Perché non abbiamo più bisogno di eroi

Oggi vi racconteremo una storia, una storia ambientata in periferia, nel grande raccordo anulare dimenticato di Roma o in una banlieue di Parigi. Il suo protagonista è un uomo che viene investito da una volante in pieno giorno e rimane fermo immobile, a terra. Prima di esalare l’ultimo respiro, assiste alla consueta proiezione della sua vita, e vede scorrere davanti agli occhi momenti belli ed entusiasmanti, momenti di gioia e di felicità. Non c’è spazio per momenti bui, anche se non sono mancati, certo; ciononostante tutto è avvincente e straordinario. L’uomo rimane con gli occhi a fissare il cielo, come un grande animale ferito che stia aspettando di essere ingoiato dalla terra, e quel che sogna non somiglia ad un rivale da abbattere, non somiglia ad una mancanza di idee, non somiglia ad un’installazione messa lì apposta per farsi guardare: ciò che sogna somiglia ad un grande risveglio collettivo. Si respira aria nuova, e per questo motivo egli sente di non essere morto invano. Ciò di cui si rammarica è di non avere vissuto abbastanza per poterlo raccontare. Così, con le ultime forze rimaste, alza il braccio per sussurrare la sua storia ad un passante, che ancora non sa di essere l’uomo più fortunato del mondo, perché quel moribondo gli sta per suggerire la visione che cambierà la sua vita per sempre.

Non abbiamo bisogno di eroi, ma di qualcuno che ci porti a sentire scorrere il sangue nelle vene, assaporare la nostra vita e comprendere che è stata straordinaria.

Se c’è un romanzo, una poesia o un reportage che ci piacerebbe leggere, probabilmente inizierebbe così. Non abbiamo bisogno di eroi, ma di qualcuno che ci porti a sentire scorrere il sangue nelle vene, assaporare la nostra vita e comprendere che è stata straordinaria. In questa storia non esistono santi, non ci sono buoni e cattivi, perché tutti sono protagonisti di un antagonismo che si fa regola. In questa storia ci sono un gruppo di ragazzi che hanno voglia di riscatto e allora decidono di rapinare una galleria del centro della loro città, indossare gli abiti migliori e andarsene lontano. In questa storia la polizia perde perché non c’è legge contro il buonsenso. In questa storia si può decidere se restare fermi a guardare, delucidando le possibilità e le tematiche del caso  – oppure lasciarsi trascinare e perdercisi. Una storia in  cui collettivo e individuale non indossino maschere contrapposte.
Ci piacerebbe leggerla, una storia così. Perché il problema non è semplicemente come si scrive. Il problema è anche scrivere storie che raccontino qualcosa.  Nell’epoca dello storytelling, tutto è buono per fare una storia. Anche una recensione diventa una storia,  anche l’aver perso il tram o aver lasciato i piatti da lavare. L’apoteosi del normale, inteso come diario minimo dell’individuale e quotidiano. Dovrebbe essere il tempo, il sedimentarsi delle cose, a creare la storia. Il reiterarsi dei gesti, anche i più quotidiani, e il loro mutare; e contemporaneamente una frattura, una ferita – qualcosa che inopinatamente, proditoriamente, accade,  e spezza il filo.  Questa è una storia.

Nell’epoca dello storytelling, tutto è buono per fare una storia. Anche una recensione diventa una storia,  anche l’aver perso il tram o aver lasciato i piatti da lavare…

Vado, racconto, torno: questa idea terribilmente giornalistica sembra essere dominante. Vado a trovare una storia, in quel posto lì, la prendo, e poi me la svigno. Come se lei fosse già lì bella e pronta, e bastasse raccattarla da terra. Come se si andasse nella bottega sotto casa alla ricerca di qualcosa di cui appropriarsi, da barattare con pochi etti di prodotti di consumo. «E anche un po’ di questa storia qui, la ringrazio».  Buongiorno, buonasera  e via un altro. Non esistono distributori automatici,  perché spesso la storia che si è scelta non è qualcosa di estraneo a chi scrive. Ho scelto quella storia,  ma non mi riguarda: non funziona così. Noi siamo sempre le storie che scriviamo. Ed è quell’esserci la garanzia, è in quell’essere che maturano il cuore e il pensiero necessari.
Una storia che riveli senza insegnare. Che sveli, ma lasci velato quello che ancora c’è da  capire, che non abbia paura di non illuminare tutto,  di  non dividere nettamente, di non analizzare,  concettualizzare e sezionare l’esistente. Una storia,  insomma,  che ci faccia sentire di essere vivi,  che esca dal libro e venga con  noi, e non rimanga soltanto un passatempo.

Illustrazione da un’elaborazione di Joey Guidone

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