Un uomo si propone il compito di disegnare il mondo. Trascorrendo gli anni, popola uno spazio con immagini di province, di regni, di montagne, di baie, di navi, d’isole, di pesci, di dimore, di strumenti, di astri, di cavalli e di persone. Poco prima di morire, scopre che quel paziente labirinto di linee traccia l’immagine del suo volto.
– Jorge Luis Borges
Capitolo I
E adesso cosa facciamo? Siamo perduti.
Non ti preoccupare, riusciremo a tornare a casa. Lascia fare a me. Però dobbiamo liberarci della fifa e muoverci, anche se non vediamo un accidente.
No, non ce la faccio. E se restiamo intrappolati nella nebbia?
Gianni guardava il fratello minore con un’espressione tra l’incredulo e l’intimorito. Voleva dimostrare a Luigi il suo sangue freddo, ma allo stesso tempo non riusciva a scacciare quell’alone di timore e vulnerabilità che sentiva circondarlo. Non vedeva niente, non distingueva i contorni delle cose, non aveva idea di dove fossero. Gli sembrava di essere da nessuna parte e al tempo stesso in ogni luogo.
Ma dai — gli disse Gianni — non fare il fifone e non fermarti. Qui non c’è segnale, non posso usare Google Maps né chiamare mamma e papà. Incontreremo presto qualcuno a cui chiedere indicazioni, ma dobbiamo continuare a camminare.
Poi gli porse la mano.
All’ordine del fratello Luigi ricacciò indietro l’accenno di lacrime che aveva negli occhi, poi strinse la mano di Gianni. I due bambini avanzarono lentamente, un piede nel bianco nulla, poi l’altro.
Tastarono l’aria intorno a loro come fossero ciechi, aggiustando la rotta come due barche nella nebbia, finché le loro spalle, ciondolanti e incerte, inghiottite dal paesaggio, svanirono nelle fauci della foschia. Mentre camminavano, Gianni cercò di riparare il cellulare: lo spense e lo riaccese, poi riaprì l’applicazione di Google Maps. Niente, il telefono continuava a opporre l’assenza di segnale. Gianni ripeté gli stessi gesti diverse volte: le mani gli tremavano, il suo sguardo tradiva la consapevolezza di aver perso ogni certezza.
In quel momento, davanti a loro apparve un cancello. Si domandarono se fosse frutto della loro immaginazione. Non c’erano catene a serrare le due inferriate e nessun cartello vietava l’accesso. Gianni spinse la griglia di destra, quella che volgeva già verso l’interno, ampliando il varco per entrare.
Una strada sterrata proseguiva dritta oltre i piloni, ma per la densità della nebbia i due fratelli non riuscirono a scorgerne la fine. Le linee che determinavano il sentiero sfumavano, mischiandosi al manto chiaro e lattescente del cielo. Dopo ore passate a vagare in quel biancore, finalmente il buon auspicio di una via battuta tra i campi indistinti di brina e bruma, un confine tra ciò che stava alle loro spalle e ciò che si nascondeva oltre i piloni, una soglia tra lo smarrimento e una sensazione forse nuova che, con un po’ di speranza, avrebbero potuto provare.
Che facciamo? Andiamo di qua? — domandò Luigi, prima di chiudere le mani rosse davanti alla bocca e soffiarci dentro.
Il freddo, prima assente, era arrivato brusco e repentino, trasportato da un vento leggero e gelido che gli fischiava nelle orecchie.
Non so, non vedo nessuna recinzione oltre i pilastri. Non sembra una proprietà privata. Potremmo perderci — rispose Gianni, strizzando gli occhi per scorgere qualcosa oltre la linea dell’orizzonte.
Ci siamo già persi! — ribatté Luigi. Magari, se siamo fortunati, raggiungiamo la casa di qualcuno che può darci una mano.
In effetti non abbiamo alternative migliori. Dai, andiamo.
Che facciamo? Andiamo di qua? — domandò Luigi, prima di chiudere le mani rosse davanti alla bocca e soffiarci dentro.
Capitolo II
Seguirono la strada, in silenzio. Sembrava che la nebbia, poco a poco, fosse stata assorbita dalla pelle e, filtrata nei tessuti, avesse intorpidito ogni loro facoltà razionale: il linguaggio, il pensiero, la capacità di comprensione. I passi erano lenti e le orecchie, tese all’ascolto, captavano parvenze di richiami provenire dal paesaggio lontano. Erano stupiti di quel sentire, non distinguevano nulla, eppure percepivano voci, immagini, il modo mutevole in cui la luce avvolgeva le cose, trasfigurandole. L’erba, le fronde degli alberi, le nuvole, le pietre che gli apparivano d’un tratto vicine sbucando dalla nebbia. Il terreno si addolciva sotto i loro piedi, lo spazio senza misure in cui si trovavano piazzati, palpitando, pareva volesse comunicargli qualcosa. Per la prima volta, forse perché mai prima di allora avevano avuto l’impressione che il mondo gli fosse così vicino da parlargli, dimenticavano la paura di essere esposti all’incertezza e al vuoto e con tutto il corpo desideravano assaporare lo spazio, scoprirne le storie celate tra gli arbusti, oltre la curva sinuosa del colle o in un rigagnolo, storie cangianti di cui anch’essi facevano parte, corpi naturali intessuti nella trama del mondo. Le nuvole nel cielo erano gonfie e rapide nella loro metamorfosi, e il vento, nel suo crescendo, si mise a sibilare più acuto tra le foglie.
Era passata un’ora da quando avevano superato il cancello, forse due. Non ne avevano idea. Ogni cosa che sembrava essere per un istante solida e certa, subito svaniva evanescente, dilatandosi nell’aria.
Finalmente, pochi passi dinnanzi a loro, sul ciglio della strada, scorsero una panchina di un azzurro stinto rivolta verso l’esterno. Su di essa sedeva una donna che teneva lo sguardo fisso nel banco di nebbia. Parve non accorgersi della presenza dei ragazzi.
Ti va se ci fermiamo un po’? chiese Gianni al fratello indicando la panchina.
Con un sussurrato cenno di mano salutarono la donna che sedeva al loro fianco. La donna non si era ricomposta come chi viene colto di sorpresa in un momento di intimità, nascondendosi dietro un sorriso smodato o ritraendo il corpo in segno d’istintiva difesa. Il suo braccio restò disteso sulla spalliera, dietro il collo di Luigi. Ricambiò il saluto con un semplice sorriso gentile e privo di finzioni ossequiose. Stava fumando una sigaretta: buffate azzurrine s’involavano nell’aria confondendosi con l’orizzonte e il cielo. Gianni le seguiva con gli occhi quando gli giunse attutita la voce di Luigi.
Se la mamma sapesse che siamo qui…
Non dirlo neanche — rispose Gianni.
Mi sembra di vederla. In giro per la strada che ci cerca come una pazza — ribatté Luigi, battendo i piedi per terra per non congelarsi il sangue. Che ore saranno? — chiese poi.
Non ne ho idea. Gianni stava prendendo il telefono per controllare l’ora quando la donna al loro fianco gli disse che dalla luce che c’era potevano essere le cinque, più o meno.
I due la ringraziarono.
Lei è di qua? — le domandò Gianni, cercando di simulare la tranquillità di chi non si è perso nella pianura.
Sì — rispose lei — oltre quei cipressi laggiù. Indicò un punto con la mano libera, l’altra, quella che teneva la sigaretta, la portò alla bocca con un gesto lento per inspirare attraverso il filtro.
Non vedo niente — disse Gianni, sforzandosi di scorgere gli alberi indicati dalla donna.
Ma è sempre così qui? Tutta ‘sta nebbia, intendo, è normale? — intervenne Luigi.
Dipende dalla stagione, d’inverno soprattutto. Prima o poi ci si fa l’abitudine — rispose quella, un po’ assorta. Il viso le si velava ad ogni boccata di fumo, immergendo le sue parole nell’indistinto del campo, da dove proveniva, litanico, un chiocchiolio smorzato di uccelli.
Boia d’un tempo! — esclamò Gianni.
Ah ma fra un po’ la nebbia se ne andrà — disse la donna, rigirandosi la sigaretta mezza consumata tra le dita. C’è aria da neve — continuò.
Fiocca? — domandò eccitato Luigi con le mani gelide e il viso acceso.
Secondo me sì — rispose lei alzando il viso verso il cielo come se fiutasse qualcosa. C’è vento, continuò, si porterà via la nebbia, e poi verrà giù la neve.
Com’è che ne è così sicura? — chiese Luigi un po’ titubante ma smanioso che andasse davvero così.
L’aria, è aria da neve — ripeté convinta la donna. Sembrava riuscisse a cogliere a naso le cose, come se tutto lì intorno fosse impregnato d’un odore che annuncia i fenomeni del mondo e lei avesse dimestichezza con quell’odore che viene e che va, forse perché pure lei se lo portava addosso.
Speriamo, è da un secolo che non vedo una bella nevicata! — continuò Luigi entusiasta.
È che in città non nevica mai — spiegò Gianni alla donna per giustificare la smania del fratello.
E comunque quando nevica neanche il tempo di sbaloccarsi che fa già schifo — puntualizzò Luigi.
Nel frattempo, il vento si mise a risuonare e a poco a poco trasportò lontano la nebbia. Finalmente si concedeva alla loro vista la linea dell’orizzonte: lo stesso scenario che all’inizio del viaggio, velato da un nebuloso mantello, li aveva spaventati per la sua apparente inaccessibilità.
Per la prima volta, forse perché mai prima di allora avevano avuto l’impressione che il mondo gli fosse così vicino da parlargli, dimenticavano la paura di essere esposti all’incertezza.
Dalla panchina scrutavano la pianura, accorgendosi di quanti piccoli segreti lo spazio disvelava man mano che il cielo si schiariva. C’era tanta luce che vibrando mostrava le forme del mondo tra riflessi e sfumature in movimento. In fondo, al di là di un crepaccio nel terreno, la chioma chiara di un salice si tuffava in un canale e specchi d’ombre fluttuavano sulla superficie dell’acqua. A pochi metri vacillava precario un piccolo ponte che connetteva le due sponde. Dall’altra parte del canale si intravedevano delle rovine, un complesso di case abbandonate circondato da reliquie dimenticate; tracce spettrali di immagini che intrecciandosi le une alle altre evocavano un oscuro passato di memorie.
D’un tratto cominciò a nevicare. Con respiri cadenzati il cielo spargeva fiori bianchi.
Fiocca davvero! — esclamò Luigi scalpitando. Gianni gli sorrise con un’espressione incredula.
Dal fondo della via sterrata l’abbaiare di un cane destò i due ragazzini dall’entusiasmo. Voltandosi in direzione della via, ora sgombra di nebbia, notarono che in fondo c’era una grande costruzione rossa e quadrangolare.
La luce stava cambiando, il giorno con un moto consueto lasciava spazio alla sera. I muriccioli delle case diroccate, gli alberi, i prati, erano ancora avvolti da qualche cosa di diurno, che però appartiene più alla notte che al giorno.
Ci conviene andare — disse Gianni.
Ma come? Ha appena cominciato.
Boia, Luigi! Non rompere! Sono il fratello maggiore e decido io. Andiamo!
Che palle!
Se non ti muovi giuro che ti lascio qua — lo rimbrottò Gianni.
La donna interruppe il battibecco chiedendo dove fossero diretti.
Eh, dobbiamo capire come tornare in città. Abitiamo lì, disse Gianni.
Potevate dirlo prima — rispose la donna. Lì in fondo c’è la stazione — disse, indicando la fine della via. Poca roba, ma passano autobus che vanno in città più meno ogni ora.
Quanto ci metteremo secondo lei?
Poco più di mezz’ora a passo spedito, vi accompagnerei ma aspetto una persona.
Ma no, non si preoccupi. Ce la caviamo. Grazie mille, signora.
Figuratevi — rispose la donna.
Anche Luigi, alzandosi dalla panchina, la salutò. Le diede un’ultima occhiata furtiva, poi si voltò e trottando raggiunse il fratello che si era già incamminato. La donna lì seguì con lo sguardo per un po’. Li scrutava: corpi minuti sotto il cielo bianco e l’orizzonte piatto, poi spense la sigaretta sulla brina e tornò ai suoi pensieri.
Capitolo III
Man mano che si avvicinavano all’edificio, i campi si rivestivano di neve e la mano della sera, allungando le sue dita d’ombra, accarezzava quieta il paesaggio. L’impressione era che dove conduceva la strada nevicasse da molto più tempo. Sebbene il bianco della neve rendesse tutto uniforme, pareva che nel cammino la scena mutasse a ogni angolo e passo, e che non fosse più il crepuscolo a sgorgare dalle cose, ma le cose a succedersi.
Come ha fatto ad azzeccarci? — chiese Luigi pensando ancora alla preveggenza della donna. Sarà mica un’indovina?
Ma non dir boiate — rispose Gianni — ci avrà fatto la mano a viver qui.
Luigi rimase in silenzio per un po’, poi chiese al fratello cosa avrebbero detto ai loro genitori.
Be’, una mezza verità — disse Gianni, infilando le mani nelle tasche.
Tipo?
Tipo che tornando da scuola abbiamo sbagliato bus, e quando ce ne siamo accorti ci eravamo già persi. Lo disse con sicurezza, era già da un po’ che pensava alla storia da raccontare per salvarsi la pelle.
Ci può stare. Ma parli tu vero? — si assicurò Luigi, che sapeva di non saper mentire.
Sì, ovvio. Tu manderesti tutto in vacca.
Luigi fece una smorfia ma stette zitto.
Tu cerca di piagnucolare — proseguì Gianni — sai che funziona sempre.
Ci proverò.
Luigi avrebbe voluto raccontare ai suoi come era andata veramente, in ogni particolare. Dal terrore iniziale che avevano provato dinnanzi a quel nebbione, alle cose che avevano scoperto esserci lì in mezzo, fino alla profezia della neve. Ma poi pensò che non avrebbe avuto senso, non avrebbero capito. Così quel pensiero volò via dal suo corpo andandosene insieme a uno stormo di uccelli sopra le loro teste, che librandosi nell’aria, si allontanò leggero.
Quando raggiunsero la fine della strada tutto il paesaggio splendeva bianco e omogeneo. L’insegna al neon STAZIONE stava fissa a caratteri cubitali su una staccionata alta ma fatiscente: dal cielo nero la scritta affiorava come un’apparizione lunare, e il suo chiarore, baluginando, si rifletteva sulla neve che le stava attorno. Lì vicino c’era un cane, forse lo stesso che avevano sentito abbaiare dalla panchina. Prima di varcare la staccionata restarono a osservare per un po’ le tracce che avevano lasciato sulla neve, poi entrarono, e si diressero verso il pannello delle partenze.
Luigi avrebbe voluto raccontare ai suoi come era andata veramente, in ogni particolare. Dal terrore iniziale che avevano provato dinnanzi a quel nebbione, alle cose che avevano scoperto esserci lì in mezzo, fino alla profezia della neve.
Quando presero posto sul bus, la notte era ormai scesa, avvolgendo la terra. I due fratelli stavano uno di fronte all’altro, nei posti con il tavolino in mezzo. Dopo un borbottio concitato del motore il bus se ne andò, lasciandosi alle spalle il luogo familiare da cui era partito. I due ragazzini, stanchi e ricolmi di pensieri dopo tutto quel girovagare, se ne stavano seduti con la testa china appoggiata al vetro del finestrone.
Su di esso si rifletteva l’interno del bus: i sedili, i tavolini, le figure degli altri passeggeri, i loro volti in primo piano. Oltre il vetro, sullo sfondo, scorreva veloce e indecifrabile il paesaggio: se ne stava là, al di là del guard-rail, illuminato da radi lampioni che come fiori notturni brulicavano di parvenze. In trasparenza, attraverso la loro immagine riflessa, s’innestava la smisurata pianura, gli alberi brulli, vecchi casolari abbandonati, ex fabbriche, scanditi da alcuni gatti randagi. Intuirono che quel riflesso, in cui – per un gioco combinatorio di luci e ombre – il loro corpo si mescolava ed intrecciava al paesaggio, costituiva l’immagine più autentica del loro essere e stare al mondo.
Il bus, sobbalzando ad ogni buca, andò dritto sulla strada tracciata. Dopo che ebbe svoltato oltre il curvone svanì, sollevando nell’aria una nube di gas, polvere e terra.
[…] via Elogio dello smarrimento — NEUTOPIA […]
"Mi piace""Mi piace"