All’angolo della piazza non è rimasto niente. Anche i palazzi che la incorniciavano non esistono più: sono avvolti nelle nuvole, come le vette delle montagne nelle stagioni più umide.
Delle stoffe leggere, un tempo esposte sulla bancarella dei tessuti tradizionali e pregiati, non si scorge neanche un lembo. Come carne strappata dalle ossa, come capelli dal cervello. Si è salvato solo qualche scampolo di poliestere, quello così speciale che il venditore suggeriva sempre di comprare per le tende della cucina. Una volta ne scelsi una con dei fiori di cui non conoscevo il nome. Lo domandai a lui, ma neanche il mercante seppe rispondermi; si limitò ad alzare l’angolo destro della bocca e le spalle. Disse soltanto: «Signora, il mio compito è vendere le cose, non chiamarle per nome». Pagai con il denaro che mio marito mi aveva dato al mattino per comprare il pane, un poco di carne, le spezie. Cercai di convincermi che non si sarebbe arrabbiato; insomma, che avrebbe apprezzato la cura che mettevo in quella che per noi era casa. La casa che oggi, forse, non esiste più. Scelsi un tozzo secco del giorno precedente, un taglio meno pregiato di una bestia già vecchia, delle polveri mescolate tra loro in modo da garantire il massimo sapore nonostante l’infima purezza.
E tu sei pura?
Fu la prima volta, quella, in cui nascosi qualcosa a mio marito. E poco gli importava se agii senza malizia, per stupirlo con una sorpresa: fu come scagliare un artiglio contro uno specchio e pretendere che non venisse rotto. Che non restituisse un riflesso deformato. Quella in frantumi, dietro e davanti alla superficie fredda, ero io.
Tu sei felice?
Avrei potuto cucire nuove tende, magari per nascondere la porta degli altri. Di quelli che un giorno erano entrati in casa nostra e ci avevano detto che era loro. Non era servito gridare. Avrei giurato che si sarebbero ammazzati, mio marito e l’altro, quello della donna che gli stava dietro e che come me non parlava. Un usignolo distratto che aveva perso il dono del canto. Loro, i nuovi vicini in casa nostra. Quelli che non avevamo più visto, ma di cui ogni tanto udivamo dei rumori, a volte dei colpi secchi. Una preghiera a un dio che non li avrebbe mai ascoltati perché, diceva mio marito, il loro dio non era sordo ma bugiardo. Fingeva di aiutarti, prodigava false promesse. E a me non sembrava diverso dal nostro. Forse quei due erano nemici o parenti, e godevano delle nostre mani sporche di sangue.
Le tende di quella porta le immaginavo di un colore scuro, ma non nere. Di nero ce ne era fin troppo nelle nostre vite e sulla nostra pelle. Ne restava fuori sempre meno, ma per qualcuno era troppo: me lo disse mio marito quando mi trovò a cucire, le maniche appena risvoltate sopra il polso. Forse non fu per la bugia che mi chiamò impura e infelice. Forse fu per quel lembo scoperto di pelle. Disse che avrei dovuto comprare altra stoffa, sì, da aggiungere alle maniche. Mi ordinò di nascondere quel neo così spavaldo da comparire e mostrarsi alla vista, quel neo che era certamente segno di un peccato che avevo compiuto e che poi, per castigo divino, era apparso a marchiarmi. Non gli importava delle tende, né della casa che un tempo era stata nostra e poi non più. Gli importava solo di aver perso qualcosa, non di tutto ciò che avrebbe potuto ancora avere. Era un’onta troppo grande e lui, proprio lui, armato di fede e d’odio, avrebbe potuto dare il suo contributo.
Iniziò a vivere di silenzi e di brusii che non riuscivo a udire. Quando le parole arrivavano, spesso non erano rivolte a me. Quando, poi, mi parlava, era per ricordarmi quanto fossi impura e quanto lo avessi reso infelice.
L’ultimo giorno in cui lo vidi, mi disse solo di stare lontana dai varchi della città.
E dove dovrei andare, scusa?
Ecco, brava: stai a casa e non ti muovere.
Non posso mai muovermi di qui.
Non iniziare oggi.
E poi dici sempre che questa non è più la nostra ca…
Stai zitta e non uscire.
Gridai un ciao dietro la porta. Non rispose.
Mi alzai e sfiorai la porta che dava sull’Altrove. Immaginai l’altra donna. Mi chiesi se avesse cucito delle tende per la loro porzione di casa. Mi sforzai di immaginarla indossare un sorriso.
Avrei potuto bussare. Avrei potuto provare a chiamare qualche nome a caso. Nomi che neppure conoscevo, che non avrei saputo pronunciare. Mi accovacciai a terra, forse chiusi gli occhi. Li riaprii quando dalla finestra non filtrava più luce. A ben guardare, le tende stavano danzando. Sul pavimento davanti a me c’erano delle stelle luminose. Impossibile, pensai, sto sognando.
Qualcuno giù in strada gridava il nome di mio marito; diceva che era diventato eterno.
All’angolo della piazza non è rimasto niente. Anche i palazzi che la incorniciavano non esistono più: sono avvolti nelle nuvole, come le vette delle montagne nelle stagioni più umide.
A mio marito è andata meglio. Non ha visto tutto questo: la nostra città non è più nostra e forse non è neppure più una città. Senza mercato, senza voci e profumi, senza le stoffe in poliestere.
È colpa anche tua, ma non posso dirlo. Te ne sei portati cinque dietro. Cinque di loro. Agli stranieri non è piaciuto.
Nell’altra parte di casa stamani è solo silenzio. Nella notte c’era stato un boato, appena prima le grida. Non mi piace il silenzio perché ha dentro qualcosa di marcio: sono le parole che non pronunciamo, quelle che crescono in testa fino a rosicchiare ogni centimetro di cervello.
Il silenzio è una barriera proprio come questa porta. Mi avvicino, busso. Nessuno può aprirla. Nessuno vorrebbe aprirla. E siccome nessuno risponde, busso un’altra volta e un’altra ancora, e poi ancora e ancora finché le nocche fanno male. Finché inizio a sanguinare.
Sei tu?
Si sforza di parlare la mia lingua.
Sì. Va tutto bene?
Non risponde.
Ho sentito i colpi, la incalzo.
Ho sentito di tuo marito.
Non lo dice per ferirmi. Non è il soffio di una belva, il suo. È il sussurro di una donna come me.
Mi dispiace, dico.
Anche a me.
Non sapevo che stesse per farlo.
Non avresti potuto farci niente.
Già.
Io nemmeno volevo venirci, qui, sai?
Immagino.
Non che stessi bene dove ero.
Mi dispiace. È la seconda volta. È ancora vero.
Restiamo così, credo, perché posso solo immaginare che anche lei sia rimasta lì, ferma, alla porta. Forse sfiorandola con le dita, forse appoggiandovi un orecchio.
A mio marito non erano piaciute le tende da cucina, confesso.
Non mi sente, mi illudo, perché dall’Altrove non arriva più la sua voce.
E tu? Anche tu hai cucito delle tende? Aveva della stoffa così bella il mercante all’angolo della piazza. Peccato non aver mai capito che nome avessero quei fiori. Immagino che ormai non sia più importante.
Attendo.
Scusa, ti ho disturbata. Ogni tanto, se vuoi, potremmo… ecco… potremmo parlare. Mi trovi qui, sempre. Pensaci.
Abbattere la porta, in un certo senso. Diventare amiche. Non importa che risponda; interpreto la mancanza di parole come un segnale di assenso da qualcuna che, come me, è costretta a vestire di parole solo la propria interiorità, lasciando il corpo muto. Coperto da tessuti troppo rigidi e che graffiano la pelle. Imprigionato in una gabbia dalle pareti appuntite che si stringono sempre più.
Forse è per questo che stai sanguinando; lo capisco da quella macchia rossa che si allarga sempre più, sotto la porta. Che dalla tua parte di casa arriva alla mia.
Vorrei chiamarti, ma non conosco il tuo nome.
Oltre la porta, una nenia intonata da una voce maschile. Di te non arriva neppure un respiro.
La macchia rossa, ormai secca, ha sporcato appena il pavimento dalla mia parte di casa. Mi accovaccio lì, avvicinandomi senza toccarla. Sentendo che tu non sei più lì, né Altrove.
