Camminava, le mani nella tasca del cappotto, e intanto ripensava alla telefonata del giorno prima. Durante quella breve conversazione, Roberto aveva anche considerato l’ipotesi che dall’altra parte non ci fosse la Giulia che aveva negli occhi del pensiero, ma un’incognita data dalla somma delle contingenze e della variabile tempo nella parentesi aperta dalla distanza. Potrebbe essere ingrassata, la serata pantofole, patatine e film moltiplicata per sette. O forse potrebbe aver deciso di tingersi i capelli di rosa, stavolta per davvero. Un’altra Giulia, una consapevolezza da donna dietro quei suoi occhi grigioverdi. Persino la voce all’inizio non gli era neanche sembrata la sua.
– Roberto? – si sentì chiamare per la seconda volta, tra l’eco del silenzio e la risposta rimasta così, incollata alla bocca. L’aveva riconosciuta appena in tempo, indugiando su quel qualcosa di nuovo, le parole generosamente distese che rimanevano un po’ nel ricevitore. Non la solita Giulia, breve ed interrogativa che ti pressava per la risposta, ma una Giulia che quasi si abbandona ai silenzi.
– Sei in pausa? Non volevo disturbarti – gli aveva detto lei. Allontanata un poco la cornetta, l’aveva guardata come si farebbe con qualcosa che ci si stupisce di avere tra le mani. Non un cliente, una voce. La sua voce, realizzò, e prese a seguirne le frequenze nuove per farsi raccontare la Giulia di adesso, unirla alla Giulia del ricordo e mandarle avanti in sincrono. Il martello pneumatico di un motorino gli entrò secco nell’orecchio e si allontanò. Gli disse che era in strada e qualche piccolo saltello nel discorso gli suggerì che stava camminando. Immaginò il passo svelto e i suoi anfibi con la riga gialla, slacciati, ovviamente, per toglierseli senza mani quando rientrava. Immaginò l’omino verdebrillante del semaforo che sparisce e lascia il posto a quello del piano di sotto, paralizzato di rosso, mentre le strisce pedonali gli dicevano che se l’era lasciata scappare e che doveva impegnarsi di più se voleva trovare Giulia e ricondurla alla voce che adesso gli chiedeva come stava.
Niente da fare. Quella che aveva in mente, pensò, era piuttosto un’immagine statica, da fototessera. Chissà perché quando pensi le persone fuori dall’effetto mosso dei ricordi, finisci sempre per farlo in maniera essenziale, bidimensionale; un po’ come le teste sulle monete. Si fermò a immaginare il proprio volto impresso sul metallo, tra le mani di Giulia che forse non era Giulia. E se fosse così anche per lei? si domandò, portando la mano all’angolo della bocca per cercare quel solco leggero, un passato da ruga d’espressione che ora tendeva a sostare più a lungo sulla sua pelle, come una firma dell’espressione stessa. Qualcosa con cui la vita gli diceva che era suo e gli apparteneva da quarant’anni.
Le prime volte si era dovuto impegnare per trovarla, quasi una perversione davanti allo specchio; Roberto che spia Roberto prima di spegnere la luce al neon.
Via via quel nuovo tratto aveva acquisito la rilevanza di un elemento architettonico che era sempre stato lì, come un ponte che mette in comunicazione due città, la vecchia e la nuova.
I passi degli anni trascorsi erano lì e qualcuno andava verso lo zigomo attraverso la linea discendente di un broncio dell’asilo; quel posto fatto di grembiuli e pasta dentifricia che incideva i lavatoi. – Possibile, Roberto? – gli faceva la maestra con il libro illustrato in mano. Sullo sfondo di foglie acquerellate della pagina, un uccello sembrava poggiato sul dito ossuto che lo indicava con insistenza. – Eppure, l’abbiamo visto, ti ricordi? –. Poi si guardava sempre attorno con la faccia sorpresa, cercando l’assenso dei grembiuli rosa e azzurri. Lui al centro del circolo non rispondeva. – Non lo riconosci? – il silenzio gli scendeva sulle guance, il respiro trattenuto sulla bocca, mentre lei faceva di no con la testa. – È un passerotto – diceva sconsolata. Gli altri lo guardavano, lei lo guardava, e lui non capiva. Perché doveva dirglielo se lei lo sapeva già?
E forse aveva in quel momento lo stesso cruccio sul volto, quasi fosse lei che gli veniva incontro, la maestra, e non un passante qualsiasi. Gli restituì uno sguardo furtivo e prudente, poi deviò un poco, assicurandosi la giusta distanza, come un cane che si ripara il fianco. Fu allora che Roberto si scoprì a fissare i passanti, in modo incosciente, alienato, senza batter ciglio diluiva il suo sguardo nel rugginoso colore stagionale che avvolgeva le vie del centro. Cercava delle tracce, voleva sapere se anche i loro volti fossero terra calcata dalle affezioni.
Mancava poco al luogo dell’incontro. A breve avrebbe avvistato i platani affacciati dai muraglioni del lungotevere, le fronde come mani scrollate dal vento, e non sapeva ancora cosa le avrebbe detto. Si fermò davanti ad una vetrina a fissare un manichino dal viso levigato ed impassibile. Mica come il suo, pensò, disseminato di indizi a destra e a manca. L’indice aveva preso di nuovo a seguirli ed ora premeva leggermente sulla pelle sbarbata di fresco. Roberto che pedina Roberto.
Le altre dita si unirono al primo ed insieme proseguirono piano verso altri ricordi, impressi su di lui come la mappa di una città alle stazioni metro, i punti di maggiore interesse ben segnati.
Stava per arrivare agli sghignazzi trattenuti sui tavoli della biblioteca dell’università, a quelle lotte contro il muscolo risorio di cui Andrea era il complice favorito, quando, da una parte nascosta del viso, qualcosa aveva scavalcato la successione seguita da Roberto, un salto del tatto, per arrivare direttamente da lui, venirlo a trovare. Proprio lì vicino, tra la palpebra ed il lato della fronte, c’era l’occhiolino accompagnato allo stiracchiamento con cui accarezzava Giulia al risveglio. Guardò l’orologio: le sedici e venti. Eppure, il suo viso se ne infischiava delle lancette e continuava a parlargli del mattino, dei passi di un rituale che solo lui e Giulia conoscevano.
Tentò di lasciarla prigioniera della vetrina ed accelerò il passo. Poco dopo, però, fu lui a forzare quell’espressione, quasi per sincerarsi della propria resistenza. Portò di nuovo il tatto vicino l’occhio, poco dopo l’alba vista dal letto, ed un po’ si cullò nel pensiero che quei giorni fossero ancora lì, che c’era ancora qualcosa di loro. Sentì una fitta di vuoto allo stomaco. Cercò di immaginarsi un “ciao”, ma sentì che suonava fuori luogo. Da qualche parte bisognerà pure cominciare, si disse. Ma cosa? Cosa le avrebbe detto?
– Quando oggi ti ho chiesto se ti andava di fare qualcosa hai risposto che per te faceva lo stesso – aveva detto al parabrezza, il disagio appena riflesso, mentre fuori si affacciava il buio. – Hai detto così o sbaglio? E adesso…
– E adesso te lo dico chiaramente! Non mi va tutto questo gran che – aveva replicato lei, le braccia incrociate ed il mento che si alzava, che puntualizzava. – Ma proprio il cinema non m’ispira stasera.
– Oggi, invece… oggi che sceglievamo il film tutto bene, niente da dire. E stavi lì con me, eh! – ribatté lui, coi pugni che stringevano la gomma dura della stizza e poi la lasciavano andare, scivolare sui palmi, fino al termine della curva. Sapeva che quando portava il discorso sulla coerenza lei si opponeva, ne faceva un fatto di gusti.
– È estate e noi andiamo al cinema, bah! Lo sai che per me il cinema d’estate non ha senso.
– A parte che ormai siamo a settembre… ma se uscisse un capolavoro? Tipo Ultimo tango a Parigi, mettiamo il tre di agosto, quello ti era piaciuto, no? Non andresti a vederlo?
– No, è come quelli che si prendono il gelato d’inverno. Che senso ha? – aveva ribadito, mentre la strada filava sotto il grigioverde annoiato dei suoi occhi.
– E allora viviamo come i pappagalli! — sbottò. – Che quando gli copri la gabbia dormono perché è notte, chissenefrega che ora è, gliela copri e loro dormono! –. Poi aveva indicato il parcheggio illuminato del cinema in lontananza come un’argomentazione inoppugnabile. – Comunque, ormai sai che ti dico? Potevi farti uscire la voce prima.
Lei non proferì parola, mantenne solo la testa inclinata verso la strada che scorreva, lasciandosi scompigliare i capelli dall’aria che entrava dal finestrino. Una delle tante liti, ma quella sera lui non smorzò i toni, non una battuta delle sue o un tentato chiarimento; fissò invece il parabrezza fino al parcheggio per evitare di incrociare i suoi occhi.
Si avvicinava intanto al luogo dell’appuntamento, i platani con il loro fogliame settembrino che gli venivano incontro. Dal ponte poteva vedere alcune zone in cui il rame e l’oro si sdoppiavano sul fiume sottostante. Il Tevere era uguale all’ultima volta che l’aveva visto, la stessa prepotenza con cui trainava il suo carico di residui e sterpaglie strappati chissà dove. Non scese alla prima scalinata. Si avvicinò, invece, alla balaustra in marmo, intravide una donna, i capelli castani, che passeggiava sul selciato sottostante. Guardò il suo passo giocare con l’attesa, ondeggiare tra i fili d’erba che sbucavano tra i sampietrini della banchina. Avanzò piano come quell’estate a casa di Alfredo, di ritorno dalla spiaggia, i pizzichi della salsedine ancora addosso.
– Guarda di sotto – gli aveva detto il cugino col sorriso butterato dei suoi sedici anni. – Mi ringrazierai – aveva aggiunto, scostando le tendine antizanzare della finestra. Quando sbirciò per poco non andò a sbattere il naso contro la grata bianca e lucida. Deglutì senza staccarsi da lì. Capelli bagnati lungo la schiena nuda. La bocca semiaperta ed il fiato mozzato, complice la cornice della finestra sotto lo stomaco. Solo il costume, la parte di sotto, gli disse il respiro e quel qualcosa che gli rimbalzava in gola. Sgranò gli occhi ed un brivido appese i suoi sensi a quella doccia di comodo nel giardino dei vicini. – E lei?! – quasi gridò. – Shhh! – lo ammonì l’altro strattonandolo. – Vuoi farci beccare?
La ragazza si girò, occhi chiusi a cercare l’acqua sul viso, e tanto bastò per farli scattare giù, un dong contro il calorifero, bisbigli tra i denti, frizione ripetuta sulla tempia, rintanati sotto il rettangolo della finestra. Attaccato a mo’ di geco contro il muro, Roberto aveva indicato in alto, come da dietro una trincea, verso quel fuoco che lo aveva sorpreso e gli aveva avvampato la faccia. – Lei! Lei chi è? – sibilò strozzato. Un fuoco contro il quale si sarebbe gettato a braccia aperte. – Che ti dicevo? – fece il cugino, petto in fuori a mo’ di busto celebrativo, aspettando di sentirsi dare del genio, ma Roberto aveva già ingoiato il battito del cuore, si era aggrappato alla cornice della finestra e piano piano spingeva l’orizzonte metallico sotto di sé per farsi travolgere dall’immediato più assoluto dei sensi, una fantasia d’attesa a mescolargli lo stomaco.
Tornò al verde del giardino, al soffuso ronzio dell’acqua, a lei.
Una mano teneva i capelli di lato, premuti sulla spalla, rivelando un accenno delle vertebre del collo, mentre l’altra era già scesa lungo il corpo, lasciandolo indietro a cercare di cogliere la pelle e l’acqua, la mano ed il gesto, per riportarli al movimento, al tatto. Mescolato con l’acqua, il sapone correva giù, dal fianco al ginocchio, fino al piede, formando come una veste sottile.
Ammaliato, Roberto raggiunse la linea slanciata della gamba lucida che saliva verso le mani e con gli occhi si soffermò ad unire i punti della femminilità.
– Ma che fai, Robé? Ti pasticci? – chiese una voce lontana dal sussurro dell’acqua. – Eh? – rispose distratto dalle mani che salivano in un abbraccio e sembravano trattenere il sole, sostando appena nel fremito della pelle bagnata. E così facevano le sue, giocavano al mimo per stringerla a sé. Ma che ne sa Alfredo… – Robé? – lo chiamava. Rozzo com’è che ne capisce. – Ti stai a pasticcia’, Robé – gli ripeteva. – Checcazzo dici? – protestò seccato. – È la retina del costume che mi dà fastidio – disse e rapido distolse lo sguardo, cercando di lasciarlo lì, in quella stanza che per lui era solo finestra.
– Se se… adesso è la retina – rise l’altro e gli diede una spinta.
Roberto non era pronto. Teso in avanti com’era, perse l’equilibrio e si aggrappò alla zanzariera, la tirò a sé, uno scricchiolio, e il bastone che l’ancorava alla finestra venne giù. L’ultima cosa che vide fu il rapido voltarsi della testa, le braccia incrociate al seno per proteggersi dal tonfo sordo che veniva dall’alto. Restarono appiattiti a terra, neanche fossero stati sotto i bombardamenti.
– Guarda che hai combinato… – disse con la voce strozzata Alfredo.
– Sei proprio un coglione! – ribatté Roberto soffocato da un accalorato senso di vergogna.
Roberto visse i giorni successivi con una tensione sfibrante verso la finestra. Bastava un fruscìo d’acqua che subito si girava verso le scale, pronto a farsele a due a due. Ma la comprensione anticipava lo scatto: la zia aveva aperto il rubinetto in cucina. Una consapevolezza che era una lacerazione. Nessuna doccia.
Li aveva scoperti davvero? Questo, più di ogni altra cosa, lo preoccupava. Da parte sua, Alfredo non ne fece più menzione. Era come se quella cosa non fosse mai avvenuta. Perciò non gliene parlò fino alla fine delle vacanze, quando lasciò l’odore dell’estate ancorato a quella finestra.
Ed ora era lì, a guardare da un’altra finestra di tempo. Un’altra ragazza, nel suo cappotto grigio, una donna chiusa in un’elegante abbottonatura laterale lo aspettava ai piedi della solita scalinata, lì dove l’Isola Tiberina è una lingua appena. I capelli castani erano raccolti sulla nuca, di rado l’aveva vista portarli così, però sapeva che le stavano bene. Non avrebbe saputo dire se fosse truccata o se avesse optato per il solito filo di matita e via, come diceva lei.
Guardandola da lì, in alto ed un poco di lato, ricomponeva i dettagli e le abitudini. Non era rimasta solo un’istantanea, un poster nella cameretta della mente, come la ragazza della doccia, eppure qualcosa lo tratteneva lì come uno spettatore. Cosa le avrebbe detto se si fosse voltata? E se anche sul momento avesse trovato le parole, cosa le avrebbe detto domani?
Nel frattempo, il sole rispondeva al richiamo autunnale ed il giallo arancio delle foglie si confondeva con il cielo che iniziava a saturarsi di quel rituale d’obbedienza. Roberto guardava il tramonto e Giulia giù dal ponte per scorgere quella tenera malinconia che fa venire voglia di trovarsi. Il fiume si era tinto di rosso e lui respirò a fondo un paio di volte, quasi dovesse berla tutta quell’acqua infuocata.
Strizzò gli occhi come al mattino, come con lei, che ora non era lì accanto, ma se ne stava di sotto e sembrava non fare caso ai rami incastrati nella corrente, un poco a galla un poco affondati, sui quali l’acqua passava senza che potesse scansarli, senza evitare di restarne incisa. Il sole del tramonto lo aveva sorpreso senza occhiali. Non era il mattino e non era quella casa, eppure dei fili invisibili stavano muovendo gli stessi passi sul suo volto. Roberto li trovò lì sul viso e fece un passo indietro. Dietro il marmo del ponte emergeva ancora una testolina di donna, i capelli tirati su, raccolti nell’insolito chignon. Un altro passo indietro e la figura sottile, un’ombra al calar del sole, s’incise tra le colonne del parapetto.
Si voltò ed un’espressione muta gli restò dentro. Guardò davanti a sé, oltre il ponte, ed era già troppo in là coi passi per tornare a prenderla.