Strani soli | Un tuffo dove l’apocalisse è più flou

La vita a volte è così interessante che ci dimentichiamo di avere paura.

– Don De Lillo, Il silenzio

Se il mondo stesse realmente per finire, tra i libri imprescindibili che porterei nella mia capsula iperbarica, probabilmente non ci sarebbe Strani soli di Francesco Cane Barca, giacché l’ho acquistato in e-book e dopo la prossima tempesta magnetica e la grande disconnessione di massa, il mio Kindle sarà inutilizzabile.
Però ne consiglio senz’altro la lettura nell’ottima edizione di Zona42, perché Francesco Cane Barca è uno dei pochi scrittori contemporanei ad avere quello che si chiama “senso di realtà”: il che potrebbe sembrare un ossimoro in una raccolta di racconti di speculative fiction, ma che invece, in questo caso, calza perfettamente. La narrazione del Cane è infatti – volutamente – frammentaria, sfocata, scomposta, e ciò lo avvicina ad una scrittura di realtà in stile prosodia beat, il che è già di per sé abbastanza inusuale per una raccolta di racconti di genere fantascientifico. Ma ciò che più colpisce, in Strani soli, tra madri robot, gatte Bloom che cambiano forma, mutazioni e altre noie di cui abbiamo ospitato i natali su «Neutopia», non è soltanto lo stile, bensì il contenuto. L’amara consapevolezza dell’autore di trovarsi in un tempo, per sua stessa ammissione, misero, in cui le narrazioni cyberpunk e cyberfuture appaiono lontane, le ruote delle automobili sono ancora attaccate a terra e Marte non è ancora colonizzata.

I personaggi dei racconti di Francesco Cane Barca non hanno arti meccanici, tubi, fili o scintille, non sono robot né cyborg e il confine tra i mondi che esperiscono è ben marcato: niente elfi, niente gnomi nei boschetti, niente viaggi nel tempo.

Il protagonista-tipo di Francesco Cane Barca è semplicemente un uomo, un povero diavolo che lotta per la propria sussistenza tra la mancanza di certezze, i cambiamenti climatici e le avversità che la vita gli pone dinnanzi, come l’abbandono dell’amata Catalina, spesso con risvolti auto-ironici, che rendono il libro estremamente fluido e godibile anche per chi è estraneo a questo tipo di narrazioni.
Se tra il vecchio mondo che muore e un nuovo mondo che avanza il futuro tarda ad arrivare, i mostri di Francesco Cane Barca sono tutti pressoché interiori: giorno dopo giorno, il senso di inadeguatezza cresce se messo a contatto con le nuove tecnologie; come in Zerodue, uno dei racconti – a mio avviso – più riusciti della raccolta, il cui protagonista scarica le sue frustrazioni sul sistema elettronico che gestisce la sua casa e genera altri mondi fantastici in stanze futuristiche.

Copertina del libro


Con gli spoiler ci fermiamo qui. Chi leggerà saprà. Restando grati a Francesco Cane Barca, per averci ricordato che oltre le distopie presenti che costellano il nostro quotidiano vivere, ci sono ancora mille strani soli da immaginare.


Francesco Cane Barca, Strani soli
Zona42, 2021
104 pagine, brossura con copertina a quattro ante
illustrazione di copertina di nicolò gugliuzza

Aria Nera | Luigi De Rosa

Stesa su un panno bianco come la lana Aria osserva il proprio destino stravaccato e immobile sul soffitto a pannelli.
L’occhio sinistro bendato, metà della faccia ricoperta di graffi e punti di sutura, le gambe completamente sfatte, spappolate, cicatrizzate, insaccate fra bende e gesso, la codeina che le svaga il corpo distendendone i confini: tutta la stanza d’ospedale parla di lei, e aspetta. Gli oggetti inanimati sussurrano. Le cerniere plumbee cigolano. Le luci galleggiano nelle ore stanche, cercandosi fra loro come vecchi solitari. Tutto aspetta una decisione psicofisica che lei non è in grado di prendere, un imminente Evento Storico: stare bene.

Ma Aria è fuori dalla Storia da quattro settimane. Forse da sempre.

Distante anni luce da qualsiasi modo normale di vivere, di intendere e volere, da qualsiasi discorso terrestre o pseudo-umano, vaga fra immagini pop e gotiche allo stesso tempo, esplosioni di colore liquido, neon, colori primari lampeggianti e oscure guglie di pietra immerse nella nebbia.
All’inizio credeva che sarebbe morta di dolore. Ci sono voluti giorni perché il velo rosato e ovattato dell’incidente le si togliesse di dosso, perché tornasse a sentire alle gambe qualcosa che non fosse puro male. Le automobili sono chiaramente mezzi infernali, tentativi infantili di essere più veloci della morte.
L’orologio crepa il silenzio mentre Ala Nera striscia sotto il lettino, a spostare polvere e ricordi. Enorme e ruvida, a volte sembra quasi di fumo, altre una membrana di plastica ricoperta di petrolio liquido caldo, che lascia segni sul pavimento biancastro.
Schifosa. Lurida. Appiccicosa. Un manto sottile che assorbe ogni colore sostenuto da un fascio di nervi impazziti, vibranti, fuori sincrono.
Eppure Aria ne è profondamente innamorata da giorni. Adora il suo strusciarsi sotto di lei. La sua umiltà quasi depravata. Ne ama l’odore acre da puttanella marcita. La densità da buco nero. Il marezzo impercettibile ricoperto di peli. Il suo essere parte di un corpo scomparso, pezzo solitario lasciato al suo destino assonnato.
È questione di traslazione: non potendo scegliere niente del suo corpo, non potendoci effettivamente fare nulla, si è scelta una nuova anima scavando nel cassetto di quelle possibili.
L’anima adesso è quel suo pezzo di coscienza che sballa e schizza nel tempo interiore come la sguattera scabrosa di una chiesa maledetta, che crolla di giorno in giorno sotto il fuoco di aeroplani mascherati e mani inguainate, dove l’aria polverosa non si muove e dove l’organo a volte suona da solo note insignificanti, frigide. Dove è possibile sfamarsi di silenzio e presente, ascoltando le termiti che mangiano le panche e il crocifisso piangente. Una scopa, una paletta, il freddo frusciare delle pantofole nel buio quasi sacro illuminato da fasci pallidi: si tratta di pulire il pulibile e andarne fieri; di restare saldamente attaccati alle macerie. Alla prospettiva infinita delle colonne. Alla caduta, alla decadenza. Aspettando solamente che tutto quanto svanisca.
Da dove è nato tutto ciò? Cosa spinge una ragazzina di diciassette anni verso territori così foschi? La patologia è innata, o appena nata? Di chi è la colpa? Capriccio, o necessità? Aria non lo sa, ma a volte è terrorizzata da sé stessa.
Getta una lacrima sul cuscino, e torna a parlare con Sigfrid perché non riesce più ad ascoltare il fruscio di Ala Nera. È un amore da prendere a piccole dosi. Pesante fardello generazionale. Ogni colpo è come una dichiarazione lunare e contemporanea, così tanto chiara e definita e senza passato o futuro da far venire i brividi.
Con l’anima Aria spazza via i residui che la legavano al mondo.
Ffffffffffffffffffffsssssssssssssssssssfssshhhhhhhhhhhhhhhhhh.
Sigfrid è l’altra faccia della medaglia: un topo di neon rosa che le sta sempre vicino alla testa, a rosicchiare e squittire parole acide, quasi lisergiche. Lunatico e cocainomane, odora di balsamo ed emette un leggero calore frizzante.

È la parte divertente della faccenda, la futilità più totale e senza pretese.

Ora le sta suggerendo di dormire, per eliminare l’audio (per Sigfrid è normale esprimersi in termini spettacolari o televisivi). Aria ci prova, ma tutto sbalza e ruota dietro le palpebre, e la troppa assenza le mette paura. Per quanto strafatta, può ancora provare panico.
Sigfrid le entra in bocca e va a dare una sistemata al cuore, accarezzandolo finché non si calma. Esce tutto pieno di saliva e sangue, poi svanisce dicendo: “Visto? Ora devo farmi una doccia”.
La ragazzina resta sola nel niente. Ala Nera prova ad uscire allo scoperto, vibrando nauseabonda, sfiorando i bordi del letto con un pat pat fumettistico. Il tessuto viscido tocca una guancia di Aria, che si gira dall’altro lato inorridita. La ama ma non sopporta che la tocchi. È un amore sofferto, una decisione segreta.
La cosa peggiore sarebbe essere scoperta. Nessuno deve sapere che quella cosa nera coincide esattamente con lei.
Ma attorno non c’è nessuno, in questo ospedale così triste e cinematografico, perciò Aria per questa volta decide di lasciarsi andare. Ala Nera le tocca le gambe, infilandosi sotto le medicazioni, sopra gli squarci e il gonfiore.
È calda e gelida allo stesso tempo. Spazza via il dolore con cura.
Aria ride mugolando commossa ma il mondo rimane serio.
Poi Ala Nera sale, sfiorandole i fianchi e la pancia, il petto che si sta gonfiando, il collo rigido, sudato: è una commistione di liquidi umani e inumani. Una fusione di intenti.
Di colpo entra qualcuno. Ala Nera  scatta ferina e sparisce sotto il letto. Aria non ha mai provato tanto fastidio in vita sua. È peggio di qualsiasi risveglio da un sogno meraviglioso.
Il medico le chiede come va oggi. Le sorride. Aria alza le spalle. Non ha più niente da condividere con gli esseri umani. Tutto ad un tratto l’uomo, a cui era così grata, le pare una specie di pezzo di carne che si muove senza alcun coordinamento. Un gonfiore organico ripieno di… di… di speranze.
Cazzo non c’è niente che le dia più fastidio delle fottute speranze. Di quel supponente positivismo da quattro soldi che sembra dire “io conosco, io guarisco, io controllo”.  Di quell’aspettarsi che le cose vadano meglio, che l’unico futuro che possa esserci includa il miglioramento, la struttura, la crescita.
Crescita verso cosa?
Chiude gli occhi in preda ad una specie di orrore cosmico, e chiede all’uomo di andare via.
Lui prima di uscire dice che i genitori di Aria verranno a trovarla fra poco. La ragazzina trattiene a stento un conato.
Sola, osserva Sigfrid che le compare in mezzo alla fronte, fra gli occhi. Nel rosa riesce a vedere galassie e mandala, tunnel metafisici fatti di nulla.
Sono le sole strutture che ormai riesce ad accettare. Il topo dice che Aria è sulla buona strada, che finalmente il suo rapporto con Ala Nera sta migliorando. Dice che presto si potrà agire: potranno avere la loro vendetta, dopo anni. Mostrare al mondo la sua vera faccia, i suoi veri limiti. Prendere ogni cosa che esiste e rivoltarla come un calzino, azzannando alle caviglie qualsiasi maledetto significato. “C’era bisogno di arrivare quasi alla morte?”, chiede Sigfrid. In fondo conoscevi già tutto. In fondo sapevi cosa non andava della tua vita, della vita di tutti. In fondo volevi già vomitare.
La telepatia consente alla ragazzina e al topo di parlare in contemporanea a volte. “Non esiste altro per la tua generazione…” stanno dicendo. “Non esiste altro per la tua generazione se non chiese sconsacrate senza più il tetto e animali di pixel, lande fredde e televisioni giganti, alberi scheletrici, organi morti, esploratrici bambine con zaini gialli, conigli verdi, mosaici e finestre distrutte, frutta allineata che precipita e sparisce, sguattere in ciabatte che provano a pulire aspettando il delirio finale.

IL DELIRIO FINALE

Aria scaccia via il topo terrorizzata, assalita da vecchi sentimenti. Non ha mai il coraggio di proseguire quel discorso, così come non ha il coraggio di lasciarsi prendere fino in fondo da Ala Nera. Non ancora. C’è ancora qualcosa di affascinante nella tenerezza, nella famiglia, nel futuro che comunque c’è, e forse ci sarà davvero.
Solo che…
Entra un’infermiera giallastra a controllarle la flebo. Ciabattando nel silenzio, non guarda Aria negli occhi, ma Aria glieli guarda con attenzione. Osserva con il suo unico occhio la bocca nascosta dalla coperta bianca, la frangetta che si fa sempre più lunga e lucida.
Qualcosa in quella donna le fa ripensare all’incidente.
Non si esce dalla televisione, nemmeno in punto di morte: la classica brusca frenata, il classico rumore di metallo e di vetro, le classiche grida strozzate. Tutto è solo visuale, astratto, come di qualcun altro. Lo shock prevale sul momento topico, la reazione all’azione: non è poi tutto così? Lei, l’infermiera, il medico, i genitori: tutte entità puntuali che, sotto sotto, amano la stasi, la capitolazione, la fase morta, il punto di arrivo, tutto ciò che non accade fra un momento e l’altro, perché i momenti sono solo patatine.
L’infermiera esce, e subito dopo Ala Nera torna a toccare Aria: questa volta con più insistenza. Ha un fare giocoso, da sgualdrina.
Da qualche parte Sigfrid squittisce allegro. Farfalle rosa volano per la stanza, poggiandosi sopra a gargouille tetri, antichi.
“Aspetta un momento.”, dice la ragazzina ad Ala. “Aspetta.”
Entrano i suoi genitori. Le farfalle e i gargouille svaniscono di colpo, così come Ala Nera.
Soliti riti, solito affetto sgualcito e ritrito. Chissà se percepiscono la distanza della figlia. Chissà se ne comprendono almeno qualche motivazione.
Anni e anni passati sotto le acque del vuoto contemporaneo, sotto la finzione densa e cristallina di un mondo dove ormai può essere vera qualsiasi cosa e dunque non è vero niente. Dove esiste ogni modo per provare piacere e stare bene ma dove non sta bene nessuno. Dove tutte le persone sembrano cartonati in balia del vento. Dove enormi catene di montaggio montano sogni e deliri, usando materia e antimateria, bulloni e sentimenti. Dove l’eco-ansia diventa il nuovo modo di pensare al futuro. Dove le bambine ballano con Dracula senza nessun avvocato che le difenda. Dove anche la sua sete di sangue viene messa in discussione. Dove gli angeli sono volati via. Dove c’è una quantità di roba davvero schifosa.
Aria può avere tutto, andare ovunque, essere qualunque cosa, seguire i suoi sogni oppure distruggerli. È sempre stato così, sarà sempre così.

Non ci sono limiti al suo libero arbitrio: può  sostanzialmente essere ubiqua, divina, totale.
Solo che…

I suoi genitori vanno via: devono tornare a lavorare. Aria ne osserva le sembianze prima che vadano, sperando un’ultima volta in qualche cenno, in qualche cosa di reale, finalmente fuori dalla televisione.
Niente.
Fuori nevica. Il piccolo albero di natale lampeggia nella stanza. E chi poteva esserci sul pennacchio se non Sigfrid, con tanto di tuba e bastone da vaudeville?
È il momento di ballare. Il momento del delirio finale.
Senza più paura Aria lascia che Ala Nera la avvolga. Diventano una sola cosa appiccicosa e definita, un informe angelico infernale assalito dai tremori e dalla rabbia. Può camminare: ora sta bene.
Si toglie la benda mostrando l’occhio sinistro tumefatto, stralunato, frantumato.
Disperata, divertita, circondata da animali danzanti e musica 2bit, la ragazzina si alza dal lettino ed esce dalla stanza d’ospedale.
Nei corridoi prende fuoco ogni cosa. I vetri esplodono, i muri si spaccano. Ogni essere umano presente grida e si dispera, strappandosi gli occhi e mordendosi la lingua.
Il sangue scorre a fiumi e i neon lampeggiano mentre Aria Nera cammina senza fretta, lo sguardo terrorizzato ed estatico.
Non vuole lasciare niente. Vuole che ogni cosa si mostri finalmente per quello che è: distrutta, malconcia, decaduta, inutile.
E le rovine prendono forma, la polvere avvolge lettini e macchinari esplosi, i tetti si aprono verso il cielo arrossato dal tramonto inquinato e tossico, gli inservienti e i medici si riducono a larve abuliche, mentre una specie di cavaliere alato con orecchini rosa e anelli di diamante esce fuori dall’ospedale senza idee su dove andare, il destino ancora immobile e accidioso: una piccola inutile Apocalisse trasmessa in diretta, una sottile metafora inventata di sana pianta da una bambina in preda al delirio da farmaci.
Aria ride, e il mondo ride con lei.

Illustrazione di Spunky zoe

La morra cinese

Mi ritrovai, solo, nella notte, a guardare l’universo.
Era una città distrutta, dove i cani girovagavano in cerca di cadaveri e i gatti miagolavano drammaticamente. Mozziconi di colonne mostravano la nudità degli interni, sventrati, e la luna minacciosa la si scorgeva dai tetti sfondati, un colpo di grazia alla tempia della vittima.
Un’erba verde con fiori viola a pennacchio spuntava vigorosa dalle macerie. Rumori, quasi di pendolo, rompevano l’assenza, ma erano calcinacci che franavano in basso trovando, finalmente, pace. Ombre grigiastre si allungavano sugli spazi deserti, tentate carezze.
Attònito pensai, per un tempo indefinito, d’aver attraversato una porta temporale, d’essere caduto in un imbuto d’assoluta stoltezza. Mi toccai il petto, sentii il cuore, scorsi le dita nelle mie mani aperte, udii il silenzio dell’Urlo di Munch.

Mi toccai il petto, sentii il cuore, scorsi le dita nelle mie mani aperte, udii il silenzio dell’Urlo di Munch.

Di certo no, non registravo il mondo altrove, ma qui. Di certo sì, era un’escrescenza metafisica, un concentrato di fratture e solitudini dove la paura dipingeva le sue tele.
Solitamente percepivo al mio fianco presenze angeliche. Assorte, compassionevoli, a volte ironiche: testimoni, appunto, del mio viaggio. Però non ora. Come scomparsi nel polverone biancastro che la luce della luna a fatica attraversava, i due compagni non c’erano più. In cambio mi pareva d’essere più greve, d’aver assunto, con un dolore profondo, da infarto, la loro natura.
Angelo, io! Ma via! Per quale ragione attraversavo, attraversato, quest’apocalisse minore, senza strappi rutilanti o urla laceranti?

Angelo, io! Ma via! Per quale ragione attraversavo, attraversato, quest’apocalisse minore, senza strappi rutilanti o urla laceranti?

Avanti a me non s’intravedeva un orizzonte ma la ripetizione seriale, quasi un gioco di specchi all’infinito.
Pensavo: “L’universo è un enorme disastro, un’allucinata corsa verso la caduta”. E tutto pareva contrastasse la testarda ricerca di un senso positivo che scienziati, uomini di religione, statisti, educatori, come petulanti formiche portavano avanti.
“Conosco brandelli di questa realtà”, mi dicevo. “Riaffiorano alla mia mente come squarci di visione e il chiocciolìo è colonna sonora, un lamento prolungato, monòdico…”.
Pur restando fermo m’accorgevo che i mucchi di macerie, i crateri, mi sfilavano a lato, assenti come tabelloni pubblicitari, macchie che si trastullavano lungo un percorso che non pare avere fine.

Balzano i gatti da un monticciolo di mattoni a un groviglio di travi in ferro e di essi scorgo soltanto gli occhi, universali, occhi di vittime sparse sul pianeta. Nessuno grida. La donna, dal volto stupito, giace con le braccia spalancate, una ferita che le deturpa il cranio, i capelli incollati dal sangue, raggrumato. Un bambino, rannicchiato, un cencio senza movimento. L’annusa un cane, ma non osa mordere. Gira attorno al corpo, agitando la coda. Pare che il bimbo sia, in qualche modo, protetto.
Percepisco flussi di emozioni. Quasi le scorgo. Lenzuola fluorescenti traversano, oblique, la strada e un lieve vento secco agita per un poco i fogli d’un calendario, rimasto appeso alla parete sopravvissuta al crollo. E, come in un film muto, continuo a scorgere la città che mi viene incontro. Qua un’automobile arrugginita, senza vetri e con le gomme a terra; là una bicicletta, indenne, con un ultimo movimento della ruota posteriore.
Retta è la via, perpendicolare l’orizzonte e la luna è un foro giallastro, un bottone da Pierrot. Paralleli alla strada centrale, che pare il negativo d’una foto in bianco e nero, giacciono binari di tram che non si vedono, come giocattoli smessi, espulsi dagli affetti.
Solo mi sento, gravato d’una consapevolezza lucida, che non riesce a sfocare le immagini né a creare inganni, sollievo, a volte, sull’enorme grumo di dolore, dal quale emana un odore dolciastro, forte, da prenderti alla gola.
Non sono a Berlino, non sono a Baghdad. Il cielo è una coperta militare. Assorbo i lamenti della Città Distrutta. Lamenti che si ramificano, come penitenti di Dante, e spargono i noduti prolungamenti fuori dai tombini.
Grazia chiedono, cancellazione dei torti. Per gli innocenti, la chiedono, che sono tanti, in una città.

Grazia chiedono, cancellazione dei torti. Per gli innocenti, la chiedono, che sono tanti, in una città.

E i viali, le case, le piazze, nulla hanno da rimproverarsi. Perché, allora?
Il mio essere soma di angeli non mi dà sollievo.
Paiono, i testimoni, lavarsene le mani, oppure mettermi alla prova, quasi a dire: “Senti sulla tua pelle la sofferenza impotente, quella che nasce da uno sguardo limpido a cui è impedito di intervenire. Vedi ciò che è, ciò che sarà. Assisti, inabile nell’azione, allo scontro tra la bomba che cade e la casa che dorme. Disìntegrati anche tu nelle schegge di vita, e storia, e affetti, che si disperdono all’intorno. Sii umano in modo angelico ed angelo in tensione umana”.
Le certezze, le griglie di riferimento, i valori che danno tinta alle azioni, tutto si confonde nel polverone di calce che s’alza dal repentino crollare d’una casa.
Giallastra, credo, è la luce del lampione al centro della piazza. Sembra un lume da tomba, una crosta che copre l’orbita ferita. Eppure lì s’annida una scintilla di vita, residua, stentata, nonostante l’evidenza della distruzione. Il lampione non ha consapevolezza. Come un buon artigiano del tempo antico fa il suo mestiere e non si cura del resto. Di certo gli immobili dovrebbero rimanere in piedi, i tram correre sulle rotaie, gli uomini camminare sui marciapiedi e le stelle brillare nei cieli. Se così non è, perché il lampione, coscienza estetica e rassicurante della piazza, dovrebbe abbandonare il suo posto e il suo compito? Non penetra nel globo di vetro il dubbio disastroso. Solo gechi bianchi si aggirano a ridosso della luce.
Un faro, in questo ambiente senza prospettive?
Mi pare e non mi pare. Le ondate di ruderi bloccati non ricordano il mare procelloso. Hanno qualcosa di ambiguo, quasi sogni d’oltre Orco, dove le voci cessano e gli abbracci si avvinghiano al nulla. Vecchie figure, archetipi di cadute, al tocco offrono il morbido della saturnità, ginocchia tonde di Cronos, frasi che si sciolgono nel mormorìo.
E tutto diviene cantilena, nenia di lutto, senza pira, senza eroe.

Nuvole d’incendi lontani, lamentatrici aspre, striano un cielo basso, poco sopra i palazzi pubblici. I mascheroni apposti sui frontoni paiono spiazzati. Il loro sorriso fisso è più che mai vuoto. Si percepisce che dietro è crollata l’istituzione, con i rituali e le divise che le fanno corollario. La parola che fino ad allora era stata posta al di sopra d’ogni giudizio rotola per gli scalini e fatica a confrontarsi con le consorelle dei discorsi comuni.
Come appare inutile la Biblioteca, che raccoglieva memorie, tomi su tomi per la gloria dei roditori! Impudiche le pagine strappate, al pari delle ossa sconnesse nei cimiteri violati. La forma delle parole e delle frasi che si illuminavano alla lettura, quasi lucciole in amore, sono segni d’un senso estraneo, di scarabei stercorari, forse. Che vogliono dire “amore” e, dopo, “casa”, oppure, nel cuore del libro bruciacchiato, “amicizia”? Farfalle notturne, i fogli svolano e mi sfiorano le guance. M’ingrigia i capelli la cenere che il volo semina.
Oltre le parole scritte, dove i corpi non ci sono più, che altro può attenderci?
Insegne appese al vuoto: Macelleria Equina.
E dopo?
L’ippocastano, eretto, verde e fronzuto, occupa il lato destro della strada. Le sue radici hanno continuato a camminare, hanno divelto, in parte, le lastre del marciapiede. Frutti e semi giacciono all’intorno. L’ippocastano è onesto. La sua coscienza vegetale è in pace con se stessa. Ha provveduto alla continuità della specie, come le erbe col pennacchio viola che già incontrasti orgogliose sulle macerie.
Continua a scorrermi sotto e attraverso il paesaggio.
Ora è una scarpa, da donna, nera, col tacco alto appuntito. La sua compagna è scomparsa, come quella di Cenerentola.
Ora un cappello, nastrato, da uomo, con la piega al centro ben marcata. L’ondata d’urto lo ha fatto rotolare lontano dalla testa ch’esso copriva. Dove sarà la testa? E il corpo? A calcinare, in una fraterna e democratica desolazione, con tutte le frammentate realtà mute che compongono lo scompiglio.

Di fronte a me un arco in pietra. Fu elevato per esaltare le gesta militari. Loro morirono, noi vincemmo. Si è rotta la lapide in marmo, sovrastante, con la scritta in latino che pare il gracchiare di un corvo.
Anche l’arco mi supera, celluloide colorata, e m’avvia a una piazza, dove il Presidente parlava di patria, i sindacalisti di diritti dei lavoratori, i politici di programmi economici. Ci deve essere anche una giostra, sull’estrema sinistra. V’è rimasta una carrozza da fiaba, vuota come una tazza vuota. Si individuano fiori dipinti in rossa cornice, una rosa al centro, con il suo gambo spinoso, cicatrice. Non un suono, nemmeno un cigolìo. La piazza pare l’occhio guercio di Polifemo.
Chi ti ridusse così?
Nessuno!
La nuova ermetica presenza: nessuno.
Ma un manifesto rimasto illeso su un frantumo di muro, ammonisce ancora: «Taci, il nemico ti ascolta!»
Dov’è il nemico, ora? Che volto ha, che lingua parla?
Nessuno!
E la poltrona del barbiere ruota lentamente e mostra il suo volto, riflesso dallo specchio.
Che succede, amico?
La corrida è terminata. Il matador s’è comportato con onore ma è stato incornato. Il toro era valiente ma lo trascinarono via per la coda. Pure le mosche sul sangue sono scomparse.
Nessuno.
Il gallo cantò, rauco, sotto un melo.
Forse altrove, in tempi diversi; quando il melo produceva frutti e ombra e il gallo razzolava pomposo come un generale alla parata.
Non qui, non ora.

La carrozza della giostra ha un lieve movimento come se qualcuno vi si nascondesse dietro. Una forma di capelli emerge, e poi un volto, pallido, di bambino.
Conosco quella creatura. Non so chi sia ma la conosco. Storia della mia storia, la sento.
Tenerezza, dubbio, curiosità formicolano nel ventre.
Il bimbo si scopre completamente da dietro i resti della giostra. Si avvicina, mi allunga la mano.
«Tu!» fa lui, con aria dolcemente stupita.
«Tu!» faccio io, riconoscendo nel bimbo il mio essere stato, un tempo, bambino. Egli è me, io sono lui, in un qualche inesplicabile modo.
Mi prende per mano, quasi foss’egli l’adulto, la guida nell’ignoto.
Lo seguo docilmente.
«Andiamo» dice, e s’incammina.

Illustrazione di Sara Andrini

La bianca risposta di “Alter” al post-umano

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Alter, Christian Sinicco (Vydia Editore, 2019)

Esiste un confine labile tra la poesia e la letteratura – questo ha a che vedere con la vita quotidiana. La vita, che non può essere spiegata, non è mai definitiva, benché meno materiale da romanzo; la letteratura è – in ultima analisi – finzione e, proprio per questo, a volte più vera della realtà.
Ci sono poeti che ancora oggi non si accontentano di dare un compendio, nella loro produzione, della propria esperienza, del proprio piccolo cantuccio, ma che anzi cercano delle risposte ai grandi interrogativi del nostro tempo, e di immaginare – o di costruire – cosa ci riserva il futuro.
È questo senz’altro il caso di Christian Sinicco, classe 1975, poeta triestino e direttore di «Poesia del nostro tempo», il quale con Alter (Vydia Editore, 2019) si interroga sulle due possibilità che la nostra epoca ci prospetta davanti: da una parte, onnipresente e, se vogliamo, ormai esaustiva, l’apocalisse di Città esplosa, che mostra con una grande ricchezza di riferimenti nelle forme cosa significhi scrivere versi nell’epoca del post-umano; se Gregory Corso scrisse la sua ode alla Bomba, nel sogno di Sinicco l’ordigno è già esploso, l’essere umano è scomparso – e non c’è più monito che tenga, soltanto un brusio di fondo, un ricordo sfocato di quello che fu il nostro mondo prima dell’esplosione.

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Da Alter, Città esplosa, p. 16

La bomba lanciata da Sinicco è però anche semantica: fa propri i calligrammi di Apollinaire e Mallarmé, riattualizza l’uso sperimentale della punteggiatura di Palazzeschi, frantuma la poiesi degenerativa e la porta all’eccesso, la rimodula, la riadatta alla sua «Babele distrutta dalle generazioni in corsa», in un continuo confronto tra passato e presente.
Nella seconda parte, che dà il titolo all’opera, fa la sua comparsa l’androide del futuro, l’Alter appunto, che non sembra conservare memoria di cosa sia venuto prima di lui, e forse proprio per questo, sente il bisogno di creare una nuova era che riparta dalla tabula rasa. Generato dall’uomo, né uomo né macchina, si presenta così:

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Da Alter, p. 34

Sembra qui di risentire un vecchio adagio attribuito a Socrate: «Non voglio nemmeno sapere che sono esistiti altri uomini prima di me.» Ci troviamo di fronte a quella che l’autore definisce anti-utopia: un’utopia, cioè, benché mai auspicabile o desiderabile. Nel nuovo numero di Neutopia, “L’animale chiamato uomo”, Luca Gringeri fa una differenziazione fondamentale fra l’utopia concreta, che quando si realizza diventa sempre distopica, e l’utopia riabilitata, che si orienta, cioè, al di là del presente, e che acquisisce valore solo e unicamente in quanto tensione ad un miglioramento.
Sinicco, in questo senso, va oltre: recupera una visione apocalittica e asfittica cara a certa fantascienza e la presenta come l’unico orizzonte possibile.

 

Sinicco 3

 

Da Alter, p. 43

 

Il «futuro» è qui rappresentato dal «midollo» dell’orchidea, dalla bellezza del paesaggio naturale non più contaminato dalla presenza degli umani. Eppure, di fronte a questo scenario inviolato e fertile, il linguaggio accorre in nostro aiuto per poterlo raccontare, il logos rientra da padrone nella Storia, e subito diventa canale privilegiato – quello della poesia – per raccogliere il seme dell’umanoide del futuro. Finché ci sarà poesia, e dunque linguaggio, l’ultimo baluardo dell’umanità sarà salvo.

Alter, Christian Sinicco
© Vydia Editore, 2019
58 pagine, brossura
In anteprima su «Neutopia Magazine» n. IV

Illustrazione di Lisa Gelli

 

Passaggio di stato

I

Gustave scende la passerella con le ginocchia rigide e la sinistra sul corrimano. Un passo, due passi. Indossa un camice blu, lo stesso che mi cade largo sulle spalle, ed è piccolo, Gustave visto dal parapetto: un uomo di trent’anni che sta in un pollice. Un passo, due, tre. Si ferma. Alle sue spalle c’è la nave ospedale, ci sono gli altri malati, i medici e le infermiere, ci sono io; davanti a lui c’è il porto, e oltre il porto le case, e un campanile alto e un po’ curvo, e un’alba di maggio.
Riabbasso lo sguardo, mi concentro su Gustave. È questo il mio modo di dirgli addio: lo spio da una certa distanza, al riparo.

È questo il mio modo di dirgli addio: lo spio da una certa distanza, al riparo.

Gustave stringe la ringhiera con entrambe le mani e solleva una gamba oltre la passerella. Fa lo stesso con la destra. Sotto di lui, il mare è di china.             
Aspetto il tuffo nell’abisso che se lo porterà via, ma Gustave resta immobile. Nell’aria c’è un silenzio che rispettano anche i gabbiani.          
Poi entrambe le gambe tornano al di qua della ringhiera e per un istante m’illudo che risalirà a bordo. Che si volterà e mi farà un cenno. Che pranzeremo insieme, e guardando il porto mi rivelerà com’è stare al confine, scrutarlo per un lungo momento e scegliere di restare.           
Ma non si volta. Un passo, due passi, un terzo e un quarto, Gustave scende la passerella fino alla banchina. Nutro ancora una speranza: proseguirà verso il paese, dove lo accoglieranno le saracinesche che si alzano, e ci sarà un cane che, mentre fiuta gli angoli e i pali, fiuterà anche lui, distrattamente. Un sole giovane gli farà stringere gli occhi, sentirà le ginocchia elastiche e allora sparirà tra le calli con nomi di pesci, e non lo vedrò più. Ma saprò ancora come immaginargli una vita. 
Gustave si sfila il camice, lo abbandona sulla banchina. Si gira nudo verso la nave, ma ormai non la vede più. Ha le braccia chiazzate di viola per le troppe punture, ha le spalle larghe ma è magro. Le costole sembrano branchie. 
Resta fermo un attimo ancora. Poi fa un passo e io chiudo gli occhi. Quando li riapro, è sparito. 
C’è un’increspatura, sul mare di china.         
È un’apocalisse dolce.

Tornato nella mia stanza, scruto i profili familiari delle cose: il tavolino con i fazzoletti e i libri; l’asta della flebo; le due bottiglie d’acqua che tengo accanto al letto. Ne apro una e bevo un lungo sorso.
Vorrei fare due passi, mi diceva fumando sul ponte di poppa. Lo diceva ogni volta in cui avvistavamo la costa. La cenere svaniva nella scia della nave e Gustave ripeteva:            
Solo due passi. 
Gradualmente, gli oggetti riaffiorano dalla penombra alla luce. Il mondo, con calma, si sveglia.
Parlava poco, ma aveva dei bei baffi anni Venti, che me lo faranno ricordare in bianco e nero. Baffi da uomo tranquillo, forte solo quando serve.     
Dopo colazione mi affaccio sul parapetto, ma il camice di Gustave non c’è più. L’hanno portato via.
Nessuno, qui, è obbligato a restare. Ma lo sanno tutti che, se ti ammali, dalla nave non scendi più.

Nessuno, qui, è obbligato a restare. Ma lo sanno tutti che, se ti ammali, dalla nave non scendi più.

II

All’inizio, l’apocalisse erano i video amatoriali trasmessi dai Tg della sera.            
Ne ricordo tre.           
Berlino: un uomo lascia cadere la valigetta, poi gli occhiali, si allenta la cravatta mentre continua a camminare. La gente che attraversa il ponte per il Bode Museum si volta, incredula, e sul lastricato già sono sparse le prove di un corpo nudo: camicia bianca, pantaloni blu taglia 50, giacca elegante convenzionale. L’uomo, minuscolo e pallido davanti alla cupola maestosa del museo, sale sulla balaustra e si butta nella Sprea.       
Auckland: l’immagine è mossa. Chi filma ride, testimone divertito di una prova di forza tra una ragazza e un labrador; oggetto del contendere: un frisbee. Più in là, un uomo in canotta corre sulla spiaggia, e il sole lo fa sembrare un’ombra cinese sul telo del mare. Ma c’è qualcun altro, ancora più in là. Chi filma ne sembra attratto, così l’immagine zooma sulla destra: un padre, un bambino e una madre si tengono per mano. Avanzano nell’acqua salata, le onde si arrampicano sulle gambe, poi sulle anche del padre, ne lambiscono il ventre. Quando la testa del bambino scompare sott’acqua, l’immagine si fa più stabile, poi prende a tremare. Chi filma non ride più. La ragazza ha lasciato il frisbee al labrador, che trotta via soddisfatto, e ora guarda dove guarda chi filma. L’immagine si avvicina, si fa confusa. Urla dalla spiaggia in direzione del mare. Scompare anche il padre, scompare la madre.    
Desenzano sul Garda: giornata di sole e di cigni. Di un pranzo aziendale in un ristorante stellato. La gente parla di segni più e di segni meno, qualcuno passa davanti alla telecamera e imbarazzato fa una smorfia e si scusa.  C’è una gara di vela, ma le barche non partecipano. Oscillano piano, toccate dal vento. Sono tante piccole vele fantasma. 

Sono tante piccole vele fantasma. 

III

Tra i pazienti non si parla d’altro. La Voce sfreccia per le stanze e i corridoi della nave, emerge sul ponte di prua, torna sottocoperta e poi esce di nuovo: babordo, tribordo; si propaga da Elio l’avvocato a Mara la nonna senza nipoti, entra nella partita a carte – Cirulla – di Davide Federico Carlo Edward, fa un giro su sé stessa e giunge a poppa, dove s’incarna in Guido, che in genere mi ignora ma che oggi ha vinto il suo disprezzo per me – o chissà, la sua timidezza – e mi sta parlando. Hanno scoperto una cura, dice la Voce incarnata in Guido, Il primario sta per sbarcare, e il primario non sbarca mai. In effetti, ecco il Dottor Scarpa che marcia accompagnato da Medico Zoppo e due infermiere; una è Maddalena, dell’altra non so il nome ma la chiamo: Guantanamo, perché a non saper fare le iniezioni, secondo me, ricava un certo gusto. 
Sfilano sulla passerella in fila indiana, primario infermiera medico infermiera, e per un attimo penso alla cenere che si perde nel ribollire di una scia. Oltre il porto c’è il paese, ci sono le case e il campanile curvo; c’è l’ora assolata di un pranzo di maggio. Oltre il paese c’è una strada provinciale che diventa autostrada. L’autostrada porta al Centro di Ricerca dell’Adriatico Settentrionale.    
Mi congedo con una scusa – Guido continuerà a disprezzarmi – e prendo a vagare senza meta. I corridoi e le stanze mi attraversano come ologrammi, non so dove sto andando ma sono sicuro di una cosa: non la trasmetterò a nessuno. La voce muore con me.      
Seduto nella caffetteria mezza vuota, mi ritrovo a mordere la cannuccia di un the freddo che non ho ancora assaggiato. È inutile illudermi: la voce vivrà. Tuttalpiù le avrò mozzato una testa, ma altre otto strisciano per la nave, inoculando ai pazienti dosi di speranza.          
Chissà, forse una cura l’hanno trovata davvero. Anche se non si è mai capito come faccia il morbo a diffondersi. Anche se gli esami non rivelano anomalie: non nel sangue, né nella saliva, né nelle mappe interiori vergate con il liquido di contrasto. Anche se molti dicono che non c’è alcuna malattia, e che ciò di cui siamo vittime ha un nome diverso: cambiamento.

Il the è buono. Sa dell’idea di pesca che hanno i bambini, sa di zucchero e colorante.

Il the è buono. Sa dell’idea di pesca che hanno i bambini, sa di zucchero e colorante. Ho sete, e anche se ne ordinerò un altro la sete non svanirà. Mi viene da grattarmi. Sulle braccia non ho nulla di strano, a parte qualche livido e il cerotto per la flebo. Ma sento la pelle spaccarsi in trame di crepe che si ramificano su di me, dentro di me. Sono i sintomi del morbo.           
Se c’è una cura, io non la voglio.

IV

Quando il mio paese svanì, me n’ero andato da tempo. Lavoravo in una città circondata dai monti, una metropoli su cui pesava un cielo plumbeo di smog e antiche glorie.        
Le case ci sono ancora, disse zia Ambra per telefono, ma la gente è sparita. Venerdì era tutto normale. Venerdì ho pranzato con Clara e tuo padre.             
A quel tempo, l’apocalisse era una manciata di aneddoti disseminati per il mondo, e non la chiamavamo ancora apocalisse. Era qualcosa di inspiegato, inspiegabile. Lontano e senza nome. Eppure, quando pensai a casa e me la immaginai vuota, vidi le barche abbandonate sul Garda, e la famiglia inghiottita dalle onde, e il tedesco che si tuffa e non riemerge. In qualche modo, avevo capito.       
Aspettai un giorno, poi presi un permesso da lavoro e un treno verso nord.    

Fatta eccezione per il silenzio, il paese era come me lo ricordavo: case di pietra in pendenza, parabole satellitari, il bar di Gianni a tema nativo americano. Setacciai le vie metodicamente, bussando a ogni porta senza ricevere risposta, finché non ritrovai il sentiero tra i boschi, dove più volte ero fuggito da ragazzo: prima dalle aspettative di mio padre, poi dall’amore indesiderato di Sara, infine dalla voglia di fuggire. Ma non ne varcai il confine. Il silenzio amplificava il mio respiro e in alto, nel blu, una cordigliera di nuvole era pronta a crollarmi addosso. Ebbi paura e tornai indietro. Camminai a lungo sul ciglio della strada. Passai la notte in un hotel dall’insegna gialla.    
Nel buio, pensai a dove conduceva il sentiero. Attraverso ciottoli e tronchi divelti, il fiume s’inerpicava sulla montagna per interrompersi in una diga di cemento. Sopra la diga, tra due versanti boscosi, il lago verde delle mie estati. 

Sopra la diga, tra due versanti boscosi, il lago verde delle mie estati. 

V

La mattina dopo, zia Ambra mi teneva sottobraccio tastandosi l’anca con la mano libera. Era la stessa donna di sempre, con la permanente rosso caramella e le unghie smaltate di fresco, ma i suoi gesti erano vecchi: ogni passo sul sentiero, su nel silenzio fino alla diga e poi al lago, le aveva aggiunto un’ora, un mese, un anno di fatica. Per sua fortuna, non ci sarebbe stato bisogno di spingerci oltre. Sotto di noi, l’acqua era attraversata dalle carpe che da piccolo chiamavo semplicemente: Pesci! e che non avevo mai voluto prendere all’amo. La trasparenza rendeva chiaro ogni dettaglio, solo un po’ più verde.        
Spostai lo sguardo a riva, rapido. Cercai di concentrarmi sulla ghiaia, sulle rocce e gli arbusti.    
Ma zia Ambra mi strinse il braccio, nervosamente, e smise di tastarsi l’anca, e indicò il lago.      
Li aveva notati anche lei.       
Sentii un cavo issarmi la fronte e fui costretto a guardare. 
Camminavano sul fondo, da soli o in gruppo, mentre le carpe li sorpassavano senza troppo interesse. Alcuni nuotavano verso la superficie inarcando la schiena, ma non riemergevano mai. Altri erano piegati e, forse, raccoglievano alghe dal fondale.      
Erano Sara, mai partita per la città. Erano il bar di Gianni il mercoledì mattina. Erano mio padre. Vivevano lì, ora. Tutti. Vivevano sul fondo del lago.
Quando, un anno più tardi, zia Ambra manifestò i primi sintomi, pensai che avrebbe raggiunto il fratello e gli amici nell’acqua dolce. Invece mi disse: Voglio andare su una di quelle navi ospedale. Lì si prenderanno cura di me. E poi, una crociera non l’ho mai fatta.        
Si è buttata in mare tra il Veneto e la Croazia. Il punto preciso non lo conosco.    

VI

La nave ospedale non è un ospedale.          
Abbiamo sete, noi malati, perennemente; ma per quanto beviamo la sete non passa. Ci gonfiamo di liquidi per riequilibrare l’aridità che c’invade, e facciamo molte docce, e flebo quando ci stufiamo di bere. Ma non ci stiamo curando. I medici giocano d’azzardo con i nostri corpi, fiduciosi che un giorno la fortuna li premierà. Allora invertiranno il processo, e saranno eroi. E noi saremo salvi.       
La nave ospedale è una prova crudele ed è un atto di misericordia. Ci raccoglie malati da ogni porto, avvicinandoci alla fonte del nostro tormento. Noi dividiamo l’attenzione tra l’orizzonte e la costa, tra i ricordi e l’ignoto, e intuiamo quanto ancora ci resta da viaggiare. Per ognuno il viaggio ha una durata diversa. Quando capiamo di essere arrivati, ci basta scendere dalla passerella, o buttarci dal ponte. La nave ospedale non cura, non può dare speranza. Naviga inseguita da un’apocalisse dolce, rimandando il momento dell’addio.

La nave ospedale non cura, non può dare speranza. Naviga inseguita da un’apocalisse dolce, rimandando il momento dell’addio.

È trascorso un giorno da quando il primario è sbarcato. Ho paura del mare, la sete è insopportabile ma non voglio che smetta: avere sete significa che sono ancora qui, un malato sulla nave. 
Guido suona la chitarra e io ascolto, lo ascoltiamo in cinque battendo le mani per tenere il ritmo; qualcuno si azzarda a cantare: solo una strofa, quella che sa. Ci provo, a dimenticare l’attesa. Ma sulla costa c’è un mondo a cui non appartengo, e nell’acqua zia Ambra, mio padre, il bar di Gianni, Sara e il paese; il gruppo di velisti; la famiglia di Auckland; il tedesco. Gustave.    
Vado al bar e bevo un the freddo. Sa dell’idea di limone che hanno i bambini, sa di zucchero e colorante. Corro sul ponte di poppa, guardo il porto. Non sono ancora tornati. Cammino in cerchio mentre la brezza mi spettina. Guardo di nuovo.  
Il mare al tramonto diventa di un colore caldo. Nella notte senza luna sarà di china. Ne ho paura, ma non posso sbarcare. I miei ricordi sono là, sulla terraferma, insieme all’unico modo che ho di capire la vita. Ma la sento respingermi. Immagino di camminare per un paese con le saracinesche che si abbassano e un cane che mi fiuta distratto, e la gola torna a farsi arida. Mi pento di averci immaginato Gustave.          
Accendo una sigaretta. La cenere si perde nel vento e non nella scia della nave, ferma.  
Forse, se davvero c’è una cura, arriverà tardi. Farò in tempo a tuffarmi.   
Non è l’apocalisse, quella che ci ha colpiti: ora mi è chiaro.            
È un passaggio di stato.     

Illustrazione di Linda Aquaro