Esiste un «verso» che riproduca un «canto» ancora capace di sollevare gli umili, per rinfrancare il tumulto giovanile degli animi ribelli? Ed esiste una voce, nella poesia contemporanea, che traduca ritmicamente il «tempo del pistone»? Chiara De Cillis – poeta e scrittrice fondatrice di «Neutopia» – prova a dare una risposta a questi interrogativi nella sua ultima opera in versi, Moloch, edita da Eretica Edizioni. Ventitré componimenti che fungono da «spartito» per un’esecuzione altra – performativa e musicale – che ha nel teatro il suo habitat naturale.
Fin dall’inizio del libro, nei versi di Chiara riecheggiano potenti le poetiche di Amelia Rosselli, Patrizia Vicinelli, Emilio Villa – che l’autrice di Ostuni tritura, scompone, ridispone a suo piacimento, fa propri in ogni accento, in ogni pausa, in ogni accenno di calligramma. Come un urlo alla trecentociquantatreesima sigaretta, il verso della belva alla finestra (poesia n. 7, p. 17), il cui discorso si fa molesto, percorre a ritroso il tempo necessario allo sfaldarsi d’una relazione tossica, che lascia spazio al vuoto. Il corpo della poeta è un esoscheletro, gli organi sono assenti, le ossa sono libere di danzare.
Sgranato è il rosario dei dolori
non resta che una lenta litania
è corpo morto il suo che giace
nella bara dei passati amplessi.
Imparare a sillabare le parole
dire fro-cio, a-mo-re, fi-noc-chio
distillare un dio superbo e dire
sì, imparare a provocare il male
(Poesia n. 5, p. 20)
Il respiro viene a mancare, producendo una dispnea (poesia n. 7, p. 24) nei chiari riferimenti politici alla storia dei grandi movimenti italiani – quelli del ’68 e del ’77 – che rimangono però una chimera non vissuta, una citazione da rotocalchi, una nostalgia per un’affinità di spirito mancata. Ci scopriamo appartenenti a questo tempo, nostro malgrado, nel quale la poesia è diventata specchio dell’Io e il Poeta un fantasma, che sotto mentite spoglie suggerisce un segreto: sul ramo più alto/fiore rosa d’aprile/sinusoide oscillando/si spezza l’ultimo flauto, scrive la De Cillis, parafrasando Majakovskij, quasi a voler sottolineare l’impossibilità, oggi, di scrivere in nome di un ideale.
Se l’ideale è ormai disintegrato, la donna, invece, non si spezza: l’erotismo che scaturisce dai versi non è più solo accarezzato; la ragazza è cresciuta, il desiderio consapevole e grida il suo primato nel rito dionisiaco, spezzando la continuità del rapporto materno per diventare un essere a sé.
[Non si scelgono i figli e neppure i parenti
(dicesti, un mattino d’estate). Io diversa da te
non potevo che prenderne parte. Sappi solo
che i giorni trascorsi non tornano intatti, rinati:
non ci rassomigliamo nei gesti. Sono altro da te
– non migliore, diversa soltanto – nuov’ortaggio]
(Poesia n. 10, p. 30)
Dal punto di vista metrico, assistiamo poi a un’evoluzione dall’endecasillabo classico al verso lungo, che va a capo seguendo la lezione di Ginsberg sul respiro, ripassando dalla quartina fino ad approdare allo sperimentalismo di Svendita totale (poesia n. 14, p. 35) – sorta di hit che ormai viene «cantata» al pari di certe famose canzoni degli artisti indie nostrani – e al bilinguismo della poesia n. 17, traduzione inglese di Martina Cappai Bonanni, il cui confine immaginario delle rispettive case sta «tra il Messico e la Cambogia.»
Così, dopo lo sfiorire della primavera araba, dopo il fragore delle bombe su Gaza, quello che rimane è un campo lungo cinematografico, nella consapevolezza che «la vita non è un film», ma va abbracciata nelle sue contraddizioni più profonde, oltre lo spettacolo, per renderla propria e degna. L’invito è quello di attraversare il fiume, di andare controcorrente, e trovare il proprio essere, «nel gioco osceno della gioventù.»
Bentornata, poesia d’azione.