La crisi della cura | Per una società del welfare

Una banalità elevata a sistema impregna la nostra cura quotidiana.
– Hannah Arendt

Negli ultimi quarant’anni, da quando i governi hanno accettato che il capitalismo neoliberista elevasse la produzione di profitto a principio organizzatore della vita, la crisi della cura si è aggravata. In particolare, poi, nel corso degli ultimi decenni, le nozioni di benessere sociale e di comunità (welfare) sono state accantonate e sostituite con quelle di resilienza, miglioramento e benessere individuale (wellness). A promuoverle è stata l’industria della “cura di sé” (selfcare), che riduce la cura a mero prodotto di consumo a beneficio personale, offrendo così un rimedio tanto insufficiente ai problemi contemporanei quanto malsano. Ad oggi, le logiche di mercato, per dare priorità agli interessi del capitale, si sono tradotte in politiche di austerità che hanno fatto della cura una questione di preferenze individuali da scegliere sul mercato. L’attuale pandemia di Covid-19 ha messo drammaticamente in luce la logica delle politiche neoliberiste e i suoi effetti devastanti. A causa di tale incuria, infatti, durante questo periodo di emergenza, i medici sono stati costretti a scegliere chi salvare perché decenni di tagli ai servizi sanitari avevano decimato i posti letto e il personale. Il Coronavirus non discrimina tra ricchi e poveri, ma le possibilità di cura sì. Mentre Boris Johonson, Donald Trump e Silvio Berlusconi venivano curati per tempo nelle cliniche migliori e seguiti da equipe di medici di fama, i lavoratori precari o sottopagati e le persone non bianche, prima di morire, alimentavano l’odio tra di loro perché l’uno toglieva il posto letto all’altro. Il rapporto dell’Istat del luglio 2020 non lascia dubbi: in Italia i poveri sono stati le principali vittime del Covid-19. Domina, quindi, un modello sociale fondato sulla competizione e non sulla cooperazione.

In condizioni del genere, le difficoltà e le angosce proprie di questo periodo alimentano un atteggiamento difensivo degli interessi individuali, perché quando il senso di sicurezza diventa così fragile è molto difficile prendersi cura di se stessi, ed è ovvio che di conseguenza il welfare venga ignorato. Il prendersi cura di sé e degli altri è una pratica che viene automaticamente dimenticata.

È necessario liberarsi da logiche totalitarie, nazionaliste e autoritarie e incoraggiare, invece, politiche che mettano la cura al primo posto. Nel Manifesto della cura. Per una politica dell’interdipendenza, The Care Colletive, un collettivo inglese di accademici e attivisti, definisce la cura come una capacità sociale, un’attività che alimenta tutto ciò che è necessario al benessere e al nutrimento della vita. Mettere la cura al centro della quotidianità stessa significa riconoscere e accogliere la nostra interdipendenza. La cura è la nostra capacità innata, individuale e collettiva, di porre le condizioni sociali, politiche, materiali ed emotive affinché le persone e le altre creature del pianeta possano prosperare. Si propone la cura come processo attivo, ogni individuo della comunità deve essere incoraggiato a diventare attore protagonista, leader per sé e per gli altri, in grado di sostenere almeno nelle prime o più semplici fasi del bisogno.

Oggi mi trovo in compagnia di Cetty Di Forti, operatrice sanitaria presso la clinica Major di Torino, che in questi due anni di pandemia ha avviato un progetto a sostegno dei molti pazienti in cura che soffrivano l’inserimento in strutture isolate e la lontananza – come da iter imposto – dagli affetti e dai sostegni più intimi.

Cetty, raccontaci la tua idea.

In questi due anni di emergenza, come sappiamo, negli ospedali erano sospese le visite parentali e il tono dell’umore dei pazienti era sempre più basso. Il giorno di Natale di quest’anno ho proposto al mio direttore sanitario un breve reading. Alcuni colleghi mi hanno aiutata e io ho potuto introdurre la poesia nella relazione d’aiuto, perché io credo fortemente che la poesia agisca come supporto sia individuale che di gruppo. In alcune cliniche estere esiste già questa pratica, si chiama Poetry Therapy. La poesia – come altre volte può esserlo la pittura, il disegno o la musica – è un canale di ascolto: infatti, quel giorno, durante questo percorso di cura, ho notato che emergevano, sia dai pazienti che dai colleghi, molte cose (stati d’animo, angosce, paure) che altrimenti sarebbero state celate a causa del poco contatto che – in questo momento di emergenza – è imposto.
Ho creato una scatola, all’interno della quale ognunə doveva inserire un pensiero positivo per questo 2022: non ce n’erano, ogni commento si riferiva alla pandemia e/o al disastro economico. Questo esercizio ha evidenziato il malessere e il percorso di cura psico-emotivo da intraprendere per ogni persona. Questo progetto è piaciuto molto e verrà portato avanti – salvo nell’immediato perché nel nostro reparto ci sono persone positive e quindi la vicinanza è preclusa – come progetto di riabilitazione vera e propria. Si utilizzerà la poesia come forma di lettura e di scrittura, partendo da un testo poetico o da una canzone si potrà dialogare e guidare l’incontro verso l’espressione del proprio stato d’animo. Insieme a una psicologa, si tratterà quindi di aiutare medico e paziente a interfacciarsi l’uno con l’altro ora che è così difficile.

Quella che proponi è un’interdipendenza, come la definisce The Care Collettive, un passaggio attivo dal “prendersi cura di” al “interessarsi a”. Credi che possa prendere piede facilmente anche al di fuori dell’ambito ospedaliero?

Purtroppo molto spesso questi nuovi percorsi vengono molto svalutati. Io stessa mi sono sorpresa a vedere un così sentito interesse da parte dei medici, uno di loro in particolare era a me vicino per diffondere il pensiero che la cura passa anche attraverso la cultura. Mi ha colpito molto tale sostegno. Il seme è stato gettato sicuramente, poi, certo, bisognerà lavorare molto e praticare tali percorsi in modo costante, prima in una struttura e poi in tutte le altre. La mia paura è che si propongano certe soluzioni ora che la situazione è più delicata, ma che, quando la situazione tornerà alla normalità, la poesia e le altre tecniche vengano accantonate. È necessario evitare sempre il rapporto asettico con il paziente, perché anche in una situazione di non emergenza, egli tende a sentirsi ignorato psicologicamente ed emotivamente. Detto questo, sono sicura che si può praticare la riabilitazione attraverso l’ascolto.

Gli spazi pubblici sono cruciali per riuscire a diffondere il mutuo soccorso, perché sono accessibili a chiunque e favoriscono la convivialità. Immaginando un futuro in cui questa tua proposta di Poetry Therapy prenda piede, e che quindi si espanda oltre l’ambito ospedaliero, quali pensi siano gli spazi sociali più adatti per raccogliere i primi gruppi e le esperienze di questo lavoro?

Il mio luogo di lavoro, per esempio, mette a disposizione la palestra per la fisioterapia, uno spazio dove poter radunare più persone, io quindi comincerò da lì. Ma ogni spazio di condivisione che siamo abituati a frequentare può essere un punto di partenza e di ritrovo. I circoli culturali, per esempio, si sono sempre mostrati interessati e disponibili ad accogliere i progetti più diversi e questi sarebbero luoghi di comunità in cui accogliere questo tipo di proposta. Sono luoghi di raccoglimento che possono ricreare la giusta intimità affinché le persone si sentano protette e a loro agio. Credo sia importante che i gruppi di lavoro siano costituiti da poche persone, così da poter dare la parola a ogni partecipante anche in poco tempo. Inoltre, in ambienti più piccoli, la persona percepisce meno la gerarchia dettata dai ruolo di ognuno – per esempio, i componenti del gruppo percepiranno meno la mia posizione di conduttrice e quindi capofila – e vivranno l’esperienza con una totale sensazione di parità.

Dopo più esperienze di questo tipo, pensi che le persone saranno in grado di riproporre tale interdipendenza e diffonderla ad altri?

Sì. Come abbiamo detto non si tratta di stabilire una figura professionale, ma di abituare ogni persona a coltivare questa capacità innata di prendersi cura di se stesso e degli altri. A qualsiasi età il soggetto può diventare persona attiva nel sostegno reciproco. Il mio obiettivo è proprio questo e uso la scrittura proprio perché essa serve a determinarsi, nel momento in cui tu impari a utilizzarla come strumento, con il tempo, sei in grado di insegnarla ad altri, anche al di fuori di contesti ospedalieri. Io, per esempio, utilizzo la scrittura e la poesia per sostenere il dialogo con i miei figli. Non sempre è facile dialogare con i ragazzi, anzi, è molto difficile, e la scrittura mi aiuta a entrare in contatto con le emozioni mie e dei miei figli.

Progetti come quelli di Cetty rappresentano un primo antidoto all’incuria che il sistema vigente dimostra di avere nei confronti delle persone e del pianeta, un antidoto in grado di trasformare il tessuto sociale. Secondo il Manifesto della cura, “la cura non è un bene ma una pratica, un valore fondamentale e un principio organizzativo sulla base del quale possono e devono sorgere le nuove politiche”. Disabituarci all’esternalizzazione del lavoro di cura a cui il neoliberismo ci ha educato, e imparare a vivere in maniera indipendente, non significa voler fare tutto per conto proprio o affermare l’inutilità degli operatori sanitari o dei complessi assistenziali, ma significa rivendicare le proprie scelte e il controllo sulle proprie vite e su quelle dei nostri cari o della nostra comunità. Nella relazione di cura, entrambi i poli devono essere attivi, così che si rompa il nesso negativo tra dipendenza e patologia. Secondo The Care Colletive:

le pratiche di cura che riconoscono la complessità delle interazioni umane favoriscono la nostra capacità di ripensare i processi democratici a tutti i livelli della società e di parteciparvi appieno.

– The Care Collective

Per troppo tempo abbiamo dovuto dipendere dal mercato per rispondere alle nostre necessità di cura. È ora di creare un’idea di cura più ampia e, per far sì che questa solidarietà diventi il principio organizzativo della nostra società, è necessario che lo Stato se ne faccia carico.

Marta Zanierato

Opere di DMTR

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