Luca Atzori | Teorema della stupidità

La poesia di Luca Atzori sfiora il passaggio a livello di due dimensioni ben precise, evidenti, stridenti e squillanti nelle performance presentate oggi da «Neutopia». Se da una parte siamo messi di fronte al tentativo, intellettuale e linguisticamente accademico, di conoscere e descrivere il mondo interiore attraverso il linguaggio e la forma, dall’altra ci viene lanciata in faccia l’assoluta certezza che il linguaggio e la forma non possano descrivere il mondo interiore. Da questo scherzo, da questa presa di posizione reciproca della lingua e della non-lingua emerge un personaggio a tratti leggiadro, meravigliosamente poetico e artistico, a tratti strisciante, schifoso, melmoso. Un dissidio interiore e una contraddizione aleggiano dunque sul palco, testimoniando il ritorno a qualcosa di meno bello ma più puro della semplice poesia o declamazione. Come un’eiaculazione, un rutto o un peto, difatti, la poesia di Luca Atzori, inseparabile dall’anti-performance recitativa che l’accompagna, prova ad esprimere l’assolutamente contraddittorio e quanto mai polimorfo (esemplificato nel rapporto bruco-farfalla) mondo interiore con l’anima sia di un poeta filosofo, sia di un mostro avulso alla lingua.
Se nella poesia Il bruco è lo sproloquio, a tratti profetico a tratti sfogo, dell’Io lirico a prendere la posizione e a dipingere i contorni aleatori, vaghi di questa forma/non forma, di quest’identità sfiancata da una molteplicità di istanze, in Silenzio è analizzato il contrasto di cui sopra nell’immagine di una libidine funesta, stridente nella sua parti in quanto latrice di godimento e morte, emergente dal chiasso sovraumano nella psiche del soggetto ma evidente solo nel silenzio, un silenzio vibrante, carico di emozione e di sesso. Un silenzio come una contraddizione, come l’essere umano, isolato dentro se stesso ma rizzante i suoi peli all’idea del contatto con l’altro, che dà la forma al proprio sé, elevandolo e al contempo torchiandolo, marchiandolo indelebilmente. Un silenzio abbandonantesi ai gesti e ai versi più tribali per esprimere una forza, di sesso e di parole, eruttante come un vulcano e non completamente contemplabile dalle parole.
La contraddizione emerge, infine, anche nell’ultima poesia, che dà il titolo alla raccolta Teorema della Stupidità, edita da Ensemble nel 2019, nella quale confluiscono alcuni lavori già pubblicati nel disco Mama Roque de Barriera. Nel brano Teorema della stupidità si costruisce un nuovo, fallace pons asinorum, non più in grado di delimitare la differenza tra intelligente e stupido: il poeta, mordendosi la coda, girando invano per l’aia, non riesce a dimostrare la sua intelligenza, dimostrando così la sua stupidità, dunque la sua intelligenza. Il circolo vizioso testimonia ancora una volta la natura sfaccettata ed inafferrabile dei nostri gesti e della lingua di cui facciamo uso (e, a volte, sfoggio) per descrivere il quadro diluito dell’Io e dei suoi mostri, mostri che, come vuole Wittgenstein nelle sue Ricerche Filosofiche (1953), non hanno contorni, si mischiano come fluidi  e non sono irretibili dalle parole.
Per concludere, vogliamo definire la poesia di Luca Atzori una poesia leale, sincera, veritiera nel suo resocontare il mondo attraverso la messa in scena di questi mostri. Mostri non linguistici, affini agli spasmi, alle urla, al canto armonico che dallo stomaco risale o alla vibrazione del contrabbasso che li accompagna, ma proprio per questo più vicini al vero della poesia sul quale si appoggiano per urlare la loro inafferrabile non-forma, anzi, è nella fusione di queste due dimensioni bifronti l’istanza polimorfa e il tentativo di darle una forma, un’identità poetica che è possibile scorgere – e mai comprendere – l’ambivalenza di un bruco non ancora farfalla, di una farfalla che porta con sé la terribile ombra del suo passato, di un sacro macchiato di profano e di un profano che riesce ancora a brillare di sacra luce.

(Lorenzo Lombardo)

Il bruco

In questa notte patetica
mi sento comicamente avvilito
io bruco dimesso e velenoso

mi hanno stancato i vostri
mal di testa, e non riesco
nemmeno più a strangolare le dita.

quando esco di casa
vengo visitato, ogni tanto
dalla luce spenta del quotidiano

e credo che la civiltà
sia uno scheletro scaduto
che regge uno Stato anoressico.

quando m’interesso ai vostri timpani
si addormenta in me un’ira deforme
e mi viene da darvi ragione

perché non faccio altro che lamentarmi
da mattino a sera, a pausa sigaretta
che il mondo odia i vermi

e non accetto l’evidente
indifferenza di questa carie cosmica
che è la vita.

che siano perciò maledette le nuvole
e il mare salato
dove vorrei immergermi nudo

io che vorrei un corpo di donna
per camminare sulla spiaggia
guardare il Sole e ruotare le caviglie

cercare un bar in mezzo alla spiaggia
camminare stanco e poi sedarmi
nella desolazione vaginale,

poi sedermi e giocare con la sabbia
leggere un giornale e la minchia dritta
consolato dal cielo che si rovescia

resistere alla nube e al vischio
con la violenza dell’ordine
che chiamo scorreggia.

sfera celeste, rotonda e anima
orologio, nell’incompleta astronomia
ritratta all’orizzonte, sognata nel coito

tu che permei tutto me stesso
e mi trascini nell’ovvia rivoluzione
di un sonno perdonato;

nulla di nulla che rotei
mentre qualcuno scambia la luce delle stelle
con la causalità del dito e l’interruttore

proprio io chiudo gli occhi e respiro:
e non so come ci si senta
a non sentirsi corpo morto

ma talvolta penso, e mi confondo
perché se si muore
dunque non c’è il mondo

a cosa serve infatti questo barometro
se anche il nulla eccede
e proprio per questo si muove

a cosa serve questo sonno
questa mancanza di creato
questa carenza di cosce

a cosa serve questo enigma
che volge gli uteri a protestare
per la corteccia monetale

se poi la carne non riesce
nella polluzione, durante
certe inoffensive seghe cifrate

quando tanta paura ci fa la notte
a noi bruchi che dormiamo nelle fessure
mentre mastichiamo le formiche

e congeliamo nella grondaia
e singhiozziamo con la gola stretta
circondando i capezzoli della bella addormentata

così camminiamo noi nel tempo
e non cediamo mai alle bufere
che si sciolgono sulla lingua

scorriamo schifosi e organici
per imitare i dintorni
di quanto non vuole

e noi non vorremmo questo
noi no, non lo vorremmo
noi che strisciamo, platonicamente

e io in questa notte patetica
comicamente avvilito
cambiando posizione, male

trapanando i timpani
con la sedia elettrica
con la sega zoppa, il melograno

incatramando la vasca
dentro al palazzo nominazione,
presente che vibra sei tu nella nebbia

tu sei la porca più bella del mondo
e non m’importa delle frane
l’urlo del pianeta e ascolta taci vaffanculo

e torna a osservare i fiori di loto
nel verde corrente ortografico
convinci la nuvola convinci la vita

lavati i denti e il resto verrà da sé
nell’incomparabile ordine inorganico
completi a tempo per tre col resto di uno.

Il bruco è tratto da Teorema della stupidità
(Edizioni Ensemble, 2019)
Performance al Teatro Garabato
Al contrabbasso: Veronica Perego


LUCA ATZORI (Nuoro, 1984) ha realizzato diversi spettacoli in qualità di poeta/cantautore, attore e regista. Laureato in filosofia, è autore dei libri Un uomo dagli occhi rotti (Rizomi, 2015), Gli Aberranti (Ananke, 2019), Teorema della stupidità (Ensemble, 2019) e dei dischi autoprodotti Chi si addormenta da solo lenzuola da solo (2017), Mama Roque de Barriera (2019). Membro fondatore del Mad Pride di Torino, cura la direzione artistica del Teatro Garabato.

🅳🅸🆂🆃🆁🅰🆃🆃🅸🅻🅴

La poesia di Kosmonaut non è ermetica. Non si propone di velare, nell’intreccio di parole, la sostanza semantica, ma anzi, si propone di dissotterrarla e lanciarla sorridente agli occhi di tutti. Ha a che fare con il segreto scorrere dell’esistenza e con i suoi misteri solo nella misura della loro condivisibilità. Ciò è evidente in primo luogo nella musica che accompagna i suoi testi, scandita dall’umile semplicità di pochi accordi e dalla cristallina vibrazione di pochi se non singoli strumenti non affaticati nel prevaricarsi ma uniti e coesi nella comunicazione quanto mai chiara del messaggio. E poi, la voce.
Distrattile è un urlo di denuncia per enumerazione tanto basico quanto comunicativo, una lista di dettagli, spesso correlativi oggettivi che sputano in faccia all’ascoltatore l’evidenza della patologia e della distopia nel discorso e nella narrazione della nostra progredita e all’avanguardia alma mater società. Chiarezza non è sinonimo di banalità, anzi: con pennellate veloci ma precise Kosmonavt ci restituisce “l’antartide nudo” dei nostri tempi,  riesce a fare emergere quel segreto, quell’“intraducibile” senza il quale nessuna poesia sarebbe possibile. È nel negativo che lo si evince, semplicemente, come qualcosa che è possibile contemplare solo da una soglia.

(Lorenzo Lombardo)

DISTRATTILE

Gli oggetti smarriti
I tovaglioli caduti
Le parole vaghe
Le scuse dei distributori automatici
Le mani perdute
La cortesia per gli ospiti
L’invasione delle cavallette
Gli occhi altrove
L’emigrazione delle intenzioni
I grazie improvvisati
L’irraggiungibilità sistematica
Il narcisismo emotivo
Gli asciugamani bagnati
Gli allarmi inattesi
L’approssimazione dei sorrisi
La separazione desertica
L’Antartide nudo
Le favole deludenti
Le aspettative infami
Il capitale frustrante
La schiavitù dei tempi
L’ostruzionismo dei Chakra
La tirannia dei social
Il linguaggio del corpo
La verità dei dettagli
La Torre di Dio
I flussi migratori
Le rondini insonni

Dove abbiamo nascosto i nostri credo?
Quanto abbiamo sgranato i rosari dell’occasione?

 


Cristian Zinfolino (1986) è traduttore, attivista lgbt+, performer teatrale e poeta performativo. Attivo nella scena della poesia performativa dal 2017 con lo pseudonimo di KOSMONAVT e performer dal 2012 nella compagnia di teatro e danza Ordinesparso di Sarzana. Nel 2019 si è aggiudicato il secondo premio Sinestetica per la sezione di videopoesia.

Testo, musica e video: Kosmonavt
Copertina dell’autore

Anna al Mercato Centrale

Si alza un grido d’acciaio postmoderno e steampunk. A lanciarlo è Spellbinder, la macchina, nella sua asessuata, pansessuale oggettività. Un meccanismo le cui grammatiche automatiche generano, distorcono e ristrutturano messaggi linguistici. Da quest’incontro post-umano tra poesia e macchina emerge un progetto: Madrigale. Una collezione di spoken word cibernetiche di cui il presente singolo, Anna al mercato centrale, si prefigura come crocevia di varie fiumane. La prima sono le voci poetiche dei tre autori, chiamati a interrogarsi sul tema della gentrificazione: un processo inarrestabile, che coinvolge non solo le periferie, ma anche zone cittadine di antica tradizione, sottoponendole ad una violenta “traduzione” nel linguaggio egemonico della mentalità dominante. La radici del mercato di Porta Palazzo, a Torino, sono dunque sommerse dall’orgia trimalcionica di merci che inondano le percezioni del privilegiato. È infatti un occhio profondo – non per forza e non sempre poetico – che coglie nella mitopoietica del progresso una zona d’ombra terribile, popolata da tristezza e cattiveria obbligata, il regno dei lasciati indietro che, inceppati nei denti del meccanismo, soffrono e arrancano in una povertà diluita ogni giorno. Questa visione è tuttavia decomposta e ricomposta attraverso la tecnica del cut-up, cosicché ciò che prima era un trittico a tema diventa un miscuglio omogeneo di voci. È la macchina che parla, è la macchina che riorganizza la struttura preesistente in una nuova. Come una proprietà emergente, viene a galla un nuovo testo che – a partire dalle voci originali – restituisce l’orrore collettivo di generazioni intere dimenticate dal “progresso” e, allo stesso tempo, l’urgenza del cambiamento. La bomba si profila dunque bifronte: è la ferita inferta dallo sviluppo economico alla micro-storia, ma è anche un’illusione, nell’incertezza costante tra spettacolo e verità. Il terzo ed ultimo livello del testo è la sua riformulazione in un differente sistema semiotico, ovvero la clip cinematografica che lo accompagna. Una resa visiva che tuttavia è subito contraffatta, straniata dalla citazione di Balestrini che la introduce: “Il più delle volte le immagini non servono a niente”.

(Lorenzo Lombardo)

Anna al Mercato Centrale

La fiducia piegata e riposta
nella merce brutta, pregiata,
spinta sul legno, è una lisca
– scialuppa sgraziata.

Da un’ora appena
la sua bocca non parla
da un lato all’altro della faccia
sta zitta, deforme, slabbrata.

“Io so di cos’hai bisogno
– tu aneli a un nuovo anelito di vita –
una nuova serpe che morda i polpacci
e che faccia scattare le membra:
fischia l’arbitro l’inizio partita!
– e tutti assistiamo, benché conosciamo
benissimo l’esito – ognuno a suo modo –
il gioco è truccato, non hai letto il copione?”

HANNO MESSO UNA BOMBA
AL MERCATO CENTRALE!
HANNO MESSO UNA BOMBA
AL MERCATO CENTRALE!

Anna fa la bocca linea
e se cammina storta
è per la fuga indotta
per la resa fulminea
dei muscoli ipotesi;

“Forse è meglio se ti metti in fila
e stai buono, con te ho appena iniziato.”
Fissa il muro fra le cataste di prodotti,
le zucchine i pomodori i ravanelli
e prova il nuovo ketchup biologico
sulla ferita aperta.

Anna rinviene una traccia,
solleva uno straccio,
solleva il diaframma:
questa cosa che freme
poco sopra a dove si mangia
– parlano le ricetrasmittenti
alle volanti, il polso tace,
un andirivieni di ambulanze
e di stampe.

“Il nostro è uno sporco lavoro
ma qualcuno lo deve pur fare”
dice la guardia con una voglia matta
di violazione dei diritti umani negl’occhi
“e poi insomma, se non consumi
che cazzo vivi a fare?”

AL MERCATO DEL NORD
PER DUE SOLDI
PORTA PALAZZO MIO PADRE COMPRÒ

E venne il capo
che aprì un locale
che cacciò l’arabo
che occupò la casa
vicino al banco
che al mercante
mio padre affittò!

Anna non guarda i colori,
lei guarda la stoffa.
Credeva all’arancia per terra,
all’anguria aperta
“l’unica buona da far assaggiare” diceva;
credeva, con tutta se stessa,
all’omuncolo grasso che strilla dal banco.

Questa cosa va capita
perché sussurra
e muove gli scacchi.
Questa cosa càpita,
va trattata a dovere,
pigiata nei sacchi
finché non la smette
d’estendersi, piana.

Dalla coperta isotermica
spuntavano un paio di gambe
– le scarpe rosse, allacciate.
Un grande fuoco si è preso
il suo altare di legno
e se non cammina
è perché adesso
qualcosa la tiene,
la indossa.

Sputava, sputava, sputava
tra i carri, la frutta e la piazza
l’odore di shisha e di menta,
lei aspetta la giusta marea
smuove l’orgia
dei panni ammassati
sfiora l’onda
che l’aria preme
a fatica
e non salpa.

Anna ne ha di stoffa,
da vendere.

Le casse amplificano il battito
al rallentatore – ecco, mi sto sbloccando
ma non sono pronta, non sono pronta,
non sono ancora pronta, cazzo!

Dice: il mio posto
è già questo
para qué necesito pies si tengo…”
dice con le mani,
con le mani ci si salva.

Devo prendere prima un altro pezzo
e metterlo sul nastro trasportatore
farmi spazio tra le occhiate e le risa,
le cascate di riso basmati e pepe rosa,
allora mi volto e tutti hanno un volto
fuori misura, il naso al posto dell’orecchio
e gli occhi sulla fronte, che ognuno di loro
scambia di volta in volta come pass-par-tout
ed io non ho che questa sola faccia
insieme a quella di riserva in dotazione
per le occasioni speciali.

Ci si salva con le mani
frugando, frugando ci si salva.
Si tira su qualcosa: si annaspa.
Adesso chiede decisa:
“dove mi porta?”
– nessuno la ascolta.

Ma questa è un’impostura
dentro l’impostura: è una matrioska
e tu hai bisogno di un nuovo soggetto
– un nuovo osso da succhiare.

Anna non vede i colori:
lei sente la stoffa,
fruga i morsi del vento.
Sulla sua testa un foro largo
si apre, ne esce il sangue.

HANNO MESSO UNA BOMBA
AL MERCATO CENTRALE!
HANNO MESSO UNA BOMBA
AL MERCATO CENTRALE!

poi – mi guardo attorno, le macchine
dell’aria condizionata sono guaste,
tutti questi prodotti stanno marcendo
e i clienti qui dentro stanno sudando,
il volto cubista di prima ora è un volto
espressionista dissolto, allora vorrei solo
rompere il vetro della porta scorrevole
e fuggire lontano con il maltolto

ma devo ancora attendere
– devo ancora aspettare
che venga il mio turno
che venga il mio turno
che venga il mio turno di uscire a fumare.

Testo: Davide Galipò, Elena Cappai Bonanni, Chiara De Cillis
Voce: Chiara De Cillis
Musica e arrangiamento: Ilaria Lemmo
Registrato e mixato da Davide Bava per Radiobluenote


S p e l l b i n d e r – dall’inglese, “incantatori” – è una macchina di spoken word music progettata a Torino nel 2019 d. C. Produce elaborazioni di suoni e parole che non hanno ancora trovato un alibi nelle conformazioni di genere, nelle convenzioni, nel calcolo e nei compromessi degli adulti. A n n a a l M e r c a t o C e n t r a l e è la prima elaborazione visiva e sonora del progetto, inclusa nell’album in uscita, M a d r i g a l e. Il testo è frutto di un cut-up tra gli stili e le forme di Davide Galipò, Elena Cappai Bonanni e Chiara De Cillis, che ha donato la voce per il brano. Gli ambienti sonori sono stati realizzati da Ilaria Lemmo, chitarrista e compositrice per il teatro attiva, tra gli altri, nel progetto Saudade Saudade.

La pacchia è finita

La pacchia è finita, andate in pace.
Qui giace la vecchia empatia
che tutte le feste si portava via;
è facile essere buoni
con i gommoni degli altri
lo sanno i tanti falsi santi
lo sai anche tu che
l’acqua del vicino è sempre più blu
e il cielo è sempre più bucato.
Remiamo, fratelli,
via dalla terra che non ci ha mai amato
verso la terra che ci odia ma può dirlo di meno
almeno,
fratelli e sorelle,
in tutto questo nero
si vedono le stelle.

Ma la mia pelle così chiara
non ha diritto di parola,
può solo ascoltare e chiedere scusa
e poi ascoltare ancora
e scriverlo nelle avvertenze
che lei non c’entra niente,
poi guardarsi dentro
e capire che mente:
che è figlia del suo mondo
e non capirà mai fino in fondo;
e allora chiedere scusa
e ascoltare ancora.

Ma il nero della morte è uno
e lo conosciamo tutti bene abbastanza
da capire che nessuno
merita un’intera esistenza guardandolo in faccia
nessuno può rinfacciare a qualcuno
l’aver provato a cambiare traccia
quando l’unica canzone che gli suona in testa
da che si ricorda
è il rumore del suo corpo sotto una cinghia,
quando l’unico peso che gli impedisce di essere così leggero
da prendere il volo
è quello dei cadaveri che tiene tra le braccia.
È vero, se guardi bene lo vedi
dietro il suo corpo canuto:
la strada di casa è segnata non da briciole ma da
corpi caduti
come prede di caccia;
ma cacciamoli dal nostro Paese,
che non si sappia che abbiamo paura di guardarli in faccia
che non si dica che siamo razzisti ma
mangiano a nostre spese
che si sappia che neanche noi arriviamo a fine mese.
Gridiamolo a tutti che la minaccia arriva in barca
che non si sappia
che spesso arriva a piedi o in taxi o in giacca e cravatta
sono loro i colpevoli
colpevoli di non essere
esattamente entusiasti nel patire la fame
colpevoli di non essere
morti in mare
ma con quale cuore possiamo pensare
che il nostro dolore
abbia un colore
diverso
con quale cuore
ci pensiamo al centro dell’universo
e il resto scenografia
che già che ci siamo, si potrebbe fare un pochetto più chiara?
Non siamo razzisti,
ma tutto quel nero ricorda la morte
non siamo razzisti,
ma vien prima la NOSTRA morte
prima gli Italiani, come un cazzo di gioco di ruolo
– la parte dell’essere umano decente era finita
e quella dell’oppressore ci viene così bene, anni di esperienza –
non siamo razzisti,
ma stiamo meglio senza
e non siamo razzisti,
è propaganda:
i figli non erano davvero in gabbia.

Da dove viene tutta questa rabbia?
Da dove lo prendete tutto quell’odio?
E chi vi ha convinto che fosse per loro?
Chi è che lo vende, dall’alto di Monte Citorio
con etichette con scritto “capro espiatorio”?
Non vedete che mente?
Non sapete più leggere altro se non il vostro nome
e siccome
non vedete oltre i confini dei vostri corpi
chiudiamo gli occhi, chiudiamo le porte, chiudiamo i porti
e che importa fuori chi lasci
se non saprai mai il suo nome
se non vedrai di notte quali lacrime piange
quali nomi chiama,
quali volti accarezza nella mente un’ultima volta
mentre sta morendo.
Concludo dicendo
complimenti ai voi del passato
che con fatica e sudore – e ciò vi fa onore –
prima di nascere, ancora embrioni,
vi siete scelti il lato giusto del mare.
Coglioni.

La pacchia è finita, andate in pace.

Testo e voce di Martina Cappai Bonanni
Montaggio e sottotitoli di Davide Galipò

Pʟᴀɴᴇᴛᴀʀɪᴏ

forse confondo le confusioni
perché mi conto più dubbi che giorni
ma ho due pianeti al posto degli occhi
li disegno sul muro

(poi pulisco: lo giuro)

si vive in un tempo protocollato
tra le visite da calendario e l’orario
del deperimento. del farmaco effetto.
si vive di schemi e gioco di ruoli
di costanti silenzi scontati
per mostrarcisi male. malati.
ma c’è un momento in cui mi do conto
che sono contento: è quando disegno
i miei occhi più grandi del mondo
perché lo contengo nel nero del bulbo
e il bianco contorno è l’universo
in cui nuoto di notte se mi addormento
se il giorno l’ho perso a muovere scacchi
con chi fa la cronaca dei gesti più semplici:
«guarda. lei ha preso una penna.
guarda. lui sta toccando la tenda»
e silenzioso mi fissa gli spacchi
coi suoi pianeti disabitati.

forse confondo le confusioni
perché mi conto più dubbi che giorni
ma ho due pianeti al posto degli occhi
li disegno sul muro

(poi pulisco: lo giuro)

si vive di sedute e dosaggi
di diritti pestati e ora detriti
di pasti scaldati e assaggi gentili
per evitarci il più dei conati.
si vive di docce in divisa
divisi dall’altro
ché l’amore è bandito ma quando fa buio
se le luci si spengono
arrivano mani a infilarsi nel letto
e può succedere che non siano mie
ma di chi ha più voglia
e non sa cosa tocca ma sa ricucire
senza mostrare (scartare) manie.
così la mattina con le dita pastello
ritraggo lettini vibranti il cigolio
le spinte e gli strappi degli organi scelti
il suono e la voce che mai dice addio
né dice: «ciao sono io è stato stupendo»
no: qui è un rancio di sesso randagio
la regola vuole che va bene fin quando
i grembi non crescano non ci sia parto.
e tempero tempero gli occhi pianeti
coloro coloro gli umani crateri

dipingo soltanto il circo che vedo
io bestia lasciata alla sete di gioco
costretta incastrata dove non si respira
in questa camicia che non si stira.

forse confondo le confusioni
perché mi conto più dubbi che giorni
ma ho due pianeti al posto degli occhi
li disegno sul muro

(poi pulisco: lo giuro)

ma adesso che ho finito lo spazio
e il planetario è un disastro completo
prima che possa goderne lo sguardo
mi legate le mani con cinghie
a un letto disfatto da carne di scarto
(avanti uno e poi l’altro)
in attesa del turno di briglie di cuoio
(avanti uno e poi l’altro)
con l’urlo di unghie dal corridoio
(avanti uno e poi l’altro)
è attesa in reparto la morte che perde
ché non mi prende se mi attaccate
la testa a uno schermo lo sguardo all’inferno
io fermo fissato un cristo all’altare
con particole in ferro freddo sui lobi
io cimice in camice sacrificale
addento dolente un sorriso di legno
per preservare lo smalto del ghigno
dai crampi che vengono a farmi la festa

una scossa che straccia che scassa la testa
una scossa che straccia che scassa la testa
una scossa

che straccia

che scassa

la testa

per farmi confondere

le confusioni
diradare la nebbia planetaria dagli occhi
rotolati all’indietro per le convulsioni
e così eliminare ogni dubbio futuro
per cancellare i disegni sul muro.

forse ho confuso le confusioni
i dubbi si sono vestiti da assiomi
ma i due pianeti al posto degli occhi
restano in volo per cui
li disegno sul muro. in silenzio. da solo.
ché di queste follie io sono le stanze
che non accettano pareti bianche

Testo, voce, musica: Nicolas Cunial
Video: Cristian Mindrila e Arby Marra (Sonoria Studio)
Black in/Black out © Interno Poesia, 2019