«Duemilaventi, stelle cadenti, cultura neocoloniale/cambian le forme così come i venti ma tutto in sostanza rimane uguale», chiosa TresDeca nella title track del suo concept album Visioni Imperiali, disco di debutto che prende il suo nome da un capitolo di Sapiens. Da uomini a dèi di Yuval Noah Harari, libro da cui si sviluppa il pensiero sotteso al disco e racchiuso nella barra di cui sopra, ma che soprattutto sottolinea l’attenzione e l’amore di TresDeca per la storia dei popoli umani, tutti, che hanno attraversato il nostro pianeta nei millenni. Prodotto interamente da EdoardoJJ e uscito per Turindrugstore e Malcontenti Records, nuova etichetta nata con l’uscita di questo disco, Visioni Imperiali è un debutto peculiare nel quale i racconti intimi di testi come Rimango in me e Mr. Blade si inseriscono in un flusso di immagini molto più ampio che cerca di raccontare quanto ciclicamente ogni cosa, da moti personali a stravolgimenti globali, si riproponga in nuove declinazioni di una stessa voce nella storia degli esseri umani. Questa apertura di prospettiva si chiude in Bonus (96100), una dedica che può essere letta attraverso due chiavi speculari: la dedica a una persona amata, paragonandola alla terra, si incrocia a un inno alla terra stessa, paragonata a una persona amata.
È partendo dal punto di vista di un album – il primo ufficiale nella discografia dell’artista – che il progetto prende connotati interessanti: la consegna piana, precisa e tecnica di TresDeca e le strumentali di EdoardoJJ, in questo disco molto lineari e dalla personalità chiara ma non roboante, si intrecciano lungo un discorso che raramente si incontra in un debutto, storicamente più volto all’introduzione dell’ascoltatore all’interno del mondo dell’artista nella sua varietà più che nella sua intensità, con un volo radente ma distaccato lungo tutta la superficie delle sue potenzialità. Col passo che TresDeca compie, invece, tale varietà lascia spazio a un sincero discorso, appassionato e ben costruito, che adempie alla sua funzione di presentazione del personaggio per mezzo di una via più sottile, meno calcata, meno spettacolarizzata. Questa soluzione apre a una scoperta più intima e disponibile, ma non sul fronte della scena, come se la ricerca del proprio ascoltatore sia per TresDeca un processo nel quale anche l’altro deve compiere dei passi per andare sotto la superficie. Il doloroso messaggio al termine di Andata e Ritorno ne è un esempio perfetto, riuscendo a risignificare l’interno brano solo nel momento in cui lo si ascolta, non come elemento dell’outro, più musicale che significante, ma come parte del racconto a cui prestare la propria attenzione traducendo.
È proprio questa spietata sincerità del rap di TresDeca che ci consente di uscire fuori dal seminato strictly hip-hop prima di tutto per l’attenzione richiesta all’ascoltatore, in un dedalo di rimandi non pop che intessono un racconto, il quale pur rimanendo fedele a quel linguaggio, traccia una linea molto personale su quest’orizzonte, facendo emergere in un modo più sotterraneo la figura di chi scrive. È un gioco di specchi di cui la traccia di chiusura è solo l’esempio più clamoroso, ma che si ripropone in tutto il disco: è nel racconto più globale che la figura di Tresdeca viene a galla con maggiore chiarezza, ed è nei pezzi più personali che invece, dal piccolo, tenta di descrivere il grande.
BONUS (96100)
I tuoi ricci sono larici autunnali lungo i pendii scoscesi che quando c’è vento ondeggiano, riecheggiando il mare Nei tuoi occhi dimora la terra limosa e fertile, sconfinati paesaggi si aprono davanti a colui che la percorre e la attraversa Le tue scapole sono teatro di grandi migrazioni danze e falò, attorno ai quali tutte le tribù di questo emisfero hanno cantato i loro totem guida Il tuo collo è un violino che va suonato da mani morbide e vigorose, sensibili al suo impercettibile sussultare Le tue mani sono estuari dei grandi fiumi orientali, portatrici di sale e ricchezza per la foresta e le sue creature Il tuo seno è un vulcano e non può essere domato I tuoi nei costellazioni ataviche culle, a labirinto per chi come me ha trovato silenzio e pace in cui potersi espandere Il tuo respiro è il mio, così il vento dai ghiacciai dolenti, porta al riparo la sabbia rovente del fuoco di ulivo, verso mondi sconosciuti, dove l’ignoto passa le sue giornate e il mistero ha il sapore di Etna Rosso.
È da poco tempo che è uscito il suo sesto album solista, Storie d’Amore con Pioggia e Altri Racconti di Rovesci e Temporali e, superati mari, venti e notti, la penna di Alessio Mariani aka Murubutu ha deciso di affrontare il leitmotiv della pioggia per legare la sua ultima raccolta di racconti rap, che nonostante il suo preciso stile riesce a toccare alcune specifiche nuove variazioni – alcune già annunciate dallo scorso split-album scritto con Claver Gold. Ne abbiamo parlato con Alessio stesso, in preparazione per il suo prossimo tour.
Ciao, Alessio! Dunque, l’uscita del tuo ultimo lavoro, Storie d’Amore con Pioggia e Altri Racconti di Rovesci e Temporali, porta ulteriori evoluzioni al tuo percorso di ricerca: entrano in gioco sperimentazioni su metriche che strizzano l’occhio sia al reggae che alla trap e alla drill (quest’ultime già anticipate in INFERNVM, con Claver Gold), prosegue in alcuni brani il tuo ricercare forme più melodiche e musicali, intenzione che ritorna nella scelta, per la prima volta, di proporre un live assieme ad un’intera band e, sorprendentemente, eccettuati i brani con riferimenti storici, nessun personaggio muore a fine pezzo! Scherzi a parte, a fronte di una presenza trentennale nel mondo musicale, è molto bello osservare che c’è ancora volontà di cercare qualcosa di nuovo, nonostante il lavoro sul tuo stile ti abbia già portato ad un linguaggio così specifico e personale, cesellato e riccamente ornato. Come sei arrivato a queste nuove direzioni? Com’è il tuo rapporto col cambiamento, in relazione al tuo linguaggio?
Sì, questo è decisamente il mio album più sudato perché mi sono sforzato di uscire dalla mia comfort zone ed evolvere innanzitutto la mia relazione con la melodia, provando a cantare di più, e in secondo luogo sperimentandomi su sonorità diverse, più attuali, grazie al contributo del talentuoso beatmaker James Logan. Ma soprattutto, con l’aiuto del compositore Gian Flores, ho tentato di costruire delle melodie assieme al produttore, al posto di adattarmi alle basi per come mi venivano proposte. La volontà era per l’appunto quella di mettermi alla prova, cercando nuove formule non solo dal punto di vista musicale ma anche da quello compositivo e quindi provare a uscire dalla narrazione-storytelling stretta per avvicinare di più il flusso di coscienza, la poesia o comunque una forma espressiva che non avesse per forza una trama ma che si muovesse più per immagini.
Una cosa che mi ha sempre colpito è il numero e la capillarità delle tue collaborazioni con altre persone, sia all’interno dei tuoi album che in progetti altrui, passando dall’underground meno conosciuto a grandissimi nomi della scena nazionale, adattando il tuo stile a quello dell’altro artista e tuttavia conservando così bene il tuo gusto personale. In che modo nascono queste collaborazioni, come si sviluppa il dialogo creativo con altri liricisti?
Le mie collaborazioni sono rivolte a persone che stimo, che mi incuriosiscono, artisti con cui penso che possa esserci un dialogo proficuo. Fa parte anche un po’ della mia identità la progressione, il voler provare tante forme espressive e voler visitare i mondi degli altri, è parte della mia concezione di arte come percorso, e quindi sviluppare delle canzoni dove gli ospiti possano sentirsi a proprio agio pur mantenendo la mia identità è un modo per sperimentare e mettermi alla prova, cercando di far scaturire delle forme artistiche anche inaspettate.
La tua scrittura, che è molto immaginifica, crea un legame molto stretto tra ambientazione e personaggio – complici anche i concept dei tuoi album, che sono già loro stessi presupposti a cui fare riferimento e che richiedono contestualizzazione. Questo legame, però, lo vedo accostato molto alla scelta delle strumentali, che facendo anche tesoro della pratica del diggin’ sfornano una serie di rimandi a generi musicali molto particolari per confluire in un beat, che in alcuni casi della tua discografia determinano l’ambientazione almeno al pari del testo: dalla musica classica minimalista a quella orchestrale passando per il blues, fino a sfociare nel metal o nelle mazurke francesi. Lo stesso utilizzo di una sorta di leitmotif, in Storie d’Amore con Pioggia, tra le due parti di Black Rain e Diluvio Universale, crea un’altra lettura dei tre testi. Qual è il modo in cui questi due tipi di ambientazione, quella sonora e quella che sgorga dalla penna, si interlacciano? Quali sono i tuoi metodi di lavoro, in rapporto alle strumentali?
Rispetto alla relazione che c’è tra scrittura e composizione musicale ho già detto sopra che per la prima volta ho lavorato alla stesura della produzione da zero, e quindi c’è stato un approccio diverso rispetto al passato. In questo progetto ci sono produzioni che dialogano molto di più con gli strumenti suonati, questo è un album che porterò in tour con una band e per cui, sì, c’è una relazione diversa, più ricercata, fra la musica e il testo. Il fatto che ci siano tante contaminazioni fa parte, come dicevo prima, della volontà di sperimentare di più e di rendere in modo nuovo dei testi che continuano ad avere una loro complessità. Ecco, diciamo che il mio obiettivo, in questo momento, è di riuscire a rendere con sonorità sempre più melodiche e coinvolgenti testi che non cedano dal punto di vista della complessità concettuale. Come ho detto altre volte, tra il serio ed il faceto, dopo quella politica, didattica e narrativa, ritengo di essere nella mia fase melodica.
Sotterraneamente alla pioggia, tra i brani del tuo ultimo album scorre anche la tematica del tempo e del rapporto che l’umano ha con esso, che si tratti di memorie della vita dei personaggi, viaggi spaziotemporali, epoche storiche poco ricordate, oscuri futuri distopici o eventi fantastici che sottendono un prima/dopo netto, come il diluvio universale. La scrittura stessa è una forma di dialogo col tempo, e così come il tuo insegnare al liceo, in bilico tra il divulgare fatti passati e il comunicare con una generazione nuova, con le sue evoluzioni di linguaggio e di immaginario. Com’è il tuo rapporto col tempo, anche considerato il tuo doppio lavoro e le indubbie questioni logistiche che dovrai affrontare al riguardo?
Sì, effettivamente ho un rapporto col tempo molto particolare, e sicuramente si è riversato in questo disco. Mi intriga tantissimo il fatto che il tempo ci consumi ma nello stesso tempo non esista, le riflessioni di Kant al riguardo, a partire da Sant’Agostino, mi hanno sempre affascinato. Ho una paura incredibile di perdere tempo, forse proprio perchè ho paura che il tempo che abbiamo a disposizione sia sempre troppo poco per fare tutte le cose che la vita ci dà la possibilità di fare. Ho un rapporto col tempo un po’ conflittuale, anche perchè mi porta a confrontarmi con la nostra finitudine e con quella delle persone che ci stanno vicino. Nello stesso tempo sono anche tantissimo affascinato dal tema del viaggio spaziotemporale, che poi ricade sulle cose che ho detto prima, e anzi ne deriva, e così anche dalla letteratura e dal cinema che si fondano su questo tema. Quindi sì, il tempo è una mia grande passione dal punto di vista della riflessione concettuale, ho provato a svilupparne un’espressione di tipo artistico, mi ha fatto paura e quindi ho pensato che la pioggia fosse un buon mediatore ambientale per esprimere il tempo in una forma più lieve, meno approfondita e soprattutto meno angosciante.
A partire dai concerti-performance in teatro assieme a La Kattiveria fino alle date in combo con Roby il Pettirosso alle live visuals, passando per tutti i talk, le interviste e i confronti, il tuo rapporto col palco non si è mai esaurito nella semplice esecuzione dei brani, consentendoti da un lato altre modalità di espressione e dall’altro di poter calcare palchi e toccare contesti che sono preclusi ad altri tuoi colleghi meno istituzionalmente “letterati”, arrivando ad un pubblico che magari non è mai stato toccato dal linguaggi del rap. Come cambia il tuo rapportarti al palco a seconda del contesto? Hai delle storie di esperienze in cui il luogo della performance ha generato risultati inaspettati?
Effettivamente mi capita di performare in contesti che vanno dalla jam hip-hop, quindi un contesto più street, più giovane, fino ai festival culturali dove c’è un pubblico di tutt’altro profilo e che richiede una riflessione e un approccio meno urban, però io sono a mio agio in entrambe le dimensioni e in tutte quelle che ci stanno in mezzo. Questa è una cosa molto stimolante, mi piace cambiare contesto, e anche se il tipo di presentazione che faccio e il tipo di linguaggio che utilizzo sono diversi, fanno tutti parte di me. Reinventarmi ogni volta è una cosa che non temo e che mi tiene decisamente stimolato e vivo. Mi è capitato di vivere delle situazioni particolari in base al contesto, tra queste sicuramente quella che ricordo meglio è stata l’esperienza dell’intervista con Guccini nella quale mi sono ritrovato a confrontarmi con questo grandissimo cantautore in un talk decisamente interessante e quindi a fare un concerto nel quale io cantavo i miei pezzi in questo teatro in cui, nel backstage che riuscivo a vedere mentre cantavo, vedevo Guccini che mi ascoltava. Questa è stata una delle situazioni più memorabili che ho passato. Un altro episodio è legato al Festival Manzoniano che c’è stato quest’estate dove mi sono confrontato con un docente della Cattolica su Dante, anche in questo caso è stato estremamente stimolante unire i due linguaggi e trovare un punto d’incontro tra la cultura accademica ed una più musicale, ma anche la mia personale, più collegata alle scuole superiori, con degli ottimi risultati anche a detta del pubblico, che ha trovato interessante mediare stimoli culturali alti con riferimenti musicali legati alla musica leggera, fondamentalmente.
All’interno dei fatti che racconti, che si tratti di cose avvenute realmente, del tutto fantastiche oppure verosimili, raramente il personaggio Murubutu prende parte personale all’azione e spesso la tua stessa figura, per quanto rimanga ben presente nello stile della narrazione, scompare nel punto di vista del narratore delle storie, talvolta degli stessi protagonisti. Paradossalmente, oltre ovviamente a riconoscerti nella scelta delle storie stesse e dei significati che possono sottendere, la tua presenza si rivela più chiara nei brani senza un racconto preciso dietro, in cui è il tema stesso che rivela, nel tuo descriverlo, lo sguardo con cui lo osservi. In un genere dove il racconto di sè stessi e del proprio personale taglio con cui si descrive ciò che si ha attorno, questa scelta è peculiare. Terminando questa intervista, vorrei chiederti da dove sia arrivata questa decisione, se fosse stata cosciente o se semplicemente sia accaduta e, dopo anni, quali siano le cose a cui ti abbia portato a livello espressivo questa scelta.
Sì, questa cosa che dici è molto interessante, che il mio io emerge di più nella prospettiva con cui approccio testi meno strettamente narrativi. È comunque vera questa volontà di non parlare di me, oltretutto in un genere che va in tutt’altra direzione attraverso l’egotrippin’ e attraverso le narrazioni di vita, che siano credibili o meno. Non è tanto una scelta, credo che la cosa dipenda da due fattori: in primo luogo è la mia curvatura narrativa che mi porta a raccontare storie in terza persona, poi è chiaro che la mia esperienza di vita in qualche modo ritorna, però lo fa in modo molto indiretto, e in secondo luogo penso dipenda anche dal mio carattere, a me non piace tanto parlare di me, oppure mi piace farlo ma in modo più indiretto. Ecco, penso che dipenda soprattutto da questo.
ODE ALLA PIOGGIA (INTRO)
Ma tu pioggia che cadi e canti, ti alzi nell’aria Danzi il tuo pentagramma sotto il cielo del secolo Sento un coro dall’alto e intanto il cuore si incanta Infiamma il canto dell’acqua sotto un cielo del Tiepolo
Rimbomba-mba-mba nell’etere, l’etere, l’etere la sua sinfonia La pioggia-gia che scende-nde-nde-nde ha una sua melodia Quest’onda-nda di gemme-me-me e crea una sua armonia Ritorna a risplende-nde-nder e poi ti porta via
Tu pioggia che scendi, sciogli un po’ di ricordi Mentre grondi fra i rombi di tuono giù a terra E prima stavi fra i nembi, ferma sopra altri mondi Fra le nubi coi volti di uomo, Mantegna
E quando inizi, fissa e fitta, dritta e obliqua Picchi i tasti sopra l’erba, lasci l’aria trafitta Baci l’anima afflitta, in più la permei e la ritmi Ma quando il rito della terra più eterna che Whitman Ma il mondo che brilla di mille pupille divise da righe di linee visibili
Ogni goccia che stilla là fra le tue ciglia dipinge le vie delle vite possibili Questi ricordi caduti fra noi, noi Insieme alla pioggia di Joy-Joyce
Punteggian con stile il tuo libro di terra che scrive e cancella gli stessi capitoli E tu pioggia sugli occhi che mi gonfi i ricordi E il suo era così enorme che colava sui fogli Sopra il senso dei giorni ed io sospeso fra i mondi
Sai, pioveva così forte, l’acqua entrava nei sogni Copri d’argento quest’alba sul vicolo Scuote il silenzio nell’aria, Quasimodo Forti le gorghe ricolme di foglie, memorie e ricordi in un flusso continuo
Ma sti venti qui ti amano, di-di-dilagano Nei cieli che richiamano i destrieri di Nabokov E tu pioggia sorpresa stai nell’aria sospesa Miri e scruti il riflesso della luce che emerge Attese dentro a una schiera, mille nubi in attesa Come il cielo del Correggio mentre assume la Vergine
Rimbomba-mba-mba nell’etere, l’etere, l’etere la sua sinfonia La pioggia-gia che scende-nde-nde-nde, ha una sua melodia Quest’onda-nda di gemme-me-me e crea una sua armonia Ritorna a risplende-nde-nder e poi ti porta via
Mille lampi e bufera, mille dardi in faretra Vivo sotto a un cielo-mare fra le strade di Fischer E tu mi guardi sotto sera, tu mi baci, tutto trema E quando smette il temporale la tua bocca svanisce, sparisce
Ed ogni goccia di pioggia sui vetri L’ammira mentre appoggia la punta dei piedi
Testo e voce di Murubutu ft. dj caster Produzione James Logan, Gian Flores, XxX Fila e Red Sinapsy
Decisamente meno consolante di quanto il titolo possa lasciare intuire, Disco per l’estate (Radiobluenote Records, 2022) è il nuovo progetto discografico di Luca Atzori che, dopo il progetto Almagesto, pubblicato sempre per Radiobluenote con le sonorizzazioni di Alessio Cannarozzo, decide di affidarsi a un altro membro della scuderia dell’etichetta torinese, SOFIA_, monicker di Sofia Spampinato, giovane catanese trapiantata a Torino. Dopo i due suoi singoli usciti la scorsa estate, nei quali SOFIA_ si era spostata dal computer al microfono, affidando le produzioni alle sapienti mani di Davide Bava, qui ritorna a un lavoro più simile a quello del suo EP di debutto, Cornici, nel quale le sue produzioni ospitano contributi di altri artisti, e solo in un caso compare la sua voce, qui presente solo a sostegno della strumentale o in alcune doppie. Parallelamente, anche per Atzori si osserva un processo simile: dopo un album come Almagesto, in cui la ricerca era votata esclusivamente alla potenza immaginifica del suono, raggiungendo il suo parossismo nella monumentale traccia di chiusura, Epiciclo, qui si ha un ritorno alla parola e al suo significato che richiama più il suo Iperrealismo Magico, album del 2020 realizzato in collaborazione con la contrabbassista Veronica Perego e gli studi torinesi BNDCKS. Riprendendo e sviluppando questi approcci che hanno già reso loro successo, Disco per l’estate è un joint-album veloce ma dal peso specifico notevole, nel quale entrambe le personalità artistiche mantengono la loro natura convergendo su un obiettivo specifico.
Già entrando nella prima traccia, Bonifacio, si percepisce infatti quell’atmosfera sottesa di angoscia che, emergendo in maniera più o meno chiara in ogni traccia, sia nell’impiantito sonoro di SOFIA_ che nei testi e nell’interpretazione di Atzori, accompagnerà l’ascoltatore lungo tutto un disco che si svela pian piano come una serie di tentativi più o meno falliti di evasione, che in alcuni casi sfociano direttamente l’uno nell’altro. Se il racconto della prima traccia, infatti, parla del desiderio solitario di spostarsi in altro luogo per sfuggire alle tensioni, la drum-and-bossanova Deltaplani racconta invece la fuga anestetizzante in un amore inconcludente e distratto che prova a canticchiare di sè senza tenere di conto le immagini minacciose che contiene dentro, tra cui il micidiale “silenzio a sonagli” che chiude il ritornello dell’unica traccia che, ad un ascolto meno attento, potrebbe non comunicare questa tensione dominante nell’opera. Le tre tracce successive, infatti, disvelano pian piano il malessere in maniera sempre più chiara: si parte dalla violenza delle immagini e dei segni in Clitennestra, in cui la figura femminile, idealizzata, esce dal mito e disvela tutta la sua pervasività allargandosi, raccontando coi termini di Eco nel suo Trattato di semiotica il percorso di un osservatore verso la sua ossessione (con un possibile richiamo anche al mondo della pornografia online, dall’ambivalenza del termine “finestra”, sia elemento architettonico che scheda del browser), passando poi per Les chansons de geste, che di questi segni ne denuncia sia l’ammorbante sovrabbondanza che confonde, sia l’opportunismo di chi li sfrutta per manipolare la percezione altrui della realtà, dal marketing alle fake news, per poi giungere a Torino di merda, in cui quest’ansia da soffocamento, stordita dal coro di segnali, esplode in un’invettiva che spalma questa tensione su tutte le pareti della città dove sia Atzori che SOFIA_ vivono da anni, fino a fare emergere nel fiume di parole i primi segnali (“Torino unica/quando scopri che è il mondo/una merda”) di quello che poi emergerà nella traccia seguente, in cui la voce di Luca si rifugia più indietro nel panorama sonoro per restituire le doppie e gli echi delle parole di Tito Sherpa, altro ospite ben conosciuto in casa Radiobluenote. Ne Il sintomo, ultima traccia in cui la parola compare (e non più quella di Luca, che prima di dissolversi dietro Sherpa si perde in un grammelot drill-trap ad inizio del pezzo), Tito traccia il ritratto di un personaggio che, nella confusione, realizza che quella pace di evasione tanto ricercata non può trovarsi, e che la vera fonte della tensione è che “sono io il Diavolo/che vede il Diavolo/su facce umane”. Dopo il disgregato termine della traccia, il disco si conclude con La guerra degli hippies, una traccia estremamente lo-fi, chitarra e voce, che riprende la melodia di Deltaplani svuotandola del testo.
Se uno dei fulcri centrali di questa narrazione è la varietà, la potenza, la pervasività e il fittissimo mutarsi degli stimoli di cui i personaggi di queste storie sono circondati, il lavoro sul suono e sull’interpretazione del duo si muove perfettamente lungo questo asse, con l’approccio già multiforme, cesellato e intragenere di SOFIA_ che in questo progetto sfodera una notevole quantità di approcci alla produzione fusi in un flusso unico nel quale tra mantra, casse Rotterdam, campionamenti da James Joyce (che apre Il sintomo con un pezzo da Annalivia Plurabelle, da Finnegans Wake), utilizzi non convenzionali della voce, piattini trap, synth roboanti ed un attento editing vocale su di Luca, l’interpretazione di Atzori si appoggia perfettamente, passando a sua volta da più e più terreni vocali, tra il canto, la cantilena, lo scream, il recitato lirico e quello grottesco, in perfetta coerenza non solo col tema ma anche coi testi che, se osservati, rivelano quanto lavoro ci sia stato nel fondere al meglio tutti questi stimoli, non aggrappandocisi pedissequamente ma concedendosi il lusso di modificare, di elidere, di ripetere – lavoro che già si è riscontrato negli scorsi lavori di Luca, peraltro, i cui testi sono tratti da libri editi e quindi utili per un confronto tra la pagina e l’ascolto. Questo percorso con finale aperto attraverso la caoticità sovrastimolante e violenta, generatrice di tensione, non poteva che prendere una forma sonora di questa natura, e SOFIA_ e Atzori in questo hanno colto nel segno.
BONIFACIO
sono ai piedi delle bocche di Bonifacio lontano dall’industria e dall’entusiasmo cosa faccio vieni con me porta il dolore nella foresta c’è una festa dove si fa tutti l’amore
tutto comincia con l’incompetenza la maggioranza è passiva appesa sul balcone ed io che sono un sasso come tale consuono appaio come un fiore l’odore non scompare la chiesa e il sesso paragonato alla passione per favore il suo nome è l’ossessione lo sento sul torace vado via apro la porta ci sono sogni che hanno mura così profonde si ti otturano
lei ti insegue senza radici e più tu scappi più ti illudi che le puoi estirpare ma il regalo negli opifici del mio amore svegliarsi pieni di rancore così antico e così dolce fissato con la calce di angosce assolte bigonce rotte sulla testa del tuo aggressore
sono ai piedi delle bocche di Bonifacio lontano dall’industria e dall’entusiasmo cosa faccio vieni con me porta il dolore nella foresta c’è una festa dove si fa tutti l’amore
Saint Paul ou le colosses au pied de l’argile ville de pietrobugno ed ecco il dito
Disco per l’estate radiobluenote records, 2022 testo e voce di luca atzori produzione e voce di sofia_ Copertina di Eleonora Ballarè
Il 25 febbraio uscirà per Dischi Sotterranei Giovane Cagliostro, nuova opera di Vinnie Marakas prodotta da Richard Floyd nella quale, in un gioco di rimandi che richiama sia il Battiato anni ’80 che la french house più acida, il personaggio Vinnie fiorisce in canti perfettamente in equilibrio tra illusione e verosimiglianza, tra inno e paraculaggine, offrendo omaggio all’alchimista imbroglione Cagliostro e alla decadenza dei miti e della cultura occidentale che viene vista coi colori, intensi e allegri, di un tramonto cinematografico e dolce che non potrebbe esser così senza l’inquinamento dell’aria. In occasione di quest’uscita, abbiamo voluto parlarne direttamente con lui.
Ciao, Vinnie! Dunque, la prima domanda viene spontanea dopo la visione dei due videoclip che anticipano l’uscita di Giovane Cagliostro EP, nei quali mostri uno sviluppo forte dalle tue precedenti uscite: come si è evoluto Vinnie Marakas, quali sono gli attraversamenti che ha compiuto per arrivare a questo nuovo lavoro?
Il procedimento si basa sulla pratica del Solve et Coagula. La trasformazione esteriore procede di pari passo a quella interiore, attraverso un cammino non dissimile da quello che Jung chiamava processo di individuazione. Tutto comincia con una caduta, con una distruzione: lo scioglimento della forma, o l’espunzione della verità, che viene tralasciata, dimenticata. Qualche riflesso specchiato cede poi alla tentazione di esistere, si libera con le operazioni e si rivela attraverso delle fragili detonazioni, dei fremiti. Questo tramestio ha il nome della Lingua degli Uccelli, madre e decana di tutte le altre, lingua dei filosofi e dei diplomatici, di cui la mitologia vuole che ne avesse perfetta conoscenza Tiresia, l’indovino. Io fui Tiresia, e fui Cassandra, altro non devo fare se non rimembrare i frammenti dopo averli smembrati.
Vinnie Marakas, foto di Lorenzo Ubertalli
Sulla traccia di tutti i tuoi lavori, anche in quest’ultimo viene lasciato molto spazio all’estetica, che con te sembra prenda vita propria, parlando un linguaggio personale e frutto di scelte. Che ruolo ha per te l’estetica, che fine ha sul piano comunicativo?
Ogni abito è un travestimento, una maschera che condiziona i movimenti e i gesti. Così, ogni operazione ha bisogno del suo abito. Questo non è un fatto positivo o negativo, ma semplicemente un fatto. Nel teatro balinese, così come in quello pechinese, le maschere hanno una grande importanza, si tramandano di generazione in generazione, e gli attori si esercitano tutta la vita su quella unica, singola maschera. È un concetto che abbraccia il dentro e il fuori, sono oggetti scomodi che costringono a mantenere una certa tensione dei muscoli facciali, anche se sono nascosti e non li vede nessuno. A quello che serve una maschera, a celare e trasformare ciò che sta sotto: la Verità.
Il tuo rapporto con la musica passa non solo attraverso quella che crei, ma anche dal selectarne di altrui. In che modo questa cosa può aver influenzato il tuo lato creativo, anche nell’ottica della performance dal vivo?
Non mi piace parlare di lato creativo, o di creatività. Anzi, sarò sincero, lo aborro. Non credo nella creatività, né ai creatori o creativi. Io non creo nulla, non desidero nessuna autorialità. Esiste un immaginario di simboli, visioni, archetipi, dal quale attingo, rubo, saccheggio. Come gli scultori di immagini dell’ars gothica, che prendevano una materia e dei simboli che appartengono alla memoria più antica dell’essere umano trasformandoli con la loro tecnica, così io li imito come la Festa dei Folli imitava la quotidianità. Aggiungo questo: i costruttori del medioevo avevano la prerogativa della modestia. Artigiani anonimi di puri capolavori per l’affermazione del loro ideale e della loro scienza. È stato dopo, in quella spettacolare quanto nefasta epoca di decadenza e servilismo che prese il paradossale nome di Rinascimento che gli artisti, i pittori, gli architetti, preoccupati della propria personalità, gelosi del loro valore, edificarono per la posterità del loro nome. Nell’opera gotica, la tecnica resta sottomessa all’Idea, in quella rinascimentale, e contemporanea, è l’autore (presunto) che la domina e la cancella. Da un lato il genio, dall’altro, il talento. Mi perdonerai lo sproloquio, ma hai involontariamente toccato un tasto cruciale e importante, secondo me. La lingua, come la musica e come ogni altro strumento dello spirito, vive di per sé. Non inventiamo niente, non creiamo niente. Tutto è in tutto. Quello che crediamo di scoprire con il solo sforzo della nostra intelligenza, esiste già da qualche parte. C’è stato un momento qualche anno fa in cui andava di moda diventare DJ. Anche il Rinascimento è una moda. Non amo particolarmente le mode e non sono DJ, né selezionatore. Ascolto. Con curiositas e attenzione. Altro non so fare.
La scelta della forma-canzone, in Giovane Cagliostro, si sposa con una scrittura ed una messa in voce molto diversa da altri tuoi lavori, come già detto prima. Il risultato è molto organico, anche con le scelte musicali: cosa è arrivato prima, la scrittura, la forma vocale o la scelta musicale?
“In principio era il caos soltanto”, come in tutte le teogonie che si rispettino. No, ti direi che per prima cosa è arrivata la musica, e che al contrario la scrittura non è mai pervenuta. Solitamente con Richard Floyd, che ha prodotto le operazioni musicali, ci concentriamo prima sulla composizione musicale, che magari parte da delle mie idee, piuttosto che sue, fino a che arriviamo ad avere una bozza di brano. Sono molto riluttante all’idea di una struttura di canzone, ma per questo è utile avere un producer che fa da argine. Una volta che c’è l’idea musicale, il giro armonico eccetera, allora mi metto in ascolto, e di solito affiora un brusio di suoni, di voci, che lentamente si decodificano in parola. Ma questo processo raramente culmina in una scrittura vera e propria, se non in una scrittura puramente orale che sgorga dalla reiterazione e dalla mimesi. Alla fine le parole vanno al loro posto con una loro melodia. Si dà troppa importanza alla scrittura, e a chi scrive. Le parole, se le si lascia libere, sanno esattamente dove e come porsi.
Le presentazioni del tuo progetto oscillano sempre tra il messianico e il cialtrone, coerentemente ad una produzione che riesce a raggiungere punti molto profondi e a mantenere un’ironia di fondo molto marcata. Ma se tu stesso dovessi presentare Vinnie, come lo definiresti?
Colui che è e colui che non è. Incarno la dialetheia, la proposizione sia falsa che vera, il paradosso, l’eresia, l’affermazione e la negazione. Sono un trapezista dell’immaginario. Io sono Cagliostro.
(Isidoro Concas)
Rrose Sélavy
Io sono Don Chisciotte Io sono Dylan Dog io sono San Francesco Io sono Turandot (e poi?)
Io non sono di qui Je suis Madame Bovary
Io son Giovanna D’Arco Io sono de Beauvoir E que será será Chi vorrà saprà: La vanità velata sta
Io non sono di qui Je suis je suis Rrose Sélavy
Sono un avventuriero Ma non Indiana Jones Io sono la grondaia Ma non Gustavo Rol
Sono Giordano Bruno Non sono Belzebù Sono Franco Fanigliulo Jannacci o chi vuoi tu
Io non sono di qui Je suis je suis je suis Rrose Sélavy Je suis je suis Rrose Sélavy
Io son Giovanna D’Arco Io sono Elifas E que será, será Chi saprà vedrà: La vanità in silenzio sta (eh già) La Verità al buio sta (di già?) Io non sono più qui (di già?)
Io sono Don Chisciotte Io sono Dylan Dog Io sono Don Chisciotte Io sono Dylan Dog Io non sono di qui Je suis je suis Rrose Sélavy Ceci, ceci n’est pas une pipe (come Magritte)
Sulla piattaforma di crowdfunding Produzioni Dal Basso è comparso un paio di mesi fa un progetto che ha al suo centro proprio il rapporto tra parola e musica: il Bhutan Clan, collettivo nato a Bologna diversi anni fa, in collaborazione con Wu Ming 1, oltre ad annunciare un primo album assieme dopo anni di collaborazioni in live, cercano una sede per Melològos, uno spazio dove poter proseguire le loro sperimentazioni, aprirsi a quanti più stimoli possano arrivare in quella direzione, raccogliere le strumentazioni adatte per produrre le loro visioni. Il progetto, che è ancora finanziabile per un mese, potrebbe dare quindi vita ad uno spazio unico nel suo genere, che potrebbe generare incroci ed energie inedite a Bologna, ramificandosi in tutta Italia. Mossi da sincero entusiasmo, ne abbiamo voluto parlare con Jadel Andreetto e Stefano D’Arcangelo del Bhutan Clan.
Ciao ragazzi! Dunque, per cominciare: il vostro progetto è nato e si è consolidato negli anni in seno a Resistenze in Cirenaica, un contesto multidisciplinare vivido e creativo. Come vi siete incontrati, e quali tappe avete attraversato per poi arrivare al progetto del primo Disco di Cirene?
Jadel Andreetto: Il Bhutan Clan è nato tra 2013 e 2014 a Bologna e, ironia della sorte, era una formazione esclusivamente strumentale. All’epoca eravamo in tre, basso (il sottoscritto), chitarra (Bruno Fiorini) e guitalele (Ricardo López Peliza). Io e Bruno facevamo parte anche del collettivo di scrittura : Kai Zen : e del neonato cantiere culturale bolognese Resistenze In Cirenaica e così quando è arrivato il momento di organizzare il primo evento targato RIC nel 2015, ci è venuto naturale unire le due cose preparando alcuni “reading sonorizzati” per raccontare le storie di resistenza al colonialismo e al nazifascismo legate al rione bolognese della Cirenaica. Come : Kai Zen : avevamo già avuto diverse esperienze pregresse quando tra 2007 e 2012 avevamo azzardato degli esperimenti sonori legati ai nostri romanzi La strategia dell’Ariete e Delta Blues, come del resto stavano facendo anche i Wu Ming. Nel frattempo la Compagnia Fantasma, che da molti anni sperimentava un ibrido tra reading, melologo e pièce teatrale, aveva lavorato con entrambi i collettivi e aveva in canna alcuni spettacoli per RIC. Il Bhutan Clan è diventato la “resident band” del cantiere e ha ampliato le collaborazioni; Stefano D’Arcangelo della Compagnia Fantasma si è unito in pianta stabile all’ensemble in veste di tastierista e il Clan ha cominciato a crescere, dapprima accogliendo un percussionista, poi provando con diversi batteristi fino a reclutare Michele Koukoussis dei Travellers. Tra 2017 e 2018 abbiamo perso per strada il guitalelista, ma le collaborazioni si sono moltiplicate e il Bhutan Clan ha incrociato la sua strada con diversi musicisti e scrittori tra cui Wu Ming 1 e Wu Ming 2. Con il primo in particolare, abbiamo continuato a lavorare sulle tematiche care a Ric e a comporre delle “suite” da interpolare ai suoi lavori solisti come Un viaggio che non promettiamo breve e La macchina del vento. È stato proprio questo lavoro intenso e intensivo che ci ha portati a ragionare sulla forma musicale del melologo, su come rivisitarla e trasformarla in un’ascia di guerra.
Il vostro crowdfunding, però, non si ferma alla sola realizzazione del disco e si spinge fino al desiderio di creare Melologos, uno spazio a Bologna dedicato alla sperimentazione e alla ricerca delle potenzialità dell’incrocio tra parola recitata e musica, terreno da cui partire per altre creazioni e nuovi incontri, con l’intenzione di accogliere quanti siano interessati e offrire loro spazi e mezzi adatti. Come avete immaginato questo spazio, avete già degli esempi circa ciò che succederà al suo interno e le realtà artistiche che coinvolgerete?
Stefano D’Arcangelo: Il passo successivo al disco è sempre stato in essere, la normale conseguenza della nostra ricerca e del modo in cui la compiamo. Negli anni ci siamo cimentati in podcast, radiodrammi e altri formati e ci sembrava il momento di portare queste esperienze sotto un unico tetto. L’idea è di prenderci un posto, comprare le attrezzature da metterci dentro, fondare un vero e proprio laboratorio permanente con l’aggiunta di sala prove e ambienti adatti a riunioni, workshop, seminari, incontri con musicisti, scrittori, rapper, poeti, ingegneri del suono oltre a piccole esibizioni dal vivo, ascolti collettivi di percorsi fonoautoriali, eccetera. Un luogo nostro dove continuare con le nostre sperimentazioni ma anche aperto ad altri singoli e gruppi. In tutto questo abbiamo già incontrato o rincontrato compagne e compagni di strada a cui abbiamo già proposto di tenere workshop, seminari, incontri nel nuovo laboratorio di fonologia narrativa e che hanno dato subito la loro disponibilità. Loredana Lipperini – in veste di musicologa, quale ella effettivamente sarebbe ed è – Filo Sottile (come si diventa una punkastorie), Luca Casarotti (feat. WM1, tecniche della lettura su musica improvvisata e dell’improvvisazione musicale in interazione con la lettura di un testo), Lello Voce (musica interna della poesia, come farla sentire mentre si legge poesia su musica), Militant A (il ritmo, la parola, l’ascoltarsi… l’acufene).
Come riprende anche il nome dello spazio che nascerà, la definizione circa l’approccio al microfono di Wu Ming 1 che date è quella di un melologo (direttamente dal XVIII secolo) riattualizzato, e con una dose di attitudine punk. In che modo ha luogo questa attualizzazione, e come le diverse parti del collettivo hanno contribuito alla ricerca, arrivando da diversi linguaggi tra cui il teatro, la musica e la scrittura?
Stefano D’Arcangelo: Alla base c’è la “relazione”, il cortocircuito, scintilla dinamica ma anche oggetto di ricerca. Ci è sempre interessato affiancare e far entrare in contatto esperienze, linguaggi, suoni di diversa natura. Quello che sta accadendo nella nostra esperienza non è nient’altro che la conseguenza di questa spiccata deformazione che tutti noi abbiamo. Non è mai stato un “pur venendo da esperienze diverse”, “pur accostando linguaggi diversi” ma un “siccome” il punto della nostra ricerca. La conseguenza naturale è stata che alcune collaborazioni fossero già in atto da anni: : Kai Zen : e Wu Ming, la Compagnia Fantasma e i suoi lavori teatrali tratti dai loro libri la collaborazione musicale tra me e Giroweedz, l’esperienza di Michele come batterista in molte di queste esperienze comuni, il background performativo di Jadel e Bruno, effettivi fondatori del Bhutan Clan. Le strade si erano già intersecate in molte esperienze comuni che nel corso degli anni ci avevano già messo praticamente uno accanto all’altro. Dare un nome alla nostra ricerca comune, definire il perimetro di queste pratiche e metterci dentro il nostro taglio personale è stato il processo conseguente a un qualcosa che era già: “un pensiero estetico ingenuo. Proprio come il punk.”
La volontà di incidere questo disco segue un’esperienza lunga anni di sperimentazioni dal vivo, e nella stessa presentazione del progetto parlate dell’album come un supporto su cui “catturare l’irruenza e la passione del live”. Come considerate l’esperienza del concerto, specie parlando di un genere come il vostro e con una scelta di testi che pone l’accento sulla necessità di divulgazione?
Jadel Andreetto: Il live è l’acqua in cui nuotiamo ed è pure parecchio agitata. Sembra paradossale, ma non lo è. Di solito i reading richiedono una soglia di concentrazione da parte dell’ascoltatore diversa da quella di un “normale” concerto, i nostri però non sono reading intesi in senso classico. La voce narrante non viene semplicemente accompagnata da un tappeto sonoro, interagisce con i musicisti e con l’andamento delle composizioni. I testi vengono ri-scritti ed elaborati per dialogare con i suoni, la voce non si limita a leggere o a recitare, ma è a sua volta uno strumento. Le storie sono al centro della nostra poetica, come lo è il nostro modo di raccontarle. Un crescendo, un’improvvisazione, un giro di basso, un assolo di batteria, un riff di chitarra o di synth – la stessa presenza scenica – possono, al momento giusto, essere pattern narrativi.
L’esistenza di una “stanza tutta per voi”, con gli spazi e i mezzi adatti alle necessità, è proposta in uno dei testi pubblicati su Giap a contorno di questo crowdfunding anche come atto di resistenza – e questo indipendentemente dalle tematiche del disco, ma riferendosi proprio alla preziosità di un luogo dove creare cultura “altra”, influenzandosi a vicenda e creando movimento. Progetti come il vostro stesso collettivo non sarebbero nati senza una spinta di questo tipo. Quali pensate siano le forme di questa resistenza, quali i fiori che ne potrebbero fiorire?
Jadel Andreetto: Più che una stanza tutta per noi, direi molte stanze per tante persone. Il laboratorio che abbiamo in mente ha bisogno di diversi spazi: sale prove, cabine di regia, aule didattiche, studi di registrazione, uno spazio per i live… È un progetto ambizioso e di sicuro stiamo peccando di hỳbris, ma ai tempi dell’incubo, vale la pena sognare, non sarà certo una punizione divina a impedirci di farlo.
Stefano D’Arcangelo: Resistere, come abbiamo spiegato presentando il nostro crowdfounding, per noi significa “adattarsi il meno possibile, farsi dominare il meno possibile, coltivare un frattempo per pensare al contrattacco.” Il nostro frattempo è passato continuando a incontrarci, scrivere, suonare e produrre anche in tempi di chiusure estreme. Atto di resistenza come si spiegava, non di resilienza. Escogitare un piano, non rinunciare all’incontro. Umano, di linguaggi, di portati e strade personali da far reagire con gli altri componenti. E il piano sarebbe stato chiaro: inaugurare una nuova fase di ricerca. Ma prima sarebbe stato importante fare un punto, incidere e dare forma a tutto quello che avevamo prodotto assieme ed eseguito dal vivo dal 2015. Il disco quindi, e una serie di registrazioni dei nostri lavori su La macchina del vento e tutto il repertorio sonico-letterario che ci accompagna nel nostro essere (non a caso) la resident-band del progetto RIC. Fatto il disco, il passo successivo: espandere la nostra ricerca. Può sembrare fuori luogo aprire una campagna per incidere un disco e fondare un laboratorio di sperimentazione musico-letteraria nel bel mezzo di una pandemia: giorni di paura, insofferenza, annunci di nuove restrizioni… A noi, al contrario, è sembrato perfettamente in luogo. Perché è sempre qui e adesso che bisogna resistere. E resistenza, per noi, è anche fare cultura altra. Curare un immaginario altro. Incitare pensieri altri. È quello che facciamo e che continueremo a fare.
Concludiamo questa intervista con uno sguardo alla situazione attuale del crowdfunding, che al momento si attesta vagamente a metà della cifra da raggiungere con la scadenza a circa un mese. Come è stata, finora, questa esperienza di raccolta fondi? Nel caso le cose non andassero come auspicato, come vi muoverete?
Jadel Andreetto: Di questi tempi avviare un crowdfunding è un azzardo. Gli ultimi due anni hanno lasciato il segno. Non tutti hanno la voglia, o la possibilità, di sostenere una raccolta per un progetto del genere. La parola stessa progetto sembra in dissonanza con lo Zeitgeist, proiettare in avanti in un presente dilatato allo stremo è come trovarsi sull’orlo di un buco nero: il tempo è prossimo all’immobilità e guardare oltre l’orizzonte degli eventi sembra impossibile. Eppure… Eppure in molti hanno fatto questo salto nel buio e ci hanno appoggiato e sostenuto con donazioni di varia entità, un atto di coraggio che in un altro momento sarebbe stato un “semplice” atto di generosità. Abbiamo puntato in alto, ma non c’era altro modo, le cifre parlano chiaro. Registrare un disco e avviare uno spazio di condivisione dei saperi ha dei costi materiali che non si possono evitare e dovevamo provarci, se poi non ce la faremo, continueremo a fare di tutto per suonare live, organizzare incontri, workshop, condividere pratiche e conoscenze ripensando l’intero progetto… Per dirla con Beckett: “abbiamo provato, abbiamo fallito. Non importa, riproveremo. Falliremo meglio.” Sarà un percorso tortuoso, ma siamo abituati a scarpinare in salita… Sapere che là fuori ci sono altre persone che hanno voglia di ri-mettersi in gioco, di tornare a fare e a respirare, per noi è la ricompensa più grande.