irretibili dalle parole.
Per concludere, vogliamo definire la poesia di Luca Atzori una poesia leale, sincera, veritiera nel suo resocontare il mondo attraverso la messa in scena di questi mostri. Mostri non linguistici, affini agli spasmi, alle urla, al canto armonico che dallo stomaco risale o alla vibrazione del contrabbasso che li accompagna, ma proprio per questo più vicini al vero della poesia sul quale si appoggiano per urlare la loro inafferrabile non-forma, anzi, è nella fusione di queste due dimensioni bifronti l’istanza polimorfa e il tentativo di darle una forma, un’identità poetica che è possibile scorgere – e mai comprendere – l’ambivalenza di un bruco non ancora farfalla, di una farfalla che porta con sé la terribile ombra del suo passato, di un sacro macchiato di profano e di un profano che riesce ancora a brillare di sacra luce.

(Lorenzo Lombardo)

Il bruco

In questa notte patetica
mi sento comicamente avvilito
io bruco dimesso e velenoso

mi hanno stancato i vostri
mal di testa, e non riesco
nemmeno più a strangolare le dita.

quando esco di casa
vengo visitato, ogni tanto
dalla luce spenta del quotidiano

e credo che la civiltà
sia uno scheletro scaduto
che regge uno Stato anoressico.

quando m’interesso ai vostri timpani
si addormenta in me un’ira deforme
e mi viene da darvi ragione

perché non faccio altro che lamentarmi
da mattino a sera, a pausa sigaretta
che il mondo odia i vermi

e non accetto l’evidente
indifferenza di questa carie cosmica
che è la vita.

che siano perciò maledette le nuvole
e il mare salato
dove vorrei immergermi nudo

io che vorrei un corpo di donna
per camminare sulla spiaggia
guardare il Sole e ruotare le caviglie

cercare un bar in mezzo alla spiaggia
camminare stanco e poi sedarmi
nella desolazione vaginale,

poi sedermi e giocare con la sabbia
leggere un giornale e la minchia dritta
consolato dal cielo che si rovescia

resistere alla nube e al vischio
con la violenza dell’ordine
che chiamo scorreggia.

sfera celeste, rotonda e anima
orologio, nell’incompleta astronomia
ritratta all’orizzonte, sognata nel coito

tu che permei tutto me stesso
e mi trascini nell’ovvia rivoluzione
di un sonno perdonato;

nulla di nulla che rotei
mentre qualcuno scambia la luce delle stelle
con la causalità del dito e l’interruttore

proprio io chiudo gli occhi e respiro:
e non so come ci si senta
a non sentirsi corpo morto

ma talvolta penso, e mi confondo
perché se si muore
dunque non c’è il mondo

a cosa serve infatti questo barometro
se anche il nulla eccede
e proprio per questo si muove

a cosa serve questo sonno
questa mancanza di creato
questa carenza di cosce

a cosa serve questo enigma
che volge gli uteri a protestare
per la corteccia monetale

se poi la carne non riesce
nella polluzione, durante
certe inoffensive seghe cifrate

quando tanta paura ci fa la notte
a noi bruchi che dormiamo nelle fessure
mentre mastichiamo le formiche

e congeliamo nella grondaia
e singhiozziamo con la gola stretta
circondando i capezzoli della bella addormentata

così camminiamo noi nel tempo
e non cediamo mai alle bufere
che si sciolgono sulla lingua

scorriamo schifosi e organici
per imitare i dintorni
di quanto non vuole

e noi non vorremmo questo
noi no, non lo vorremmo
noi che strisciamo, platonicamente

e io in questa notte patetica
comicamente avvilito
cambiando posizione, male

trapanando i timpani
con la sedia elettrica
con la sega zoppa, il melograno

incatramando la vasca
dentro al palazzo nominazione,
presente che vibra sei tu nella nebbia

tu sei la porca più bella del mondo
e non m’importa delle frane
l’urlo del pianeta e ascolta taci vaffanculo

e torna a osservare i fiori di loto
nel verde corrente ortografico
convinci la nuvola convinci la vita

lavati i denti e il resto verrà da sé
nell’incomparabile ordine inorganico
completi a tempo per tre col resto di uno.

Il bruco è tratto da Teorema della stupidità
(Edizioni Ensemble, 2019)
Performance al Teatro Garabato
Al contrabbasso: Veronica Perego


LUCA ATZORI (Nuoro, 1984) ha realizzato diversi spettacoli in qualità di poeta/cantautore, attore e regista. Laureato in filosofia, è autore dei libri Un uomo dagli occhi rotti (Rizomi, 2015), Gli Aberranti (Ananke, 2019), Teorema della stupidità (Ensemble, 2019) e dei dischi autoprodotti Chi si addormenta da solo lenzuola da solo (2017), Mama Roque de Barriera (2019). Membro fondatore del Mad Pride di Torino, cura la direzione artistica del Teatro Garabato.

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