Da qui all’annientamento, puoi vedere,
un declivio è il cammino, volto a sud,
devoto al fiammeggiare vespertino
del fiume che dirama aduste piane
e trascina in travaglio e detrimento
l’ordito nudo del discorde flutto:
i tentativi degli eroi, le piaghe,
un colle sormontato dal cenobio
tra mugli di disgrazia e di sgomento
invocano quell’opra del capace
artiere, l’orcio di nepente audace
vibrando lunghe note in do minore.
Il giallo non contamina l’albore
d’ambage, né la sferza lo disloga
se fissa la tenzone nell’abnorme
locusta singhiozzante mentre goccia
vibratile il drappeggio polveroso
del rame e muore il giunco nel pantano:
la gracula ne piange le sciagure
oziando all’ombra d’idoli rugosi
e nella sinecura si compiace
con retrivi agghindati da pacieri;
alla romanza molle in Elsinora
non una cagna perde il sonno, invece.
Un declivio è il cammino, non impervio,
discernilo dal moto regolare
d’ogni caduta e dura infiorescenza
ch’infine è patimento, non diverso
dal timido destino d’Aretusa,
la fuga ansante per le vie nascoste,
procombere all’iniqua vigoria
di ben più sorda possa – e pur volerlo?
Non più domando. Non giovò lo sforzo
per ingorgare il getto all’ampia foce,
l’incaglio di tritume che fu sparso
dall’uomo e le altre bestie nel bisogno.
Giovò l’orrore di fiorire, vedi,
i baci leni e fermi della selce
sullo stipite ignaro, sul loquace
degrado d’ogni mistico volere.
