I passi sul volto | Valerio Russo

Camminava, le mani nella tasca del cappotto, e intanto ripensava alla telefonata del giorno prima. Durante quella breve conversazione, Roberto aveva anche considerato l’ipotesi che dall’altra parte non ci fosse la Giulia che aveva negli occhi del pensiero, ma un’incognita data dalla somma delle contingenze e della variabile tempo nella parentesi aperta dalla distanza. Potrebbe essere ingrassata, la serata pantofole, patatine e film moltiplicata per sette. O forse potrebbe aver deciso di tingersi i capelli di rosa, stavolta per davvero. Un’altra Giulia, una consapevolezza da donna dietro quei suoi occhi grigioverdi. Persino la voce all’inizio non gli era neanche sembrata la sua.
– Roberto? – si sentì chiamare per la seconda volta, tra l’eco del silenzio e la risposta rimasta così, incollata alla bocca. L’aveva riconosciuta appena in tempo, indugiando su quel qualcosa di nuovo, le parole generosamente distese che rimanevano un po’ nel ricevitore. Non la solita Giulia, breve ed interrogativa che ti pressava per la risposta, ma una Giulia che quasi si abbandona ai silenzi.
– Sei in pausa? Non volevo disturbarti – gli aveva detto lei. Allontanata un poco la cornetta, l’aveva guardata come si farebbe con qualcosa che ci si stupisce di avere tra le mani. Non un cliente, una voce. La sua voce, realizzò, e prese a seguirne le frequenze nuove per farsi raccontare la Giulia di adesso, unirla alla Giulia del ricordo e mandarle avanti in sincrono. Il martello pneumatico di un motorino gli entrò secco nell’orecchio e si allontanò. Gli disse che era in strada e qualche piccolo saltello nel discorso gli suggerì che stava camminando. Immaginò il passo svelto e i suoi anfibi con la riga gialla, slacciati, ovviamente, per toglierseli senza mani quando rientrava. Immaginò l’omino verdebrillante del semaforo che sparisce e lascia il posto a quello del piano di sotto, paralizzato di rosso, mentre le strisce pedonali gli dicevano che se l’era lasciata scappare e che doveva impegnarsi di più se voleva trovare Giulia e ricondurla alla voce che adesso gli chiedeva come stava.
Niente da fare. Quella che aveva in mente, pensò, era piuttosto un’immagine statica, da fototessera. Chissà perché quando pensi le persone fuori dall’effetto mosso dei ricordi, finisci sempre per farlo in maniera essenziale, bidimensionale; un po’ come le teste sulle monete. Si fermò a immaginare il proprio volto impresso sul metallo, tra le mani di Giulia che forse non era Giulia. E se fosse così anche per lei? si domandò, portando la mano all’angolo della bocca per cercare quel solco leggero, un passato da ruga d’espressione che ora tendeva a sostare più a lungo sulla sua pelle, come una firma dell’espressione stessa. Qualcosa con cui la vita gli diceva che era suo e gli apparteneva da quarant’anni.
Le prime volte si era dovuto impegnare per trovarla, quasi una perversione davanti allo specchio; Roberto che spia Roberto prima di spegnere la luce al neon.

Via via quel nuovo tratto aveva acquisito la rilevanza di un elemento architettonico che era sempre stato lì, come un ponte che mette in comunicazione due città, la vecchia e la nuova.

I passi degli anni trascorsi erano lì e qualcuno andava verso lo zigomo attraverso la linea discendente di un broncio dell’asilo; quel posto fatto di grembiuli e pasta dentifricia che incideva i lavatoi. – Possibile, Roberto? – gli faceva la maestra con il libro illustrato in mano. Sullo sfondo di foglie acquerellate della pagina, un uccello sembrava poggiato sul dito ossuto che lo indicava con insistenza. – Eppure, l’abbiamo visto, ti ricordi? –. Poi si guardava sempre attorno con la faccia sorpresa, cercando l’assenso dei grembiuli rosa e azzurri. Lui al centro del circolo non rispondeva. – Non lo riconosci? –  il silenzio gli scendeva sulle guance, il respiro trattenuto sulla bocca, mentre lei faceva di no con la testa. – È un passerotto – diceva sconsolata. Gli altri lo guardavano, lei lo guardava, e lui non capiva. Perché doveva dirglielo se lei lo sapeva già?
E forse aveva in quel momento lo stesso cruccio sul volto, quasi fosse lei che gli veniva incontro, la maestra, e non un passante qualsiasi. Gli restituì uno sguardo furtivo e prudente, poi deviò un poco, assicurandosi la giusta distanza, come un cane che si ripara il fianco. Fu allora che Roberto si scoprì a fissare i passanti, in modo incosciente, alienato, senza batter ciglio diluiva il suo sguardo nel rugginoso colore stagionale che avvolgeva le vie del centro. Cercava delle tracce, voleva sapere se anche i loro volti fossero terra calcata dalle affezioni.
Mancava poco al luogo dell’incontro. A breve avrebbe avvistato i platani affacciati dai muraglioni del lungotevere, le fronde come mani scrollate dal vento, e non sapeva ancora cosa le avrebbe detto. Si fermò davanti ad una vetrina a fissare un manichino dal viso levigato ed impassibile. Mica come il suo, pensò, disseminato di indizi a destra e a manca. L’indice aveva preso di nuovo a seguirli ed ora premeva leggermente sulla pelle sbarbata di fresco. Roberto che pedina Roberto.

Le altre dita si unirono al primo ed insieme proseguirono piano verso altri ricordi, impressi su di lui come la mappa di una città alle stazioni metro, i punti di maggiore interesse ben segnati.

Stava per arrivare agli sghignazzi trattenuti sui tavoli della biblioteca dell’università, a quelle lotte contro il muscolo risorio di cui Andrea era il complice favorito, quando, da una parte nascosta del viso, qualcosa aveva scavalcato la successione seguita da Roberto, un salto del tatto, per arrivare direttamente da lui, venirlo a trovare. Proprio lì vicino, tra la palpebra ed il lato della fronte, c’era l’occhiolino accompagnato allo stiracchiamento con cui accarezzava Giulia al risveglio. Guardò l’orologio: le sedici e venti. Eppure, il suo viso se ne infischiava delle lancette e continuava a parlargli del mattino, dei passi di un rituale che solo lui e Giulia conoscevano.
Tentò di lasciarla prigioniera della vetrina ed accelerò il passo. Poco dopo, però, fu lui a forzare quell’espressione, quasi per sincerarsi della propria resistenza. Portò di nuovo il tatto vicino l’occhio, poco dopo l’alba vista dal letto, ed un po’ si cullò nel pensiero che quei giorni fossero ancora lì, che c’era ancora qualcosa di loro. Sentì una fitta di vuoto allo stomaco. Cercò di immaginarsi un “ciao”, ma sentì che suonava fuori luogo. Da qualche parte bisognerà pure cominciare, si disse. Ma cosa? Cosa le avrebbe detto?
Quando oggi ti ho chiesto se ti andava di fare qualcosa hai risposto che per te faceva lo stesso – aveva detto al parabrezza, il disagio appena riflesso, mentre fuori si affacciava il buio. – Hai detto così o sbaglio? E adesso…
– E adesso te lo dico chiaramente! Non mi va tutto questo gran che – aveva replicato lei, le braccia incrociate ed il mento che si alzava, che puntualizzava. – Ma proprio il cinema non m’ispira stasera.
– Oggi, invece… oggi che sceglievamo il film tutto bene, niente da dire. E stavi lì con me, eh! – ribatté lui, coi pugni che stringevano la gomma dura della stizza e poi la lasciavano andare, scivolare sui palmi, fino al termine della curva. Sapeva che quando portava il discorso sulla coerenza lei si opponeva, ne faceva un fatto di gusti.  
– È estate e noi andiamo al cinema, bah! Lo sai che per me il cinema d’estate non ha senso.
– A parte che ormai siamo a settembre… ma se uscisse un capolavoro? Tipo Ultimo tango a Parigi, mettiamo il tre di agosto, quello ti era piaciuto, no? Non andresti a vederlo?
– No, è come quelli che si prendono il gelato d’inverno. Che senso ha? – aveva ribadito, mentre la strada filava sotto il grigioverde annoiato dei suoi occhi.
– E allora viviamo come i pappagalli! — sbottò. – Che quando gli copri la gabbia dormono perché è notte, chissenefrega che ora è, gliela copri e loro dormono! –. Poi aveva indicato il parcheggio illuminato del cinema in lontananza come un’argomentazione inoppugnabile. – Comunque, ormai sai che ti dico? Potevi farti uscire la voce prima.
Lei non proferì parola, mantenne solo la testa inclinata verso la strada che scorreva, lasciandosi scompigliare i capelli dall’aria che entrava dal finestrino. Una delle tante liti, ma quella sera lui non smorzò i toni, non una battuta delle sue o un tentato chiarimento; fissò invece il parabrezza fino al parcheggio per evitare di incrociare i suoi occhi.

Si avvicinava intanto al luogo dell’appuntamento, i platani con il loro fogliame settembrino che gli venivano incontro. Dal ponte poteva vedere alcune zone in cui il rame e l’oro si sdoppiavano sul fiume sottostante. Il Tevere era uguale all’ultima volta che l’aveva visto, la stessa prepotenza con cui trainava il suo carico di residui e sterpaglie strappati chissà dove. Non scese alla prima scalinata. Si avvicinò, invece, alla balaustra in marmo, intravide una donna, i capelli castani, che passeggiava sul selciato sottostante. Guardò il suo passo giocare con l’attesa, ondeggiare tra i fili d’erba che sbucavano tra i sampietrini della banchina. Avanzò piano come quell’estate a casa di Alfredo, di ritorno dalla spiaggia, i pizzichi della salsedine ancora addosso.  
– Guarda di sotto – gli aveva detto il cugino col sorriso butterato dei suoi sedici anni. – Mi ringrazierai – aveva aggiunto, scostando le tendine antizanzare della finestra. Quando sbirciò per poco non andò a sbattere il naso contro la grata bianca e lucida. Deglutì senza staccarsi da lì. Capelli bagnati lungo la schiena nuda. La bocca semiaperta ed il fiato mozzato, complice la cornice della finestra sotto lo stomaco. Solo il costume, la parte di sotto, gli disse il respiro e quel qualcosa che gli rimbalzava in gola. Sgranò gli occhi ed un brivido appese i suoi sensi a quella doccia di comodo nel giardino dei vicini. – E lei?! –  quasi gridò. – Shhh! –  lo ammonì l’altro strattonandolo. – Vuoi farci beccare?
La ragazza si girò, occhi chiusi a cercare l’acqua sul viso, e tanto bastò per farli scattare giù, un dong contro il calorifero, bisbigli tra i denti, frizione ripetuta sulla tempia, rintanati sotto il rettangolo della finestra. Attaccato a mo’ di geco contro il muro, Roberto aveva indicato in alto, come da dietro una trincea, verso quel fuoco che lo aveva sorpreso e gli aveva avvampato la faccia. – Lei! Lei chi è? –  sibilò strozzato. Un fuoco contro il quale si sarebbe gettato a braccia aperte. – Che ti dicevo? – fece il cugino, petto in fuori a mo’ di busto celebrativo, aspettando di sentirsi dare del genio, ma Roberto aveva già ingoiato il battito del cuore, si era aggrappato alla cornice della finestra e piano piano spingeva l’orizzonte metallico sotto di sé per farsi travolgere dall’immediato più assoluto dei sensi, una fantasia d’attesa a mescolargli lo stomaco.
Tornò al verde del giardino, al soffuso ronzio dell’acqua, a lei.
Una mano teneva i capelli di lato, premuti sulla spalla, rivelando un accenno delle vertebre del collo, mentre l’altra era già scesa lungo il corpo, lasciandolo indietro a cercare di cogliere la pelle e l’acqua, la mano ed il gesto, per riportarli al movimento, al tatto. Mescolato con l’acqua, il sapone correva giù, dal fianco al ginocchio, fino al piede, formando come una veste sottile.

Ammaliato, Roberto raggiunse la linea slanciata della gamba lucida che saliva verso le mani e con gli occhi si soffermò ad unire i punti della femminilità.

– Ma che fai, Robé? Ti pasticci? – chiese una voce lontana dal sussurro dell’acqua. – Eh? – rispose distratto dalle mani che salivano in un abbraccio e sembravano trattenere il sole, sostando appena nel fremito della pelle bagnata. E così facevano le sue, giocavano al mimo per stringerla a sé. Ma che ne sa Alfredo… – Robé? – lo chiamava. Rozzo com’è che ne capisce. – Ti stai a pasticcia’, Robé – gli ripeteva. – Checcazzo dici? – protestò seccato. – È la retina del costume che mi dà fastidio – disse e rapido distolse lo sguardo, cercando di lasciarlo lì, in quella stanza che per lui era solo finestra.
– Se se… adesso è la retina – rise l’altro e gli diede una spinta.
Roberto non era pronto. Teso in avanti com’era, perse l’equilibrio e si aggrappò alla zanzariera, la tirò a sé, uno scricchiolio, e il bastone che l’ancorava alla finestra venne giù. L’ultima cosa che vide fu il rapido voltarsi della testa, le braccia incrociate al seno per proteggersi dal tonfo sordo che veniva dall’alto. Restarono appiattiti a terra, neanche fossero stati sotto i bombardamenti.
– Guarda che hai combinato… – disse con la voce strozzata Alfredo.
– Sei proprio un coglione! – ribatté Roberto soffocato da un accalorato senso di vergogna.
Roberto visse i giorni successivi con una tensione sfibrante verso la finestra. Bastava un fruscìo d’acqua che subito si girava verso le scale, pronto a farsele a due a due. Ma la comprensione anticipava lo scatto: la zia aveva aperto il rubinetto in cucina. Una consapevolezza che era una lacerazione. Nessuna doccia.
Li aveva scoperti davvero? Questo, più di ogni altra cosa, lo preoccupava. Da parte sua, Alfredo non ne fece più menzione. Era come se quella cosa non fosse mai avvenuta. Perciò non gliene parlò fino alla fine delle vacanze, quando lasciò l’odore dell’estate ancorato a quella finestra.
Ed ora era lì, a guardare da un’altra finestra di tempo. Un’altra ragazza, nel suo cappotto grigio, una donna chiusa in un’elegante abbottonatura laterale lo aspettava ai piedi della solita scalinata, lì dove l’Isola Tiberina è una lingua appena. I capelli castani erano raccolti sulla nuca, di rado l’aveva vista portarli così, però sapeva che le stavano bene. Non avrebbe saputo dire se fosse truccata o se avesse optato per il solito filo di matita e via, come diceva lei.
Guardandola da lì, in alto ed un poco di lato, ricomponeva i dettagli e le abitudini. Non era rimasta solo un’istantanea, un poster nella cameretta della mente, come la ragazza della doccia, eppure qualcosa lo tratteneva lì come uno spettatore. Cosa le avrebbe detto se si fosse voltata? E se anche sul momento avesse trovato le parole, cosa le avrebbe detto domani?
Nel frattempo, il sole rispondeva al richiamo autunnale ed il giallo arancio delle foglie si confondeva con il cielo che iniziava a saturarsi di quel rituale d’obbedienza. Roberto guardava il tramonto e Giulia giù dal ponte per scorgere quella tenera malinconia che fa venire voglia di trovarsi. Il fiume si era tinto di rosso e lui respirò a fondo un paio di volte, quasi dovesse berla tutta quell’acqua infuocata.
Strizzò gli occhi come al mattino, come con lei, che ora non era lì accanto, ma se ne stava di sotto e sembrava non fare caso ai rami incastrati nella corrente, un poco a galla un poco affondati, sui quali l’acqua passava senza che potesse scansarli, senza evitare di restarne incisa. Il sole del tramonto lo aveva sorpreso senza occhiali. Non era il mattino e non era quella casa, eppure dei fili invisibili stavano muovendo gli stessi passi sul suo volto. Roberto li trovò lì sul viso e fece un passo indietro. Dietro il marmo del ponte emergeva ancora una testolina di donna, i capelli tirati su, raccolti nell’insolito chignon. Un altro passo indietro e la figura sottile, un’ombra al calar del sole, s’incise tra le colonne del parapetto.
Si voltò ed un’espressione muta gli restò dentro. Guardò davanti a sé, oltre il ponte, ed era già troppo in là coi passi per tornare a prenderla.

Illustrazione di Katherine Lam

Il riposo e il ritorno

La ragazzina accosta il piccolo specchio al viso, ma per un istante non vede niente. Per un istante soltanto.

Danilo Kiš

Quando Diego mostrò di dominare l’arte della lettura – decifrò un cartello discriminatorio nei confronti della sua etnia affisso su un balcone, di fronte al suo appartamento – suo nonno gli intimò di seguirlo in cantina. Diego aveva otto anni.
Attraversarono il cortile di fretta. Suo nonno lo tirava per la mano col braccio buono, biascicando in una lingua che Diego riconosceva, ma che non capiva del tutto. Era la lingua delle canzoni che la madre gli cantava prima che morisse. Ancora allora, quando udiva le parole “nodo” – o “fiocco” – e “sposa” – o “alleanza” – reagiva in modo scomposto: si attivava una melancolia che sfociava in pianto, in raptus violenti o in un misto di entrambi. Suo nonno armeggiò a lungo con le chiavi, guardandosi attorno e misurando ogni gesto, prima di riuscire ad aprire il cancello che portava allo scantinato. Diego era emozionato e attese in silenzio. Il mazzo di chiavi del nonno contava 36 esemplari: quando il bambino, tre anni prima, riuscì a contarle tutte, pensò di essere arrivato ai confini del mondo.

Suo nonno armeggiò a lungo con le chiavi, guardandosi attorno e misurando ogni gesto, prima di riuscire ad aprire il cancello che portava allo scantinato.

Dopo aver alzato e spostato con una mano sola, impedendo a Diego di toccare gli oggetti stipati in cantina – 21 scatole ripiene di scarpe, lacci, suole di cuoio e di gomma, creme, grassi e unguenti, 3 valigie e un vaso di metallo – il nonno impugnò infine uno scrigno. Riprese a scrutare il mazzo come una palla di vetro, ricurvo per evitare di battere la testa contro il soffitto di legno. Fu Diego allora a indicargli la chiave giusta. Il nonno aprì lo scrigno ed estrasse un libro. Disse: «Prendilo, ma non leggerlo subito. Ti apparterrà dal giorno della mia morte, per ora è ancora legato a me. Prometti».
Diego promise. Suo nonno mormorò una serie incomprensibile ma ben ponderata di suoni. Disse, come pensando ad alta voce: «Non c’è bisogno d’altro, siamo sangue dello stesso sangue».
Diego mantenne la promessa: portò il libro con sé ovunque, nello zaino o nella tasca della giacca di velluto. Operò tuttavia una stima del numero di pagine: 236. Non si discostò di molto dal vero, almeno all’inizio. Diego non avrebbe fatto il calzolaio come il nonno, questo era certo; sua zia ne era pienamente consapevole.

Fu Diego allora a indicargli la chiave giusta. Il nonno aprì lo scrigno ed estrasse un libro.

Una settimana dopo, il nonno morì. Quando il bambino, poche ore dopo il decesso, le chiese di avere in custodia anche il mazzo di chiavi del defunto, lei gli rispose che non era importante.
Vennero soltanto due famiglie a fare le condoglianze, il medico stesso sbrigò la pratica in fretta. «È il tumore al fegato, signora. Suo fratello gli è già sopravvissuto troppo a lungo». Quando la zia gli offrì una fetta di un rustico a base di pesce azzurro e cavolfiore, tipico della sua etnia, il dottore ritrasse le mani per sfuggire al contatto e filò via.
Lo legarono con lo spago a un tavolo di legno di pino, lo coprirono fino al collo con un lenzuolo imbevuto di acquavite; a mezzanotte lo trascinarono sulla sponda del fiume. Diego sentiva, pur non vedendoli, gli sguardi dei vicini sfiorargli le spalle – ogni volta che si voltava indietro, gli sguardi sparivano. Prima di dargli fuoco e spingerlo alla deriva, sua sorella si inginocchiò sul cadavere, sollevò il panno per baciare gli occhi e formulò una preghiera. Diego si limitò a ripetere la chiusa senza capire; la parola che tradizionalmente indicava il riposo e il ritorno gli suonò familiare.

Quella sera la zia fu particolarmente prodiga di attenzioni. Gli cucinò una zuppa di funghi, gli carezzò la nuca e gli permise due dita di vino rosso allungato con acqua. Diego consumò il pasto di fretta. Il vino lo disgustò e poi lo inebriò: quando si mise in piedi ebbe l’impressione che il mondo gli girasse intorno – gli parve di vedere, con la coda dell’occhio, il sorriso di sua zia allungarsi e coprire il suo intero campo visivo. Poggiò una mano sul tavolo e l’ordine tornò a imporsi. Baciò la zia sulla guancia come ogni sera e corse in camera. Il libro era rilegato all’antica, aveva una copertina rigida nera, non riportava titolo. Per prima cosa lo aprì all’ultima pagina, coprì col palmo il corpo del testo e si concentrò sulle cifre. 244. L’accuratezza della sua stima lo rese felice, tuttavia si promise di fare meglio in futuro. Si disse che c’era modo di essere più precisi. La prima frase del libro recitava:
“Il nostro popolo è antico come il mondo”.
Pensò, per la prima volta, la figura dell’origine. Il suo spirito analitico lo spinse in un circolo inestricabile. Si addormentò con un nodo allo stomaco.

La prima frase del libro recitava:
“Il nostro popolo è antico come il mondo”.

All’alba suonarono il campanello. Sua zia, che dormiva al piano terra ed era zoppa al piede destro, impiegò qualche minuto per raggiungere la porta e rimase a lungo a discutere, sull’uscio, con le forze dell’ordine. Diego fu svegliato da un grido della donna nella sua lingua e si affrettò alla porta in pigiama. Aveva il libro tra le mani. Quando la zia lo vide, richiuse l’uscio per un momento e lo fulminò con lo sguardo. Diego corse a nascondere il libro sotto il cuscino.
Era un ordine di sfratto.
«Ma è casa nostra!» obbiettò Diego, sconcertato dall’apparente assenza di logica da parte delle autorità.
«Vogliono costruire un ponte» fece la zia, «scommetto che cacceranno soltanto noi».
Diego si rifugiò nel grembo della vecchia e pianse. Disse: «Se ci fosse ancora il nonno…»
«Ora ci sei tu». Aggiunse: «Non disperare, non è la prima volta. Questa casa è una compensazione da parte della comunità per un delitto che alcuni dei suoi membri hanno compiuto. Ora ritengono il debito estinto, ma tutto ritorna e niente si estingue. Troveremo un altro posto dove stare».
Avevano un mese per andare via. La zia s’industriò perché uno dei vicini – una delle due famiglie che era venuta a dare l’estremo saluto al nonno – li accogliesse per qualche tempo nel loro fienile. Avrebbero avuto un letto, un lavandino e un fornello. Quella mattina, mentre la zia puliva e impacchettava gli averi di famiglia, Diego si rifiutò di andare a scuola. Chiuse le imposte delle finestre, accese la lampada sul comodino e si stese sul letto. Sfilò il libro da sotto il cuscino, lo osservò con curiosità e sospetto – gli sembrava più grosso. Ripeté la stima e la controprova: lo aprì all’ultima pagina, poggiò il palmo sul corpo del testo e lesse la cifra: 252. Fu sconvolto ma non gridò. Si disse che il vino, la sera prima, l’aveva annebbiato. Si promise di ricontrollare a intervalli regolari per esserne certo. Annotò su un quaderno:

252:9=28

Se avesse letto nove pagine al giorno, sarebbe riuscito a finirlo prima di traslocare nel fienile dei vicini. Si immerse nel libro – non si staccò prima di aver terminato il numero di pagine che si era assegnato per quel giorno. Pensò che, leggendo giorno e notte, avrebbe potuto dimezzare la durata della lettura. Le pagine 1-9 (non andò oltre, nonostante l’ultimo capoverso della nona pagina finisse nella decima) raccontavano la prima persecuzione. Si specificava nel libro:
“la prima di cui vi sia notizia”.
2652 anni prima un uomo della sua etnia si recò per la prima volta sulle sponde del fiume in cui Diego e sua zia ora vivevano, come guaritore. La comunità era affetta da pestilenza e il suo avo riuscì a mondarla. Eresse altari senza nome – un altare ogni sette defunti a causa del morbo. Quando si accorse che mancava un defunto per raggiungere il multiplo esatto di sette, risolse di uccidere l’ambasciatore della comunità che lo accoglieva. Una settimana dopo, il morbo era estinto e il suo avo ricevette i più grandi onori, tra cui un vaso di ferro intarsiato d’oro. Quando decise di ripartire, un mese lunare dopo il suo arrivo nei pressi del fiume, le milizie della città gli tesero un’imboscata. Lo attesero all’ingresso del bosco, nascosti tra le siepi; lo sgozzarono; raccolsero il sangue nel vaso, che riconsegnarono, ricolmo del siero, al capo della comunità; diedero fuoco al corpo e lo lanciarono alla deriva nel fiume. Questa, si dice nel libro, fu l’unica pratica che i suoi avi appresero dagli autoctoni, e la ripeterono sempre da allora con ognuno dei propri membri.

Quando Diego scese in salone per pranzo trovò la zia particolarmente energica. Si muoveva tra la cucina e il tavolo con un’agilità e una precisione mai viste prima. Mangiarono un crudo di pesce d’acqua dolce innaffiato di vino bianco, poi la zia si congedò.
Diego tornò in camera. Inebriato dal vino, dimenticò di verificare la taglia del libro. Apprese, nella seconda persecuzione, che l’appartenenza alla sua etnia si trasmette unicamente per parte di madre. Quando i suoi avi tornarono sulla sponda del fiume, la comunità autoctona sterminò tutti i maschi ritenendo, a torto, di aver estirpato il seme del suo popolo dal mondo.
L’urlo inconfondibile della zia interruppe la lettura. Sbirciando dalla finestra Diego si accorse di un assembramento per strada. Posò il libro sotto il cuscino, raccolse un coltello in salone e corse fuori.
Vide un cerchio folto di persone. Si fece spazio a spallate, sgusciò tra le gambe degli adulti e ne raggiunse il centro. L’uomo che gli aveva offerto ospitalità, Jeremias, era legato a una sedia e la zia, nuda, gli stava di fronte, tenuta per le spalle da due uomini. Un autoctono sfilò i pantaloni a Jeremias e la zia si abbassò su di lui per prendergli il pene tra le mani. Diego non comprese la natura dell’umiliazione, la zia gli parve ringiovanita e bella. Brandì il coltello correndo e colpì Jeremias sotto la guancia, poi all’altezza dell’orecchio. Tre autoctoni gli piombarono addosso, lo colpirono in faccia per calmarlo, gettarono via il coltello nel fiume. Decisero di non ucciderli ma di bandirli, di nuovo, per sempre. Gli diedero tempo fino all’alba per andare via.
Rientrati in casa la zia, nuda e imbrattata di sangue, lo abbracciò. Si lavarono insieme. La zia prese tra le mani il pene infantile di Diego, lo agitò leggermente – vide il glande ingrossarsi appena, lo accarezzò e lo lasciò andare. Diede un bacio sulla fronte del bimbo e disse, nella sua lingua, una frase che Diego interpretò come “è troppo presto”.

Partirono all’alba. Diego aiutò la zia a caricare su un carro gli averi di famiglia. Portarono anche un cesto ripieno di conserve e una damigiana di vino. Si accamparono nel bosco dopo dieci ore di marcia. La zia crollò stremata, distesa in un sacco a pelo ai piedi di un albero. Diego estrasse il libro dallo zaino e lo aprì all’ultima pagina. Prima di controllare la cifra disse senza tentennamenti: 256. Sbagliò di poco. Prese a sfogliare il libro a ritroso e fu colpito da un capitolo, il quart’ultimo, il cui titolo era anche il nome di sua madre.
“Iris sposò un autoctono. Il frutto della loro unione è Diego”.
Diego apprese che la casa in cui aveva abitato fino al giorno prima era una donazione della comunità per compensare la viltà con cui il padre, una notte d’estate, soffocò la moglie, sua madre, con un cuscino. I giudici stabilirono che il padre commise il reato spinto dalla promessa di terzi di saldare ogni suo debito di gioco. Il tribunale non riuscì a risalire ai mandanti e archiviò il caso assegnando alla famiglia di Diego, dell’età di quattro anni all’epoca, un appartamento in un lotto di case popolari in zona fiume. Un ordinamento speciale garantiva alla famiglia di Diego gli stessi diritti degli autoctoni fino all’estinzione del debito. Il libro diceva anche che il padre acconsentì e assistette allo stupro della moglie per parte di terzi, prima di toglierle l’aria.
Diego alzò gli occhi sconvolto e vide, al suo fianco, sua zia distesa. Le si avvicinò per sfiorarle la fronte, dove ricordava addensarsi le rughe, e scoprì la sua pelle soffice, liscia. I suoi capelli sembravano colorarsi di rosso rame. Con un gesto la cui preparazione gli sfuggì, le liberò con la destra le gambe dal sacco a pelo e le fu addosso. Sentiva una fitta sconosciuta tirarlo verso il basso. Senza aprire gli occhi, la zia lo indirizzò nella sua vagina con la mano.
Al risveglio trovò la donna intenta a pescare. Si allontanò, si spogliò e si gettò in acqua. Di ritorno all’accampamento, prese di nuovo il libro tra le mani. Ora contava 280 pagine. Tentò di calcolare, intuitivamente, il tempo che avrebbe impiegato a finirlo, considerando il tasso medio di crescita del libro e il suo ritmo di lettura: finì in un paradosso.

Trascorsero tre settimane di grande calma. Pescavano all’alba. Costruirono un riparo per la pioggia con muschio e assi di legno. La sera facevano l’amore distesi accanto al fuoco. La zia, ora appena matura, bellissima, gli spiegò che gli autoctoni li avevano graziati perché pensavano non potessero più riprodursi. Gli disse anche, all’orecchio, che era ancora troppo giovane per fecondarla ma che avrebbe potuto continuare a provarci.
Il penultimo capitolo del libro si chiamava Hubert, come suo nonno. Notò che l’aumento di pagine aveva interessato soltanto l’ultimo capitolo, mentre quello dedicato alla zia Agata, il terz’ultimo, era rimasto intatto. Capì che il tempo è illusorio, che il suo corso è modificabile ma non privo di conseguenze – comprese, senza riuscire a esprimerlo, che inevitabile è solo l’illusione. Al principio della quarta settimana nel bosco, con la scusa dell’approvvigionamento, agì. Raggiunse la comunità di notte. Osservò i movimenti in piazza: identificò un ragazzo di bell’aspetto, alto e forte come il nonno. Lo seguì fin sotto casa, lo stordì con un colpo del manico del coltello alle tempie e lo caricò sul carro. Gli legò i polsi e le caviglie con lo spago, lo imbavagliò con un panno umido. Ricoprì il corpo con un lenzuolo – nel tragitto, lo colpì alla testa a intervalli regolari. Una volta fuori dall’agglomerato urbano, prese a correre con tutte le forze.
Quando lo vide tornare, Agata gli si fece incontro e lo schiaffeggiò. «Come hai osato abbandonarmi?» urlò, «sei figlio di tuo padre o di tua madre?»
Diego le indicò il carro. Le spiegò che doveva essere fecondata prima che la sua regressione lo impedisse. Aggiunse: «Io non sono ancora in grado», e si sfiorò i testicoli. «Lo sarò forse tra tre anni, ma sarà troppo tardi».
Scaricarono insieme il corpo del giovane dal carro, gli gettarono acqua di fiume sul volto. Era biondo, aveva un principio di barba sul mento. Agata sorrise mentre lo spogliava e lo lavava. Diego osservò quel pene adulto indurirsi e sentì, per la prima volta, il peso del corso degli eventi. Il ragazzo era intontito ma non oppose resistenza: Agata gli si sedette sopra e lui si lasciò avviluppare. Fecero l’amore due volte di notte e una volta all’alba, per sicurezza. Tra l’una e l’altra seduta il ragazzo fu ubriacato e colpito ancora alla testa. Dopo l’ultimo spruzzo, Diego dispose il vaso di ferro intarsiato d’oro a fianco del giovane e lo sgozzò.

Non esistono paradossi, pensò, solo illusioni e calcoli imprecisi.

Nel pomeriggio Diego si mise a indugiare tra gli strumenti del nonno. In un sacco di tela intravide il suo mazzo di chiavi: lo prese tra le mani come assaporandolo, poi lo lasciò cadere. Afferrò il libro e si diresse da Agata. Le disse: «Questo libro apparterrà al frutto del tuo ventre dal momento della mia morte. Non gli permetterai di aprirlo finché non avrà imparato a leggere. Tu che sei la madre, prometti».
Agata scoppiò a piangere. Disse: «Non devi. Possiamo vivere insieme. Non lasciarmi sola». Diego pronunciò la parola che associava al riposo e al ritorno guardando la zia negli occhi. Disse: «Il libro ha cessato di crescere, sono arrivato all’ultima pagina». Non esistono paradossi, pensò, solo illusioni e calcoli imprecisi. Aggiunse: «Spero che sia femmina». Agata promise, Diego le accarezzò la guancia e si stese sul tavolo di legno.
Sentì le fiamme impossessarsi del lenzuolo mentre andava alla deriva, si figurò il picco della curva che la temperatura andava disegnando. Si sorprese a cantare, in una lingua che appena riconosceva, le canzoni della madre. Si tastò i genitali con le dita legate intorno alle cosce – gli sembrò di essere cresciuto, invecchiato di colpo.

Immagine di Vittorio Ciccarelli