“Do you remember when you were young and you want to set the world on fire?” – Against Me!, I was a teenage anarchist
E allora è venuta la voglia di rompere tutto: le nostre famiglie, gli armadi, le chiese, i notai, i banchi di scuola, i parenti, le centoventotto; trasformare in coraggio la rabbia che è dentro di noi, cantava Giorgio Gaber nella dolente canzone I Reduci, che già nel ‘77 guardava con scoramento a una rivoluzione che sembrava sempre più lontana. Ed è così che mi sono sentito quasi sempre approcciandomi alla letteratura “barricadera”, quella che narra i gesti e le gesta di persone che lottano o hanno lottato per l’anarchia e il comunismo: scorato, dolente nel vedere storie complesse ridotte a semplificazioni agiografiche o a condanne aprioristiche per lectio moralis dirette a nuove generazioni che non devono “ripetere gli errori” di chi in passato si è battuto per trasformare il mondo. Nella letteratura influenzata dai moti rivoluzionari possiamo infatti sottolineare due sottogeneri: quello “storico”, memorialistico, come i romanzi di Evangelisti e di Cacucci su proletari e rivoluzionari fra la fine dell’800 e l’inizio del ‘900 o con un taglio semi-documentaristico, come La Banda Bellini e I pirati dei navigli di Marco Philopat e una letteratura pressoché reazionaria di condanna a quei moti, che parte dall’imprescindibile I Demôni di Dostoevskij e arriva all’Agente Segreto di Conrad. Su questi due filoni sono state scritte tante opere di alterno valore letterario, eppure sono rarissimi i tentativi di raccontare comunismo e anarchia in un modo più politico, che si confronti con le contraddizioni e le possibilità di azioni che le condizioni oggettive offrono ai protagonisti e alle protagoniste. Un esempio è il fortunato e bellissimo Il tempo materiale (minimum fax) di Giorgio Vasta, che nella storia di tre piccoli lottarmatisti di una città di provincia del sud Italia negli anni ‘70 cerca di tratteggiare la disperazione e la solitudine di certe scelte, eppure la storia rimane troppo “meta” per far sì che ciò che viene raccontato possa essere uno spunto di riflessione rivolto al domani.
Con questi dubbi e queste riflessioni mi sono approcciato al romanzo Il paradiso per sottrazione di Daniele Trovato, autore teatrale e del podcast Guerrilla Radio, con il timore che la storia indulgesse in trovate giovanilistiche (per modo di dire, dato che le lotte non vanno manco più di moda), naive o addirittura moraliste. In più, come ex attivista anarchico, ero pronto con la matita rossa a segnare errori. Matita che è rimasta appoggiata sul tavolo, perché il libro può tranquillamente essere considerato una delle uscite più clamorose dell’anno 2020.
La storia narra di Marco Bezzi, trentenne prodigio della finanza e “casseur” (o black bloc, come dice la vulgata giornalistica italiana) con il suo gruppo d’affinità ai cortei.
Una doppia vita, quindi, che nello scorrere veloce delle pagine si radicalizzerà sia in un modo che nell’altro, con un crescente successo professionale (a scapito, anche, dei suoi colleghi vittima di una “ristrutturazione aziendale”) e una sempre maggiore tensione, sia sua che dei suoi compagni, a rispondere alla violenza dello Stato con la violenza liberatrice, fino alla morte di Valter, pestato a sangue ad un corteo dalla polizia, che rimette tutto in discussione, anche la relazione che Marco sta portando avanti da anni nel suo precario equilibrio. Il lutto si inserisce nella cornice del quartiere dove vive, in via di gentrificazione, e di una serie di personaggi che si alternano velocemente ma che lasciano un alone di desolazione. Tutti, ne Il paradiso per sottrazione, sono parzialmente alla deriva: dagli ex fascisti ridotti a essere spacciatori di eroina in piccoli bar ai manager così untuosi da apparire quasi deboli, dai parenti di Marco confusi dalla violenza poliziesca all’affascinante figura del “reduce”, un vecchio odiato dai suoi parenti, compreso il giovane nipote che suona cover dei Rage Against The Machine ma in realtà è fascista. Il tutto incorniciato dal flusso di pensieri di Marco, che getta disprezzo e trasuda inquietudine in momenti narrativi che arrivano quasi a toccare l’epica “miserabile” di un Céline o di uno Steinbeck.
Il libro procede ritraendo fedelmente le idee dei giovani anarchici senza mai scadere nel didatticismo, con l’unica piccola pecca di immaginarli organizzati come potevano essere qualche anno fa, e non in un oggi in cui sembra non esserci quasi più spazio per queste idee.
Come il teorico comunista Jacques Camatte, anche Marco a un certo punto si sottrarrà a una lotta e a delle contraddizioni che parevano sussumerlo, abbandonando il capitale aspettando che esso si ossifichi e crolli per sua stessa mano o per mano altrui, e in ciò c’è un po’ la storia di tanti e tante di noi ex militanti. Reduci, a modo nostro.
Ciò che io chiamo desiderio è quel moto che mi porta a concepire e a realizzare una nuova disposizione delle cose, vale a dire una trasformazione degli elementi che formano il mio mondo. In particolare, il desiderio è quell’improvviso senso di vuoto che viene a nascere quando m’imbatto in una presenza umana che si fa squarcio, esigenza di senso, di bellezza, e che mi incita a ridurre la distanza intercorrente tra me e la sua attualità. Provando a colmare quel vuoto – praticando cioè il desiderio al fine di costruire o ricostituire una compiutezza del vivere – io aggiusto il mio mondo e lo apro all’Altro. Nel salvaguardare e sviluppare questo movimento di apertura, l’affetto che provo verso l’Altro resta però autentico solo se diventa uno strumento di conoscenza che limiti al minimo la sofferenza delle parti in gioco e a condizione che vi si cerchi una compiutezza evitando la subordinazione di sé o dell’Altro. Il vuoto tra i viventi – e tra questi e le cose del mondo – non è che l’attesa di un senso, di un adempimento delle proprie capacità attrattive. In qualche modo, è come un’ipotesi di spazio che ancora non contiene dei “luoghi comuni” per l’affetto, per le parole. Smette di essere vuoto, infatti, quand’almeno due esseri viventi vi costruiscano un territorio e degli andamenti condivisi, concertati, improntando in tal modo un comune saper vivere.
Il vuoto tra i viventi – e tra questi e le cose del mondo – non è che l’attesa di un senso, di un adempimento delle proprie capacità attrattive.
In Histoire de Juliette, il Marchese de Sade scrive: «L’abuso della legge è ciò che conduce al dispotismo; il despota è colui che crea la legge… che la fa parlare, o che se ne serve per i proprî interessi. Togliete al despota questo mezzo d’abuso, e non si avrà più alcun tiranno. Non esiste un solo tiranno che non venga sostenuto dalle leggi nell’esercizio delle sue crudeltà; là dove i diritti dell’uomo saranno ripartiti equamente, in modo che ciascuno possa vendicarsi da sé delle ingiurie ricevute, non si leverà sicuramente nessun despota, perché egli verrebbe rovesciato dalla prima vittima che avesse intenzione d’immolare. Non è mai nell’anarchia che nascono i tiranni: voi li vedete sorgere solo all’ombra delle leggi o trarre autorità da esse. Il regno delle leggi è dunque vizioso; è quindi inferiore a quello dell’anarchia»[1]. Il passo citato, risalente al 1801, e nel quale risalta, forse per la prima volta in assoluto, un’idea positiva di anarchia, va a cozzare con un’affermazione che lo stesso Sade, qualche anno prima, mette in bocca al libertino Dolmancé in La Philosophie dans le boudoir: «Non esiste uomo che non voglia esser despota quando gli si rizza»[2]. Ora, il sillogismo che faccio derivare dalle due citazioni potrà apparire abusivo, ma mi si impone quasi spontaneamente: se ogni erezione apre le porte a una bramosia dispotica, come dice Sade, allora il fallo eretto finisce per risultare l’unica vera legge, l’unica vera istanza normativa alla base di qualsivoglia inclinazione in àmbito sessuale e non. Anzi, il sesso maschile eretto sarebbe allora la vera autorità, il vero depositario di ogni potere dell’uomo sull’uomo e, più di tutto, dell’uomo sulla donna. L’abuso del fallo eretto apparirebbe quindi come l’abuso della legge, come la legge di cui si abusa, la quale non migliora gli uomini, a detta dello stesso Sade, proprio perché tenderebbe a farli diventare altrettanti “despoti”. In una prospettiva autoritaria, non possiamo che concordare con l’assunto sadiano, ma dobbiamo precisarlo: colui che afferma (e impone) l’idea fissa di una tumescenza capitale, come ad esempio la centralità dell’erezione, è sempre un potenziale “despota”, e non solo nella sfera sessuale. Se l’erotismo rimane un saper discernere lo spirito e il corpo del desiderio sganciandosi dalla sessualità riproduttiva tipicamente animale, e riconoscendo altresì una varietà, una creatività comune nel gioco dei corpi, coloro che scindono l’eccitazione sessuale dalla facoltà di un accordo gioioso tra tutti i sessi possibili, irrigidiscono il pensiero dell’eros intorno alle proprie tumescenze sessuali e impongono una loro specifica rigidità al pensiero e al corpo degli altri. Beninteso, non è il sesso turgido in sé ad essere portatore di autoritarismo, bensì la mente e le relazioni sociali di chi lo usa per subordinare gli altri al proprio desiderio, al proprio godimento. Il fallo eretto diventa uno strumento autoritario – una sorta di scettro più o meno patetico – tutte le volte che l’erotismo si voglia come conquista dei corpi e dell’immaginario amoroso degli altri, cioè non appena un qualsiasi atto sessuale si trasformi in forzatura, in atto di potere. La centralità del fallo nasce storicamente da un potere e non fa che situare il potere al centro delle preoccupazioni sessuali. La vera “perversione” si ha proprio nel trasformare l’amore tra potenze affini in un potere tra affetti asimmetrici.
“Non esiste uomo che non voglia esser despota quando gli si rizza.”
– D. A. F. De Sade, La Philosophie dans le boudoir
Malgrado le dinamiche erettili e autoritarie del pensiero, l’erotismo va vissuto come uno dei più grandi strumenti di conoscenza che il vivente umano-femminile si sia dato in epoca storica – quindi non semplicemente come il vasto campo dei piaceri amorosi e sessuali. La ricerca del godimento diventa storicamente un affinamento del saper vivere. In tale prospettiva, il distanziamento dalla Natura appare netto, basti pensare al drastico ridimensionamento della sessualità procreativa umana, però ne deriva anche, contestualmente, un diffuso movimento di erotizzazione del mondo: da una parte, dunque, l’eros costruisce un’impalcatura concettuale e desiderante innestandosi sulle meccaniche biologiche, riproduttive; dall’altra, il sapere erotico impregna sempre più la dimensione sociale umana, giungendo, negli ultimi tre millenni, ad assumere un ruolo fondamentale nelle relazioni (non solo materiali) tra i membri del genere Homo. La Natura, in realtà, attraverso il sesso e la progressiva erotizzazione dell’esistente, viene ad essere sempre più presente, benché frammentata, individualizzata e diluita in un gran numero di dinamiche particolari. La sua generalità – ossia il bacino comune a tutti i viventi – viene quindi subordinata a una progressiva personalizzazione individuale e di gruppo, producendo continuamente nuove differenze, nuove caratterizzazioni. Gli elenchi dei peccati a sfondo sessuale nei penitenziali cristiani, le catalogazioni sadiane delle 120 journées de Sodome o la proliferazione dei sottogeneri nella pornografia di massa, sono altrettante estremizzazioni di un tale movimento storico. Si cerca d’imbrigliare la Natura e di tenerne sotto controllo gli aspetti ingovernabili, ma ciò conduce l’uomo a una sempre maggiore complessità nella gestione sociale dei dispositivi di controllo, arrivando addirittura a concepire dei sistemi tendenzialmente abiotici come alternativa tecnologica alla “natura umana”.
Da una parte, l’eros costruisce un’impalcatura concettuale e desiderante innestandosi sulle meccaniche biologiche, riproduttive; dall’altra, il sapere erotico impregna sempre più la dimensione sociale umana, giungendo, negli ultimi tre millenni, ad assumere un ruolo fondamentale nelle relazioni.
Ma per quale motivo tu arrivi a piacermi? Che cosa ti porta a incarnare e a riempire di sangue il mio desiderio? Qual è la molla che me lo fa rizzare deponendo a favore del mio desiderio, del nostro desiderio reciproco? Come si noterà, generiamo ancora questioni, ancora e sempre questioni. Sembra quasi che le domande scatenino l’eccitazione – la spavalderia del desiderio – e che l’eccitazione stessa, a sua volta, infittisca le questioni rendendo sempre manchevoli le risposte che ci diamo. Interroghiamoci comunque su ciò che affiora, sulla critica che mettiamo in pratica per realizzare un senso, una selezione delle esperienze, e impariamo altresì a sfrondare l’inessenziale e a evitare i vuoti di sangue dei nostri corpi. Finché usiamo parole e segni di qualche genere per rivolgerci agli altri, ci limitiamo a comunicare loro qualcosa e a mantenere la nostra comunicazione dentro una distanza, un distacco. La comunicazione, in altre parole, ci consente di attraversare il territorio che abbiamo in comune con gli altri senza dover ridurre necessariamente le distanze che ci separano da essi e senza che si sia costretti a una fisicità del contatto, a una materialità immediata del rapporto. La comunicazione è lo spazio comune della mediazione. Riduce i vuoti del senso, non le separazioni originate dal senso stesso. Nel perimetro della comunicazione, tutto può avvenire – e avviene – per il tramite di strutture rappresentative, linguistiche, ecc., che sono altrettante protesi del senso. Alcune manifestazioni del vivente sfuggono però a queste manovre, vanno al di là di ciò che se ne potrebbe rappresentare e chiedono a gran voce una negazione di tutte le distanze e di tutte le cautele. Le tumescenze erettili di natura erotica ricadono senz’altro in questa tipologia di eventi. L’erezione annuncia, enuncia e rappresenta l’avvento del desiderio carnale, ma non si accontenta di essere mediazione; chiama infatti alla soddisfazione, al godimento di ciò che l’ha provocata. Resta quindi parte di un concatenamento che si vuole materiale, e teso ad abbattere ogni mediazione immateriale, rappresentativa.
La comunicazione ci consente di attraversare il territorio che abbiamo in comune con gli altri senza dover ridurre necessariamente le distanze che ci separano da essi e senza che si sia costretti a una fisicità del contatto, a una materialità immediata del rapporto.
Nella costruzione di senso che è il marchio dell’esperienza umana, il problema non è il desiderio, bensì la realtà materiale del desiderio, il funzionamento reale del pensiero a stretto contatto con la materia dei corpi. La realtà è ciò che ci tocca fin dentro il pensiero – attraverso la superficie dei corpi, l’unicità materiale dei nostri corpi – ed è anche la concretezza della psiche, dello “spirito”, luoghi altrettanto unici dei loro supporti carnali. Ciò che ci tocca reca con sé affetto, affinità, oppure offesa, contraddizione, esacerbazione delle differenze. Nei casi in cui occorra risolvere o attutire “socialmente” la situazione di conflitto, il pensiero produce la dialettica, ossia il proprio affinamento per contrasto, come pure la propria critica, il proprio movimento critico, in una continua oscillazione tra la realtà esteriore e quella interiore, tra le dinamiche sociali eterodirette e il pensiero della propria esperienza del mondo. Il desiderio, dialetticamente, è anche il desiderio di desiderare, l’affermazione e il continuo rilancio del movimento desiderante. Proprio per questo, esso nega ogni proposito di stabilire il pensiero critico (la critica del pensiero) in una situazione meramente attuale o necessaria. La potenza dialettica del desiderio fonda infatti un’attrazione incessante e di segno opposto a qualsiasi tradizione “spirituale” dell’uomo. Se io narro il desiderio, se dico chi o cosa voglio occupare col mio desiderio, se affermo la volontà di avere ciò che desidero soprattutto dicendo e rendendo comune il mio desiderio, finisco per costruire o inventare un campo di possibilità in cui attirare l’Altro. Il mio desiderio apprende costantemente dai suoi attraversamenti dello spazio e, nel contempo, organizza i proprî apprendimenti per stabilire o rinsaldare il senso che do ai miei interventi, alla mia potenza. In questo movimento di “mappatura” dell’esistente desiderabile, finisco però per irretire l’Altro in modo involontario o deliberato subordinandolo alla mia soddisfazione. Il territorio dell’amore socialmente determinato diventa così una trappola. Una trappola per i corpi, le stelle, le “anime”. Bisogna invece lasciare uno spiraglio, una porta socchiusa, una possibilità di sganciamento per sé, per l’Altro. Trovare cioè una consonanza, una condivisione territoriale che non sia vincolante, ossessiva. Occorre scardinare tutti gli idealismi che inchiodano l’affetto dentro una concezione rigida dell’amore. Il saper vivere è la propria liberazione dell’amore, dall’amore, realizzata insieme a coloro che mettono in comune con noi un affetto o una contraddizione. In tutto questo, bisogna però capire che la vera conquista non è l’amore, il contratto sentimentale, bensì la premura, la tenerezza, la condivisione gentile delle rispettive intelligenze.
(2 – continua)
CARMINE MANGONEè agitatore poetico, traduttore e saggista. Ha scritto di erotismo e dell’oscillazione tra gli estremi per diverse riviste e antologie. È autore, tra gli altri, di Punk Anarchia Rumore (Crac Edizioni), L’insurrezione che è qui (Gwynplaine) e Se questo si chiama amore, io non mi chiamo in alcun modo (Ab imis). Redige «Il pesanervi» e cura per Neutopia «Per una storia del godimento», di cui potete leggere qui la prima puntata.
[1]D.A.F. de Sade, Histoire de Juliette, ou les Prospérités du vice, 1801, parte IV.
[2]La Philosophie dans le boudoir, 1795, dialogo V: «Il n’est point d’homme qui ne veuille être despote quand il bande». Curiosità: in un’edizione italiana del testo sadiano, la frase qui citata scompare come per incanto (cfr. Sade, Opere complete, volume III, Newton Compton, Roma, 1993, p. 160), eppure la lettera dell’originale pare anche fin troppo chiara.
Quella di Soledad è prima una storia argentina, poi, dal Giugno del 1997, il suo nome si restringe in “Sole” e la sua diventa una storia torinese. Prima dell’alba di un 11 Luglio di 21 anni fa la storia finisce.