Sono le dieci e ventisette di mattina. Decido che è ora di fare una pausa, staccare gli occhi dalle tabelle Excel a cui sto lavorando e bere un bicchiere di latte freddo con un po’ di caffè e una vagonata di cubetti di ghiaccio. Sono ancora in pigiama e mi pulsa la testa, eredità di una serata alcolica protratta oltre le previsioni. Mi alzo dalla sedia da gaming a cui ho affidato la salute della mia schiena e vado in cucina. Sento arrivare il rumore dello spremiagrumi e per poco non mi prende un colpo, forse sono la prima persona al mondo a sorprendere un ladro in casa intento a farsi una spremuta. E invece non trovo nessun ladro, ma una ragazza giovane, carina e, mi pare di vedere, alquanto simile a me.
Noto immediatamente il suo abbigliamento curato, un vestito leggero tipo prendisole di raso lilla con un cordino a mo’ di cintura in vita, l’avevo comprato identico per una festa di laurea in piscina, e le ciabattine con il pelo come quelle che non trovavo più da mesi. Roba che avevo usato un paio di volte e poi dimenticato in un cassetto. Qualcosa di più vistoso mi distrae dall’outfit e dagli accessori copiati: la sua glass skin potrebbe accecarmi, tanto è traslucida. Mi sforzo di sopportarne la brillantezza innaturale e scandagliarne la grana centimetro per centimetro, ma non riesco a trovare un singolo punto nero o poro dilatato, figuriamoci un brufolo o una macchia. Sfoggia uno sguardo così fresco rispetto al mio, che è sempre stato marcato dalle occhiaie, a volte discrete e a volte prepotenti, sempre pronte a ricordarmi che non posso permettermi di perdere neanche un’ora di sonno.
Di recente ho notato anche la comparsa di timide zampe di gallina, indesiderate ambasciatrici dei miei (quasi) trent’anni. Il suo glow mi attrae e mi respinge. Neanche fosse una Birkin in pelle di coccodrillo, la scruto scissa tra ammirazione e frustrazione, desiderio e vergogna. Chissà quanta costanza ha dedicato alla sua skincare routine per ottenere un incarnato così uniforme e luminoso, che religiose stratificazioni di acido ialuronico, niacinamide, Vitamina C, peptidi, retinolo, ceramidi, quale impeccabile ritualità dietro la sua pelle indossata come un guanto di lusso.
A parte questo, è identica a me. Il neo accanto al sopracciglio destro, l’attaccatura dei capelli a forma di cuore, la leggera gobbetta sul naso. Resto scioccata a fissarla per qualche secondo mentre armeggia con i bicchieri nella credenza. Poi finalmente si accorge di me e mi pianta addosso uno sguardo beffardo, sprezzante. Scopro che è vero, quando si è particolarmente scioccati si perde la facoltà di parola. Non riesco a spostare lo sguardo. Ora che ci troviamo faccia a faccia noto che è molto più bella di me, malgrado sia la mia copia. Le labbra sono più definite e piene, di un turgore roseo che ricorda una bambola russa, l’ovale del viso più affusolato, il mento più appuntito.
È lei a rompere il silenzio e a chiedermi come sto. Stessa voce ma con un non so che di filtrato, come quando registri un messaggio vocale e poi lo riascolti, la tua voce parlata da qualcos’altro. Mugugno freddamente un «tutto ok», per poi aggiungere che forse sto sognando, possibilità che lei smentisce prontamente. Mentre si muove nella cucina, noto che abbiamo la stessa conformazione mediterranea, con i fianchi abbondanti e le spalle strette, eppure su di lei sembra tutto più proporzionato. Forse è merito dell’outfit che mette in risalto la sua snatched waist.
«Chi sei?», riesco finalmente a farle questa domanda assurda. Spero mi risponda che è la mia gemella, una mia copia omozigote strappata alla mia esistenza perché i nostri genitori non avevano le possibilità economiche per crescere due figlie. O magari quella adottata sono stata io, anche lo troverei strano, vista la notevole somiglianza con mia madre, eppure accetterei con sollievo questa spiegazione. Intuisco tuttavia che quella ragazza identica a me e molto più bella di me non è una gemella dispersa. Si porta le mani al petto, indicando sé stessa in un gesto teatrale, da influencer, e mi chiede «tu chi credi che io sia?».
Ha rimbalzato la mia domanda come uno strizzacervelli da quattro soldi. Sto prendendo coraggio e mi sento bruciare la nuca, segnale che solitamente indica l’arrivo di una rabbia sfacciata e risoluta. Mi avvicino e le ripeto la domanda, alzando la voce. Per tutta risposta, lei mi ignora e si mette a sorseggiare la sua spremuta. Dopo pochi secondi, stacca le labbra dal bicchiere e le distende nuovamente in un sorriso sornione, quello di chi vorrebbe tanto venderti qualcosa e capisce che stai per abboccare. Ora che tiene in alto il bicchiere e rivolge la parte posteriore dell’avambraccio verso di me, noto anche il tatuaggio con la scritta Live Through This, titolo dell’album delle Hole con cui la me diciannovenne era andata in fissa al punto di volerselo imprimere sulla pelle per sempre, autoproclamandosi ultima superstite del grunge e ragazza eternamente dannata (anche se le esperienze più hardcore che aveva collezionato fino a quel momento erano state la decisione di cacciarsi le dita in gola per vomitare il pranzo un paio di volte e qualche sbronza molesta in seguito alla sua rottura con il suo fidanzatino delle superiori, di cui ora ricordava a malapena il cognome). «Senza offesa, sembri un po’ stanca. Perché non torni a dormire un paio d’ore?» La domanda mi scuote, costringendomi a realizzare che sono in pigiama, struccata, spettinata. Cerco di riportare la mia attenzione su di lei.
«Perché sei qui?», strascico le parole e mi vergogno come un cane, non so se mi vergogno più del mio stato o di questa situazione di completa assurdità, eppure mi ostino a non voler tornare a letto, dopotutto lei non dovrebbe essere qui, nella mia casa, nella mia cucina. Dovrebbe rimanere confinata nei 6.1 pollici del display del mio telefono. «Per provare a rimediare. Elia ci, anzi mi, ha messo un like e tu, presa dalla sbronza, gli hai scritto per chiedergli un’ultima possibilità,» sbuffa, «una roba patetica. Allora lui è stato comprensivo e ti ha proposto di fare due passi al parco prima di pranzo. Se permetti, è meglio che ci vada io». Ricordo vagamente di aver mandato un messaggio a Elia a fine serata. Non posso darle torto, è stata una mossa patetica.
«Non se ne parla proprio.»
«Guardati e ragiona un secondo.
Capisco immediatamente che ha ragione. Abbasso lo sguardo sul mio pigiama sgualcito. Mi assale un odore sgradevole di sudore rappreso. Sento pulsare e dimenarsi tutto lo schifo che ho addosso, i capelli unticci, i solchi sotto gli occhi, lo smalto sbeccato, i buchetti sulle cosce, i talloni screpolati, le ascelle umide. E ancora la rottura con Elia, la bocciatura in quarta superiore, i continui litigi con mia madre, gli antidepressivi, la diagnosi, i colloqui con quella psichiatra di merda a cui avrei solo voluto spaccare la faccia. Tutto questo pulsa fortissimo in ogni parte del mio corpo.
Osservo la mascella definita della Me Virtuale, delineata e squadrata come i lati di uno smartphone. Forse lei sarebbe capace di riconquistare Elia. Ha sempre qualcosa di interessante entusiasmante esaltante da mostrare sotto la luce giusta di un book café o della golden hour, mentre io sono una massa informe sbiadita, un eccesso sbrodolante di culotte de cheval e ore sprecate a lasciar marcire il cervello tra lenzuola stantie.
Appoggio la schiena al muro, affranta. La Me Virtuale si sforza di mostrarsi comprensiva. Riempie un bicchiere d’acqua e me lo passa. Mentre bevo, sento il suo braccio cingermi le spalle. Dunque non è un’allucinazione, né un ologramma. Il suo arto esercita quel tanto di pressione sufficiente a chiarire che lei è davvero lì e che non arretrerà di fronte alle mie proteste, ma trasmette anche una delicatezza emolliente. Mi rassicura, dice che non devo preoccuparmi, che farà ciò che è meglio per noi. Sono mesi che mi dispero per Elia. Magari riesce a riconquistarlo, e sarò felice.
Ritrae il braccio e si volta verso le scale. «A proposito, si sta facendo tardi. Salgo un attimo in camera. Mi servono la T-shirt nera dei Linkin Park e gli shorts di jeans a vita alta.» Le rispondo che la maglietta è rimasta a casa dei miei e che i pantaloncini non mi vanno più bene, cioè che fatico a chiudere il bottone in vita, lo dico abbassando un po’ la voce e lo sguardo. Allora lei scatta verso di me e mi dà un pizzicotto sulla pancia. «Questa vuoi dire? Meno male che non si è mai vista nelle foto. Su Instagram sei sempre snella. Quindi non preoccuparti, a me andranno benissimo.»
Sento il solco delle sue dita sul grasso della mia pancia. Brucia. Dita in carne e ossa. La mia rabbia si sta facendo vorticosa, la percepisco irradiarsi dal punto pizzicato fino a ogni centimetro del mio corpo. Seguo di sopra la Me Virtuale, fissandole il culo alto mentre saliamo le scale. Non posso permettere che vada all’appuntamento al posto mio, neanche e soprattutto con la sua glowing skin, il pilates body e le nails perfette. Mi sento improvvisamente fresca e reattiva, nonostante la sbronza della sera prima. La osservo intenta a ravanare tra i cassetti dell’armadio, a ridacchiare giuliva come un demone mandato a infestare le mie cose. Con la risolutezza di un esorcista mi posiziono alle sue spalle, le afferro il collo sottile tra le mani e poi stringo più che posso.
È stesa sul pavimento, morta. Ha ancora sulle labbra quel mezzo sorriso beffardo. Per essere morta, è veramente bella, una Laura Palmer della periferia romagnola. Con una fatica immane, la trascino fino al divano e la distendo sulla chaise longue, il capo appoggiato al poggiatesta. Le sistemo i lunghi capelli davanti alla scollatura, in modo che non si vedano i segni di strangolamento. Noto con piacere che il corpo non ha ancora perso il colorito, il che forse è normale, credo. In effetti io ho studiato scienze politiche e non so nulla di cadaveri, sto improvvisando. Vado a preparare, finalmente, l’iced latte per cui mi ero alzata. Lo appoggio accanto a lei, sul sottobicchiere che lascio sempre sul bracciolo del divano. Anche il suo gomito destro va sul bracciolo. Impiego parecchi minuti a sistemarla come desidero; la testa continua a cadere in avanti, la posizione sembra troppo innaturale, non si vedono i dettagli che desidero. Poi scelgo un libro dalla mensola TBR e glielo appoggio in grembo, circondato dal braccio sinistro inanimato. La luce entra dalla porta finestra alla sua sinistra. Mi piazzo in obliquo rispetto a lei, per catturarne la sagoma e i giochi di luce sulle onde dei capelli e le pieghe della veste di raso.
Dopo una quindicina di scatti, il risultato è una foto piuttosto riuscita in cui lei, cioè io, ma lei, sembra riposare dopo una sessione di lettura mattutina. Aggiungo un filtro che avvolga l’immagine in un alone vagamente retrò, dai colori attenuati e placidi. È il genere di foto che volevo da un po’, ma che con l’autoscatto non riuscivo a fare. Sotto questo punto di vista, per fortuna che è arrivata lei. Resto per un attimo a fissare la foto apparsa sullo schermo dello smartphone. La sola parte del viso che si vede chiaramente è il naso piccolo e alto, dalla punta che svetta come una perla tra le chiome ondulate. Pur non distinguendo bene le fattezze, si nota lo splendore dell’incarnato. Pare scoppiare di salute.
Testo di Federica Custo
Lettura di Davide Galipò
Federica Custo è il nome di penna di una che nella vita fa un dottorato in cui si occupa di letterature sinofone, scrive recensioni di libri per un sito web, pedala ogni volta che può e sogna una propria newsletter di critica culturale. Ha pubblicato due racconti, apparsi su Blam e l’Altro sessuale sotto il suo vero nome.
