Eleonora Quintavalle | Respira dove non registrano

Il mercato delle password era aperto solo il venerdì, quando le condutture di scarico vomitavano abbastanza vapore da coprire gli ingressi. Lo chiamavano “la Fiera dei Fantasmi”. La sorveglianza della KN lo lasciava vivere per comodità statistica: un sifone di memoria residuale, utile a mappare desideri e abitudini scartate.
Io, Alex per chi mi serve da bere e nessuno per chi mi paga, ci andavo per lavoro e per ossessione. Le Sorelle di Meridia mi buttavano crediti per mappare i nidi di ritenzione della città; io, in cambio, alimentavo la mia dipendenza dal rumore delle vite spezzate. Non era sempre stato così.

Prima facevo saltare in aria i corporativi e prendevo a calci i repressori. Prima credevo che legarsi al branco avesse un senso. Ora so soltanto che ogni password morta è un pezzo di qualcuno che non c’è più. E forse, tra tutte quelle stringhe, prima o poi avrei trovato anche la sua.

Non c’erano banchi, solo tappeti stesi sul cemento umido, con sopra file di password scolpite su cartoncini, vetroresina, ossa di cane con QR code incisi a mano. Alcune erano semplicemente scritte, altre tatuate su pelle staccata chissà a chi, qualcuna immersa in provette criogeniche con il respiro condensato ancora sul vetro. Tra i tappeti giravano “farmacisti di protocollo” con kit per testare le stringhe come se fossero sostanze; un drone-lampa misurava le microvariazioni del battito, registrando chi si emozionava davanti a un nome. Ogni password aveva un prezzo in crediti o in sangue, dipendeva dal venditore. Primule83: dieci crediti; !Tuamadre666: due crediti; SanTrocader0: un braccio di ricambio usato ma funzionante, con servoattuatori sfalsati e tendini in filo di kevlar.
Collezionavo password come altri collezionano vinili: per il rumore, per la disperazione, per la speranza idiota che prima o poi ne avrei trovata una che mi riportasse indietro. Ogni stringa era un fantasma, un pezzo di carne secca strappato a un cuore che non batteva più. Mi piacevano quelle con i nomi: di gatti, di figli, di amanti. Ogni volta che le leggevo, sentivo qualcuno respirare di nuovo, anche se solo per un istante, registrandone il timbro con un lettore a nastro Orbit. Era sbagliato e lo sapevo: violazione di intimità, profanazione di tombe. Ma ero diventato bravo a convivere con le cose sbagliate.
Una ragazzina senza pupille mi ferma: «Vuoi roba buona? Ultimo pezzo, fuori lista». Nei capelli, filamenti bioled lampeggiavano a ritmo cardiaco; dietro l’orecchio, una presa occipitale a quattordici porte.
Tira fuori un cartoncino ingiallito, bordi corrosi dall’umidità e laminatura in soft touch. Sopra c’è scritto: ViaSanatoria2035.
La guardo con sospetto. Troppo lunga per essere usata da un pigro, troppo specifica per essere inventata a caso.
«Quanto?» le chiedo.
«Un credito. Nessuno la vuole.» Guarda oltre le mie spalle.
«Non digitarla in rete» aggiunge.
Due uniformi dell’Ordine di passaggio.
Pago senza contrattare: non ero mai stato bravo a tirare sul prezzo quando si trattava di fantasmi. Mi infilo la password in tasca. Avrei anche dovuto svolgere un compito: se la pista fosse stata buona, avrei inviato le coordinate alle Sorelle. Era un accordo che funzionava: io alimentavo il loro database di punti sensibili della KN, loro mi tenevano fuori dalle celle di estrazione neurale.

Non sapevo ancora che mi stavo comprando una chiave di casa. O forse una chiave per l’inferno.

Il mio cubicolo sta al livello 12, sopra le condutture di raffreddamento. Lì l’aria sa sempre di alghe e lamiera ossidata, mischiate agli alogenuri dei depuratori a celle Peltier. Le pareti sono così sottili che il vicino può ascoltare i miei pensieri se si mette d’impegno. Non che gliene fregasse qualcosa: sta sempre a gemere con il casco VR acceso, abbonato a qualche holoporno-reality sinaptico di bassa lega, col gel neurale che gli cola sul collo e i guanti percettivi scorticati.
Accendo la lampada, butto la giacca sul pavimento e tiro fuori il cartoncino: Via Sanatoria 2035.
Lo guardo per un po’, come si guarda un rompicapo. Avevo ancora un vecchio terminale analogico, un modello scollegato dalla rete principale, alimentato da una batteria che puzza di ozono. Lo uso solo per testare il suono delle password. Mi piace sentirle scritte, digitate, sputate fuori dalle dita. Un feticcio che solo quel coglione di M. avrebbe potuto passarmi.
Quando inserisco la password, non parte il solito avviso d’errore. Lo schermo sfarfalla. Una linea di testo si materializza lenta, come se qualcuno la stesse battendo in diretta, col cursore che ticchetta come un metronomo cardiaco: ACCESSO FISICO ABILITATO.
Sotto, un indirizzo reale. Un quartiere che conoscevo solo di nome, pieno di rovine e tubature murate: Via Sanatoria.
Mi fermo a fissarlo. Sento il rumore di gocce che cadono da qualche tubo sopra la mia testa: Plick, plick, come un timer. Non me n’ero mai accorto prima. Accendo una sigaretta al bioselenio, la tiro forte e la butto subito. Poi prendo la giacca ed esco. Nella tasca, il trasmettitore per le Sorelle e una boccetta di termite da due minuti. Uno per mappare, l’altra per cancellare.
Via Sanatoria è fuori dalle mappe ufficiali da vent’anni. Non che prima fosse meglio: un quartiere fantasma, ricucito male dopo i baleni nucleari, lasciato a marcire. Ci arrivo a piedi, seguendo il vapore delle condutture come una scia di lumini funebri, mentre due droni-civetta mi tengono in quadro a distanza di sicurezza.
Lungo la strada vedo serrande saldate, portoni murati con mattoni di plasticaccia anteguerra, finestre tappate con lastre d’alluminio recuperato. Le insegne arrugginite delle vecchie cliniche lampeggiano ancora a tratti, con un suono di denti che stringono nel sonno, sotto ai cartelloni olografici bruciati che ripetono spot sanitari in loop. Sulla parete di un magazzino sbrecciato, un graffito in vernice e-ink si increspa e si ricompone quando distogli lo sguardo: tre onde e un rombo nero, il segno degli Androgenya, divisione del Porto. L’onda centrale scivola di un palmo lungo i mattoni, poi torna al suo posto. Sotto, qualcuno aveva scritto con un pennarello smart: «Respira dove non registrano».
All’angolo con la vecchia stazione del tram trovo la porta blindata, con un tastierino analogico incassato nel muro. I numeri sono consumati, come se qualcuno li avesse grattati via. Sopra, un simbolo quasi invisibile: un lucchetto inciso nella vernice scrostata.
Mi guardo intorno: nessuno. Solo vento e tubi che trasudano acqua tossica. Tiro fuori il cartoncino: Via Sanatoria 2035. Lo digito.
Per un attimo penso di aver sprecato tutto: il display resta nero. Poi fa un tic secco, un suono che mi attraversa la cassa toracica. La serratura scatta. La porta si apre con un rumore lento, simile a una costola che si rompe. Dentro, buio. Un buio denso, puzza di disinfettante. Accendo il visore, quello decrepito che uso solo per le serate di breakcore, con la clip cranica allentata che tira i capelli, e faccio un passo. Il pavimento scricchiola sotto le suole degli anfibi. Non è cemento: è legno. Legno vero, in una città che non ne aveva più. Nessuno lo aveva trafugato, niente lo aveva distrutto.
Davanti a me c’è un corridoio. Sulle pareti, targhette numerate. Ogni porta ha incisa sopra una stringa: Lola1992; FenderBass77; ForeverYoung; abc123. Password morte, inchiodate come lapidi di un cimitero alfabetico di vita sprecata. Cavi di rame corrono all’altezza delle caviglie verso casse d’acciaio con bobine facili da bruciare: serrature magnetiche governate da tastiere analogiche.
Il cuore mi rimbomba in gola. Avevo trovato il Santuario. Una leggenda morta, una voce persa tra le voci del tempo.
Provo una porta a caso: Fidelius#56. La maniglia cede. Dentro, una stanza piccola, quadrata, senza finestre. Sul pavimento un mucchio di fotografie stampate. Bambini al mare. Facce sorridenti. Una festa di compleanno con tanto di candeline e sprinkle cake. Nessun nome, nessuna data. Solo la prova che qualcuno, un tempo, aveva riso. Sul muro, una stampigliatura industriale: Campionamento Affetti. Lotto 12, dep. 2025.
Richiudo e vado oltre. Charliedontsurf. Dentro c’è una chitarra elettrica arrugginita, collegata a un vecchio amplificatore che ancora pareva frusciare in un loop continuo di quattro note spezzate, ripetute fino allo sfinimento, cavi spellati annodati come vene. Nel cassetto trovo un contratto firmato KN/Intrattenimento: Sincronizzazione emotiva live-protocollo pubblico. Chiudo di nuovo. La terza porta, erg0sum, mi resiste. La forzo. Dentro c’è una poltrona. Il rivestimento è un tessuto termico che cambia temperatura sotto le dita. Sopra, due tazze di ceramica. Una piena a metà, ormai polvere. L’altra capovolta. Sul bracciolo vedo una lettera sigillata che non oso aprire. Sotto la poltrona, trovo un’etichetta metallica: Ritenzione Individuo Volontaria- esito: fallito. Esco.
Il corridoio continua, interminabile. Qualcuno, anni fa, aveva raccolto le password scadute, e invece di cancellarle le aveva inchiodate qui, trasformandole in chiavi reali, in archivi affettivi che ancora emettono versi. Capivo l’ingegneria: prendevano le passphrase più diffuse, le trasformavano in codice e le associavano a coordinate reali, poi costruivano delle serrature collegate agli script in giro per la città. Il cyberspazio aveva imparato a chiudere porte vere.
Il Santuario conteneva centinaia di quelle serrature. Era diventato una mappa di tutto ciò che avevamo provato a dimenticare. E nel silenzio, sento un dettaglio che mi trapassa come una lama: ogni tanto, dietro le porte, qualcosa respira, come un vecchio ventilatore polmonare lasciato in stand-by. Il battito controllato di un sistema che non dormiva.
Alla fine del corridoio c’è una porta più bassa delle altre. L’etichetta è consumata, ma riesco a leggere in fretta. La riconosco subito: S4turn4li4_06_26. Una delle mie vecchie password. La usavo per tutto, quindici anni fa. La scelta idiota di chi pensa che nessuno verrà mai a cercarla. Mi arriva addosso una nausea secca: sapevo già che dietro non c’era un ricordo, c’era il mio referto.
Mi tremano le mani. Non voglio girare la maniglia, ma lo faccio lo stesso. Dentro c’è odore di tabacco bruciato. Una scrivania di plasticaccia graffiata. Sopra, un tablet nero, con dentro appunti che avevo scritto io, parola per parola. Non ricordavo nemmeno di averli conservati. Accanto, una olografia scolorita: io e lei, stretti in un locale che non esisteva più. Lei indossava la mia felpa nera con il logo degli Acid Burn, quella che pensavo di aver perso per sempre. Sorrideva come se il mondo non fosse una merda. Come se fossi abbastanza per lei. Sul bordo della scrivania, la stessa stampigliatura: Registro Soggetti-Ritenzione Identitaria-stato: attiva.
Mi cade la torcia. Rimane accesa per terra, illuminando la polvere che danza. Tiro fuori la boccetta di termite. Due minuti e sarebbe stato cenere: stanza, foto, tablet, la mia parte. Il trasmettitore vibra: «Linea buona. Invio la mappa o attendo la detonazione?».
Rimango fermo. Le Sorelle volevano la mappa; la KN meritava il fuoco. Io ho davanti il suo ultimo resto.

Sento un rumore alle mie spalle: tlic. La porta. Provo a spingerla: bloccata. Spingo più forte: niente.

Il terminale sul tavolo si accende da solo. Linee di codice scorrono come sangue sotto pelle, un monospace sgranato che trema alle alte frequenze. Una voce sintetica esce dall’altoparlante, piatta, senza inflessioni: «ACCESSO COMPLETATO. SESSIONE TERMINATA». Il cuore mi crolla nello stomaco. Una trappola. Un sistema di cattura per anime perdute che cercavano nei posti sbagliati. La KN aveva costruito l’esca perfetta: un cimitero di identità morte che attirava gente come me, dannati che frugavano nel passato invece di guardare avanti. Ogni password reclamata diventava una cella. Un mausoleo personale. Il Relictario: un programma di ritenzione per identità frammentate, mai dismesso, lasciato a vivere di inerzia nei piani bassi per catturare i nostalgici, gli ossessionati, i rotti come me.
Appoggio la termite sul tavolo e la spengo. Scelgo di non bruciare. Scelgo male. Ma scelgo.
Mi siedo. Guardo l’olografia. Lei sorrideva ancora, congelata in un tempo che non ci apparteneva più. Sorrido anch’io, amaramente.
Poi ripenso al graffito: «Respira dove non registrano». Qui registravano tutto. Anche il mio respiro. Le luci si spengono, una a una, come palpebre che si chiudono nella notte.
Resta il buio. E il mio respiro conteggiato, etichettato, messo via. Forse le Sorelle avrebbero trovato le coordinate che avevo trasmesso. Forse avrebbero fatto saltare questo posto e con esso tutti i fantasmi che ci stavano dentro. O forse no.
Alla fine non importava. Ero diventato quello che avevo sempre raccolto: un altro pezzo da collezione in un museo dell’ossessione. L’ultima cosa che potevo scegliere di perdere era il coraggio di perdere il resto.


Eleonora Quintavalle è nata nelle Marche e vive a Bologna. La sua produzione narrativa esplora le zone di contatto tra cyberpunk, fisica quantistica, esoterismo e storia antica, con un’attenzione costante ai temi del corpo, della libertà e della memoria come luoghi politici. Ha tradotto opere di poesia e narrativa per editori indipendenti e sta completando il suo primo romanzo. Quando scrive di futuri distorti e memorie sintetiche, il suo alterego narrativo è Nanami Flamingo.

Un pensiero su “Eleonora Quintavalle | Respira dove non registrano

  1. Scritto in modo magistrale, il racconto si snoda in uno scenario cyberpunk magicamente evocato. Qui Alex si muove alla ricerca di qualcosa di perduto: il suo passato, se stesso. Lo cerca frugando tra vecchie password altrui, parole abbandonate che racchiudono l’essenza stessa di chi le ha create. Un thriller che tiene in sospeso e che, a ogni riga, non si sa dove ci porterà, fino a farci perdere, assieme a Alex, nel buio che si crea alla fine del suo viaggio.

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