Anche i poeti imparino a combattere | Il ritorno dei CCCP è un galà punkettone

Ottobre, fuori c’è la nebbia, Vittoria con la sua Volkswagen attraversa la Pianura Padana. Stiamo viaggiando dall’Engadina a Roma. Vittoria oggi ha i capelli grigi e una coda di topo al collo e preme forte sull’acceleratore. Dalla radio parte Emila Paranoica dei CCCP.

Vittoria fischietta il motivo della canzone. Siamo quasi arrivati a Reggio Emilia e mi dice: “La prossima volta che ci fermiamo sarà a Carpi.”
Ci fermiamo. “Emilia Paranoica”, fischietta Vittoria, annunciando la prossima tappa con un ritmo imperturbabile.
Dopo aver fatto rifornimento e mangiato un panino nel parcheggio dell’autogrill, riprendiamo l’autostrada.
Vittoria mi dice che lei i suoi primi lavori di documentario li ha fatti perché a Bologna i CCCP o i relitti di ciò che ne rimaneva era facile trovarli nei centri sociali, con qualche birra in mano, quando ancora Zamboni raccontava le loro disavventure e i fasti persi, tra una presentazione di un libro e la constatazione dei tempi che furono.
“Hai presente il mangiacassette? Ancora si usava quello” dice, con una punta di nostalgia nella voce.
“Ma poi lo sai che Giovanni Lindo Ferretti è impazzito?” chiedo io, sarcastica, riferendomi alla conversione.
“Alcuni dicono che non sia mai cambiato…” mi fa lei. Le do tregua. Quando si tratta di fede, non serve sindacare.
“Cosa ti ha legato così tanto a questi CCCP?” le chiedo, stendendo i piedi sul cruscotto.
Vittoria, con occhi brillanti di passione, risponde: “I CCCP erano più di una band, erano un’esperienza, una dichiarazione di libertà in un’epoca di cambiamento.”

Era Il 1982, Berlino vibrava di energia e ribellione. Tre giovani animati da un desiderio di rivalsa, stanchi delle mode Americane che invadevano la loro vita quotidiana, decisero di intraprendere un percorso diverso. Giovanni Ferretti, Massimo Zamboni e Umberto Negri diedero vita al gruppo punk “Cccp – Fedeli Alla Linea”. La loro musica risuonò nelle città dell’Europa del nord, da Amburgo a Stoccarda, da Friburgo ad Amsterdam, ma fu a Berlino, con la sua dolcezza estrema e la violenza più grande, che trovarono il cuore della nuova Europa. A Kreuzberg. Poi si aggiunsero Annarella Giudici, “benemerita soubrette” e Danilo Fatur, “il bello del popolo”.
Il gruppo, stanziatosi nel frattempo a Reggio Emilia, decise di portare la sua visione filosovietica più vicina a casa, proponendo la loro prima performance di teatro d’avanguardia al “Tarantola Club”. Era il 1985. Chiamarono le loro esibizioni “Concerti-Comizi”, un modo di comunicare ideali e pensieri per lo più fuori moda attraverso la musica. Il loro primo 45 giri, intitolato Ortodossia, racchiudeva tre brani diversi, riflettendo la varietà del loro approccio: Live In Pankow, Spara Jurij e Punk Islam.
La scelta del filosovietismo, spiegavano, era motivata da ragioni sia etiche che estetiche. Preferivano l’autenticità e la solidità dell’est europeo all’effimero occidentale. Vivevano in un’Europa che, secondo loro, doveva riconoscere Pankow, Varsavia e Praga come città europee a tutti gli effetti. Berlino, con la sua coesistenza di culture, diventò il simbolo della loro Europa immaginaria, attraverso l’incontro e lo scontro con le civiltà arabe e asiatiche.
La Russia, spiegavano, era solo una parte del loro affascinante mondo. Non erano nazionalisti, ma amavano la Repubblica Popolare Cinese e l’Islam. La loro ambizione li avrebbe portati oltre, fino in Mongolia, attraverso la Siberia, sebbene vivessero nel costante desiderio di Un’unione Sovietica che stava per sgretolarsi.

Se i CCCP non fossero esistiti, avrebbero cercato asilo politico in qualsiasi Stato dell’URSS. La loro era una ricerca costante di un futuro diverso, un viaggio attraverso la musica e l’ideologia. Un viaggio che li avrebbe condotti oltre i confini e nella profondità della loro visione del mondo.

A 19 anni anch’io, quando vivevo a Bologna, pedalavo in bici ascoltando nell’Ipod e cantando a squarciagola Annarella, Io Sto Bene e buona parte di Affinità E Divergenze Tra Il Compagno Togliatti E Noi Del Conseguimento Della Maggiore Età. Quel disco aveva accomunato la rabbia e l’insoddisfazione di almeno due generazioni, ma le emozioni che muoveva erano rimaste le stesse: gli amori non corrisposti, le paranoie in cui qualsiasi universitario si crogiolava in un tempo indefinito di una città divisa in due. Probabilmente già allora Ferretti ci odiava tutti e non lo sapevamo.
Eppure, a Bologna ci sentivamo a casa, perché negli anni Dieci del 2000 un po’ di punk era rimasto. Quindi, che fare? Tornare a vivere in montagna nella casa di famiglia, come aveva fatto Giovanni Lindo? Bisognava andarsene.
Vittoria conserva più ricordi di me, perché è più grande, sa che odore facevano i concerti sotto il ponte di Via Stalingrado, quel fetore aveva plasmato un’intera generazione.
Poi, non si era capito bene perché, molti di quei ragazzi guidavano macchine costose, aprivano case di produzione. Cosa era rimasto, della generazione di Spara Jurij?
Del resto, come ci raccontano spesso, era quasi tutto finito. Andavamo a lavorare al sole verso Roma, che aveva sempre la luce giusta, a dirla con Pasolini. Che poi, alla fine, la stragrande maggioranza di noi l’aveva studiato tra un concerto e l’altro e un’occupazione, magari di nascosto, quando all’improvviso era diventata una Facoltà, quella del Dams e non solo un posto dove scroccare una cartina.
In fondo, forse, ha ragione Vittoria: i CCCP non erano semplicemente una band; erano un’esperienza, un’attitudine, una Rivoluzione sonora che prescindeva le epoche e spaziava dal punk all’arte performativa alla musica melodica Emiliana.
Era il 1989, era caduto il muro di Berlino, loro erano tornati dal tour a Mosca e i più fortunati di noi, fra gli home movies, avevano trovato una bandiera rossa con una falce e un martello: il loro segno, un vessillo, forse, addirittura, un destino.
Si era disgregato tutto oppure qualcosa era rimasto?

La mostra “Felicitazioni! Fedeli Alla Linea 1984 – 2024” a Reggio Emilia è il tributo a questa avventura, un viaggio attraverso i labirinti sonori e politici dei CCCP. La scelta della città reggiana per ospitare questa mostra ovviamente non è casuale: la Città, con i suoi portici medievali, con le sedi storiche del PCI – come Palazzo Masdoni – raccontano una storia di socialismo reale felicemente riuscita. “Forse i CCCP non erano la band che Reggio voleva” dirà Ferretti durante il gran galà punkettone al teatro Valli con Daria Bignardi, “ma era la band che Reggio meritava.” Come la Rivoluzione d’ottobre, che non doveva scoppiare in Russia, secondo Marx, ma in Inghilterra.
È un ottobre diverso, più meccanico, ugualmente grigio, ma questa volta io sono un’altra persona, a Reggio Emilia ci arrivo così, tra lo stupore e il basito, perché non credevo che si potesse portare quei quattro debosciati in un chiostro che non fosse “ortodosso”. E non a torto. Già dagli spazi esterni, allestiti per l’inaugurazione, troviamo la scritta “Felicitazioni!” con davanti le sagome metalliche dei tre Vopos di Berlino. La mostra si sviluppa su tre piani e al piano terra troviamo sette sale affrescate. Sette, come gli album usciti. In ogni sala, sono allestite atmosfere completamente diverse l’una dall’altra, che riprendono la storia del gruppo. Gli stessi CCCP hanno avuto un ruolo fondamentale nella curatela della mostra, in particolare Annarella, che ha conservato i vestiti di scena e i poster originali, insieme a Stefania Vasques, a cui va il merito dei grandiosi allestimenti.


Pensavamo di poterci dimenticare del muro di Berlino e della fine del comunismo. E invece quei maledetti, per il loro 40° anniversario, hanno messo su una mostra di video, foto, rarità e immagini, per far sputare sangue e bile a chi lo desidera. Forse oramai siamo diventati vecchi, preferiamo stare nei musei a guardare i cimeli. È meglio oggi visitare una mostra che occupare un posto per costruirci un sogno. Felicitazioni è così: un enorme cassetto che profuma di Marsiglia, Soviet e nostalgia.
Ma la mostra è anche più di un tributo. È un viaggio attraverso le nostre vite, intrecciate a quelle dei membri dei CCCP. Inizia con una sala dedicata a Ortodossia, l’album fondamentale che ha segnato l’inizio della loro avventura situazionista. Un abito nero traforato pende al centro della stanza, un simbolo di come uno scarto possa ergersi ad esempio d’eleganza. Sotto una teca, i memoralia della Ddr, ci addentriamo nella storia politica che ha ispirato il gruppo. C’è il tavolo ovale di Togliatti e l’immancabile busto di Lenin, il megafono e la macchina da scrivere, il glam di Amanda Lear e lo spot di un finto telegiornale per promuovere l’uscita di Preghiere E Danze Del II Millennio (Virgin).


Il mito prende forma con Luca Prandini, un artista che ha creato “Soviet 110%”, un’opera che cattura a mo’ di parodia l’espressione più “eroica” dei CCCP. “Zamboni, Annarella, Giovanni, Fatur: quattro eroi del popolo,” spiega Prandini, “le figure essenziali che hanno plasmato il suono e l’anima della band. Annarella per i costumi e la femminilità, Giovanni per la voce e i testi, Fatur per il corpo e la materia”. Un omaggio al Proletkult, all’arte creata dai proletari per i proletari, libera da influenze borghesi.

Varcando la soglia delle sale espositive, l’atmosfera si intensifica. Le pareti raccontano storie, le immagini fissano momenti indelebili, e gli strumenti musicali sembrano vibrare ancora delle note ribelli dei CCCP. Luigi Ghirri, il maestro del “nuovo paesaggio italiano” che li ha immortalati in maniera impeccabile; chissà se oggi Yuri Ancarani, suo discepolo, avrebbe il coraggio di filmarli così, a brandelli ricuciti.

Salendo al primo piano, dopo una scalinata rossa fiammante, mi sono ritrovata in un labirinto di spazi che si dilatano, immersa in proiezioni e titoli di giornali dell’epoca. I CCCP erano sulla bocca di tutti, addirittura c’era chi per vederli faceva a pugni e spintoni.  

Nella 17ma stanza, incontro “Onde” (2023) di Roberto Pugliese. Un corridoio avvolto dall’installazione sonora, composta da 3mila metri di cavo audio e oltre 120 altoparlanti sospesi. L’atmosfera è immersiva, un viaggio sonoro attraverso la registrazione di un singolo, Amandoti, che è stato fatto proprio dagli artisti più disparati, da Gianna Nannini alla meno indimenticabile versione dei Maneskin. La musica distorta e distopica invade lo spazio, il tetro valzer che riporta alla mente Le notti bianche di Dostoevskij trasforma il corridoio in un ambiente sonoro dinamico. Quando mi sono avvicinata alla teca contenente il nastro, la musica è stata restituita alla sua natura reale, consentendomi di ascoltarla nella sua forma originale.

Al secondo piano, è come entrare in una casa occupata, gli eleganti spazi del Chiostro San Pietro lasciano spazio alla polvere e ai ricordi. Sentirsi a disagio è possibile, se non voluto. Ecco che li ritroviamo, Massimo, Giovanni, Danilo e Annarella, ripresi al rallenty dalle telecamere di Kissing Gorbaciov, documentario di Andrea Paco Mariani e Luigi D’Alife di prossima uscita, che ha avuto il merito di “riaccendere la cellula dormiente”, per usare ancora una volta le parole di Ferretti, che sorride in gigantografia tra gli strumenti isolati da una cortina di filo spinato.

Ricucire i ponti con il passato, superare l’odio, è possibile? Essere punk e di destra, ultracattolici?
Il Teatro Valli, un maestoso edificio che emana un’aura di antica grandezza, è stato scelto come il palcoscenico perfetto per questo evento straordinario che, già dalle premesse, ha dell’irripetibile. L’evento è sold out da tre mesi, tra gli avventori ci si guarda sbigottiti, come chi sa di assistere a un momento storico.
Gli spettatori, vestiti con un mix di eleganza e sciatteria punk, reclamano i CCCP. Sono le 20:30 e si fanno attendere, come tutte le rockstar. Gli abiti neri per le signore, gli smoking per i signori, si sposano con stivali consumati e giacche in pelle con borchie e spille da balia. Il nome del gruppo, pronunciato con un’intonazione carica di solennità, echeggia tra le colonne, mentre la folla esplode in un boato d’ovazione quando Annarella e Ferretti attraversano la sala.
Non si poga più, o forse lo si può fare anche con una camicia bianca alla coreana, perché alla fine le Dr. Martens sono rimaste. La chiacchierata tra la conduttrice e il gruppo prosegue in pompa magna. Ferretti sembra provenire da un mondo lontanissimo, con i suoi baffi a manubrio, vestito come un dandy. Fatur è sovrappeso, ma rammenta “la vodka buona che più non c’è”, che veniva distribuita tra le classi popolari. Zamboni non è mai cambiato, appare stoico nella sua coerenza, e forse tra tutti è quello che ancora ci crede meno. Annarella si limita a qualche commento caustico, in quanto madrina della manifestazione, ogni tanto quando sorride nell’inquadratura le rughe degli anni si fanno vedere. Si sceglie di seguire il flusso dei ricordi, senza troppe analisi, seguendo l’emotività e l’amicizia.
Il pubblico ascolta in religioso silenzio ma freme, ansioso di immergersi nell’esperienza musicale imminente. Poi, un’onda sonora. “Emilia Paranoica”, il primo brano, prende forma sul riff di Zamboni. Ferretti è immobile e ferreo sotto un cono di luce. Fatur si agita stretto nella morsa di una gogna di metallo. La melodia è incalzante, le batterie e i violini fanno il resto. Una combinazione di suoni elettronici e strumenti tradizionali crea un’atmosfera avvolgente. Sono proprio loro, i CCCP, l’ultima avanguardia del Novecento.
La folla è rapita, gli sguardi fissi sul palco mentre Zamboni esegue il valzer di “Oh Battagliero!”, mentre Ferretti e Annarella si abbandonano in una danza, con una precisione quasi militare. Segue una rivisitata “Radio Kabul”.
Il concerto continua, con “Libera Me Domine”, un brano che sembra evocare le stesse pareti del luogo che lo ospita. Poi arriva il momento più intenso, la performance di “Morire”, il lascito di Ferretti alle nuove generazioni: “Non so dei vostri buoni propositi, perché non mi riguardano. Esiste una sconfitta pari al venire corroso, che non ho scelto io ma è dell’epoca in cui vivo.” La sala sembra vibrare di energia, e il pubblico è in uno stato di trance.
Il culmine del concerto è raggiunto proprio con “Amandoti”, un’interpretazione audace e rivisitata del classico del gruppo. Le note del violino si fondono con la voce cavernosa di Ferretti, che per l’emozione sbaglia l’intonazione iniziale e apre le braccia, subito soccorso dal suo amico Zamboni, che lo abbraccia e lo esorta a continuare. La sala è in tumulto, un’esplosione di applausi e grida di entusiasmo riempiono l’aria, mentre i CCCP salutano e abbandonano il palco. “Non faremo un tour”, si affretta a dire Ferretti. “Siamo qui per il vostro e nostro piacere.”

Il concerto dei CCCP è più di una semplice esibizione musicale. È un’esperienza catartica, un omaggio a chi ci ha creduto, le ha date e le ha prese, che lascia il pubblico estasiato e desideroso di qualcosa di più.

Mentre la folla si disperde, il nome del gruppo continua a vibrare nell’aria, diventando parte integrante della memoria collettiva di questa notte indimenticabile. C’è chi alza un corno e chi un calice. In fondo, è la stessa cosa.
E forse domani mi rimetterò ancora a camminare nella nebbia con l’ipod, a cantare I Feel Fine in cinese.

Foto di Guido Harari

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