Sineddoche, Torino | Sara W. Ferro

Barriera di Milano che è a Torino,
sapete, pensavo
avrei sempre raccontato:

“Volevo guardare in direzione di Milano,
perché chi gira le spalle a Milano
le gira al pane”,

panegirico per buttare lì
un dire e non dire surreale,
– un adagio potrò permettermelo
anch’io che suon veloce –

nessuno la poteva prender male,
ma io intanto infilzavo
la frecciata dei paletti miei.

In Barriera di Milano
din don done /dʌn/ din don done /dʌn/

Don DeLillo
voleva ambientare
in origin
Great Jones Street[1]
(vicino ai Docks Dora)
sintesi di
Underworld e End Zone
(ho letto tutto sempre a letto),
ho detto why not.

Todo modo,
a modo mio, più a modino,
vicina per stanchezza
ai diseredati, che schivo,
non esercitavo la facoltà
di cui Ricchi e Poveri
– il mondo è matto perché –
in stessa misura dispongono
di sparare sulla croce rossa
che altri portano,
basta non a casa mia,
per carità,

sarà un quartiere sotto i riflettori,
ne succedono dicono di tutti i colori,
sarà un quartiere spettinato,
che neanche l’esercito, ci vuole la NATO,
ho letto arriverà la cavalleria
che non sia anche lei troppo rusticana

sei troppo ingenua e speranzosa
là è un’altra casa, un’altra cosa,
Nazione Indiana,
Fort Apache regna sovrana

hai detto forse Fortress Europe?
(tu l’hai mai vista
in qualche brochure di giro di castelli Alpitour?
no, vero?
infatti, come non detto…)
regione e ragione mussulmana.

“La gentrificazione
(ti/ci) ha dato un bel quartiere”
un bell’angolino come il Canton Ticino,
carabiniera, mignotta,
poliziotta abissina,
quartiere senza lotta
altro che lotta senza quartiere!

– che lascia il tempo che fu –
la ritengono impertinente,
indecente, disumana
vigilessa urbana,
per quello in centro hanno tre filiali
second-hand di Humana

– che poi è del milanese,
ignorata da Milano
cioè city where sistema moda
ti sistema per le feste,
nell’usato non si investe,
balle di stoffa indossata rotolano
come opere di A. Boetti[2] a Torino
cioè città dove ipocrisia regge per benino
o terzomondista pro Benin,
dove se il vestito non ti va più
lo consacrano al voodoo.

In Barriera di Milano
barricata millanterò
base lancio per Elon Musk,
lui sa che ho elan per farlo,
l’antropologia del futuro è il mio tarlo,
farò meglio che produrre
cibo per missioni spaziali
come la vicina start up di cosmonauti speziali,
non ho le botteghe sotto casa
ma ho vicina una tal cosa

[…] la cosa sempre vera è che c’è chi vive
sul qui-vive, con tutti contro e auto-da-fè,
io ribatto, che pena, è al massimo una lesena,
da egoismo civico menscevico,
descervellato, niente hai imparato.

In Barriera di Milano
il paradiso è fiscale
perduto è con la sua perduta gente
c’è perfino e per perfido segno
margine per emarginare maggiormente
al margine di marci marciapiedi e marciume
quelle parti della parte piccolo borghese
che oscenamente fraintese
e si fece maggioranza silenziosa
come maggiordomi in disparte
in mezzo alla medio-alta-borghesia

pensa che porcheria,
non sono a casa mia,
secondo odiosa e iodata dio-ideologica logica
per mancanza di coscienza,
sporca e bianca in crescendo quella crescenza,
non è deficienza, è rossa incandescenza

e un cuore così bianco,
inutile volerla pulita e stirata,
falsa coscienza, ammanco,
nessuno lava più bianco,
il massimo è d’Azeglio,
nel Po non lavi meglio.

Nel ghetto niente ghette
bianche d’apartheid e di zii Paperoni
attenzionati a non bruciare i peperoni
di un ennesimo Conte di Carmagnola
con tutti i sanculotti,
solo calzini di spugna dentro ciabatte.

In Barriera di Milano
non esco mai a far niente,
poca gente sulla diritta via
incontro sempre un ignorante,
di uscire ho poca voglia,
rimango sulla soglia
in dormiveglia, mi sarei pensata più sveglia.

[…]

Controversa come un saggio punk
datosi alla mistica, invento la sigla
del mio sketch: PCPPB
post-cyber-punk-piccolo-borghese,
la cosa più punk mai pensata

O socialismo o barbarie
che non vuol dire da ribelle imberbe darsi le arie,
socialismo realmente esistente si intende
– detto anche dittatura del proletariato.

I social media più il socialismo danno l’affanno:
è scientifico come il marxismo,
i social fanno danno.

[…]

Una punk, è una punk, è una punk, è una punk,
come una rosa
tatuaggio o tautologia, tutto è una bugia
per la buona notte
che non arriverà in Barriera di Milano,
come l’eroe del Natale
bandito da bande di disperati urlanti
non di dolore, ma di euforia a tutte le ore
più buie, bugie di un Carnevale
che han creduto giusto rendere
h/24 universale

secondo (a nessuno) il Capitale,
garantito dall’egemonia culturale
dell’Internazionale.

Chi è senza peccato
lo sarà perché non si è ingegnato
a far di quello un asset,
non l’ha capitalizzato!
Chi è senza peccato
lo è perché non si è integrato.

[…]

Ecco, oggi c’è il metaverso,
perfetto ambiente,
per provare teorie politiche esoteriche
senza troppe prediche;
sporadiche siano tuttavia le boutade
del tipo esaltato
che vuole la disintegrazione dello stato,
lo stato atomico[3]
che sia abolito, con ogni partito,
con ogni istituzione non solo borghese,
meno stile, decoro e gusto,
essi non ne devono fare le spese,

ma bitte bitte bitte con influenze bauhaus, fluxus, dada,
tutte generi che quelli svegli
vogliono venderci come frutto della strada
perché hanno contraffatto la data di scadenza,
dopo che incensati storici le hanno messe in credenza;

ad ogni modo, tutte riflessioni sterili,
nel capitalismo siamo tutti puerili,
cacca, pappa, pipì,
tutto quello che era play hard
finisce al Costume e Società
del TG.

Che poi Stato, regno o tribù,
simulazione o no,
viviamo in una Disneyland, dice Oliver Stone.

Le vite degli altri a seconda del posto
nel tessuto urbano e sociale
si assomigliano tutte:
invariante bunker,
gente in affitto,
altolocati senza ascensore
mezzo sfrattati, ¡basta sfratti!
urlato al muro
con falce e martello di rito
scritto di corsa in rosso corsaro
abbasso lo stampatello ortodosso
calligrafia da callo al pugno
come nei quaderni di terza
“Elementare, Watson.”

Quaderni rossi.
Il rosso e il nero.
Stand up for Stendhal.
Caspita, capito Cospito?

Estremismo malattia infantile
del tardo capitalismo.
Che fare?

Solidarietà
 alle macchine,
 alla materia,
 all inclusive.

Sotto la banca la capra crepa.
Sopra la blockchain la capra crepa.
C’è sempre chi ci campa.

Alt-right, all right, resolved, revolved.
Risolvi. Evolvi. Dissolvi
le catene della (ri)produzione assistita
assolutamente dissoluta, astuta, saluta:
Buona camicia a me – buona camicia a tutti.[4]

Sineddoche, Torino interpretata dall’IA

[1] [Great Jones Street] è il titolo di un romanzo dello scrittore italo-americano di culto Don DeLillo del 1973.

[2] [Alighero Boetti] (Torino 1940 – Roma 1994) è stato un artista celebre per i suoi arazzi, tappeti, filati e tessiture, nonché per le opere di stracci e di tessuti etnici che intreccia ai suoi interessi geografici e antropologici.

[3] [Lo Stato atomico] è un saggio del 1978 di Robert Jungk in cui l’autore austriaco indica tutto l’apparato intorno all’energia nucleare come connivente con l’ambiente militare e per questo ma soprattutto per sua intrinseca natura, come la più grande minaccia all’umanità mai esistita.

[4] “E se va bene a me, [buona camicia a tutti] – Una camicia coi baffi” è lo slogan finale di una pubblicità televisiva del 1988 con protagonista Maurizio Costanzo.


Sara W. Ferro studia e si laurea in Sociologia, specializzandosi in Comunicazione e Mass Media. Ha un alter ego detective undercover sui generis, che segue indizi antiquari, spia scene subculturali transumane e frequenta mondi più esoterici che esotici, ma non tralasciando mai di curare un distaccato piglio etnologico. Sua passione i vertici del triangolo industriale, natali milanesi, decadi genovesi, orizzonti sulle vette torinesi.

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