Madrigale

La chiave di lettura di Madrigale è molteplice: come gli antichi madrigali, non solo rappresenta un’elaborazione a più voci – in questo caso tre – che si alternano su coinvolgenti polifonie; ma è anche idealmente prodotto di una macchina. Il disco ci conduce attraverso una grande burrasca di sensazioni, ricordi, luoghi legati indissolubilmente all’archetipo della madre, delineando tre fasi: conflitto, abbandono e riconciliazione.

Cosa resta delle madri, dei figli e delle figlie, una volta smascherate le fattezze dell’asservimento della famiglia tradizionale alla produzione capitalista? E cosa rimarrà dell’essere umano, una volta repressa ogni capacità desiderante dell’individuo?

Un’odissea verso l’impersonalità del macchinario. Un’impersonalità talmente pervasiva da entrare nell’esperienza collettiva. È nell’esercizio totalizzante del desiderio che le nostre individualità sono messe al mondo per la prima volta. Una macchina liquida, non duale, senza organi, dentro la quale macchine minori sviluppano desideri e di questi si nutrono, arricchendo la nave madre con sogni e speranze che da essa vengono arricchite a loro volta. Allora la macchina mischia le voci e i traumi preesistenti, li abbraccia, li mescola in sé e li ripartorisce in una nuova, inaspettata forma.

La chiave di lettura di Madrigale è infatti molteplice: come gli antichi madrigali, non solo rappresenta un’elaborazione a più voci – in questo caso tre – che si alternano sugli arrangiamenti della chitarrista Ilaria Lemmo, realizzando coinvolgenti polifonie; ma è anche idealmente prodotto di una macchina, e da essa riorganizzato e generato. All’ascolto, nel suo sferragliare dolce, distorto come un’overdriven eppure malinconico, emotivo, amaro, il disco ci conduce attraverso una grande burrasca di sensazioni, ricordi, luoghi del trauma legati indissolubilmente all’archetipo della madre.

Nelle prime due tracce, la società è messa in discussione dalle orde di figli non voluti che ad essa tentano di tornare disperatamente.
In Ventimiglia, testo di Elena Cappai Bonanni a più voci, il tema del disagio sociale è affrontato liricamente e “a denti stretti”. Anche se la casa, un tempo luogo di protezione, adesso non ha più il tetto e lascia i suoi abitanti all’addiaccio, si delinea un più potente rifugio nella lotta e nel continuo rimando ad essa, segno che custodisce la possibilità di un cambio di paradigma. Lotta di classe, dunque, e istanza di liberazione, come vedremo in seguito, dalle categorie sessuali verso una nuova idea di genere, che superi il maschile e il femminile.

Anna al Mercato Centrale, il cui testo è un cut-up dei tre autori con voce di Chiara De Cillis, presentata anche da un arguto videoclip, affronta il tema della gentrification quale mammona borghese che tenta di rimuovere una più selvaggia, povera e verace madre originaria. Qui è il latte che proviene dal seno cattivo, per citare Melanie Klein, nella fiera opulenta e bulimica di cibo, ad essere rigettato dai conati dei poveri. La luce è indirizzata a quella zona d’ombra sempre calpestabile, evidenza della lotta mai terminata e simbolizzata nella “bomba al mercato centrale”, quello di Porta Palazzo, a Torino, storico punto di snodo delle classi meno abbienti ma sempre più teso, messo alla prova dalla violenza delle politiche private, dalla carenza di welfare.

Questo primo momento del disco, più ribelle e socialmente attivo, è seguito da una ritorsione emotiva delle voci liriche. La madre non è più il mondo sociale dalle cui braccia di cemento grezzo si è caduti. La madre adesso è la lacaniana madre del segno, la figura dal cui viso bimbe e bimbi suggono un’identità, una sicurezza, una forza o – più probabilmente – un trauma, un’incomprensione, un dubbio, un dramma. Negli ultimi tre momenti del disco questa madre è affrontata, digerita nell’abbandono e infine ricostruita nella riconciliazione e nel superamento della dialettica madre/figli.

In Certificati d’Esistenza per Animi Incendiari, testo e voce di Davide Galipò, traduzione e seconda voce di Elena Cappai Bonanni, si mette in luce un tenace conflitto con la figura materna, che rende il seme confuso e il sesso vagabondo. Il piacere si fraintende con il dolore, generando un “perenne, farabutto coito erosionale interrotto”. In questa difficile “uccisione” della madre, che permane tra le righe, l’erede non è più degno, il suo coito non è più piacevole. Nemmeno l’arte costituisce, in quest’ottica, un’impalcatura dove creazione, contestazione e invocazione riescono ancora a coesistere: “L’arte è un cadavere e noi celebriamo il suo funerale.” È così che la rivolta di quest’animo incendiario, forte di una ferita tale da riportarci all’ustione della vita, ricompone in sé perdita e perdizione con la sua primigenia volontà di bruciare e il suo rifiuto del mondo classista, cristiano e borghese. Se cade la coroncina, e con essa la capacità di preservare la specie, è perché il nuovo alfa è tutt’altro che auspicabile. Rassegnati al cattivo seme dei lasciati indietro, ci si porta nel cuore il canto delle sirene, il richiamo verso il luogo dove tutto è iniziato e dove tutto finisce, nella totale empatia verso l’altro, raggiunta incenerendo la legge della giungla.

In Moloch, testo e voce di Chiara De Cillis, è invece indagato il tema del sacrificio. Se nella traccia precedente è la via del rifiuto, frustrato ma profetico e indovino, ad essere intrapresa, in questa si canta di un profondo abbandono. È l’abbandono del self alla mercé del dio Vita, che qui ha le fattezze del Moloch, divinità cananaica divoratrice di infanti. La Vita divora la vita, Artemide uccide la cerva, la madre è divorata dal padre e da se stessa e in se stessa genera un frutto che si auto-divora. Tuttavia, Moloch supera l’orizzonte nichilista per brillare di luce propria. Nel frutto, ci svela l’epilogo, c’è qualcosa di nuovo. Non si brinda all’olocausto che si attraversa, ma attraverso di esso, come un Lete di fiamma, si è purificati e nuovi. Un seme di redenzione, una parziale salvezza dalla stirpe e dalle sue lame incandescenti, è scivolato dalla casualità alla terra e adesso può fiorire, rendere capaci ad accettare il latte di un essere diverso da sé. Dal colostro di Thanatos si alimenta la luce di un nuovo sole, capace di unirsi con l’altro nella vita e non nel sacrificio, di superare l’ossessione soffocante delle braccia materne nelle braccia fresche e nuove di un altro mondo inesplorato e vivido, di un’altra riva a cui approdare.

Questa riconciliazione con la propria stirpe è narrata dall’ultima traccia, Matria, di Elena Cappai Bonanni. Già il titolo ci dice qualcosa di profondo: non è più la terra dei padri quella a cui fare ritorno, ma la terra delle madri. Madri redivive nel corpo delle figlie, nei segni lasciati dalla malattia, ereditata come un marchio e percorsa a ritroso. Un ritorno alla madre è, infatti, un ritorno alla verità che tutti siamo stati, un ritorno all’origine, al luogo dal quale il tutto, che adesso cammina e soffre, è sbocciato e si è diramato. La decomposizione della madre è qui ribaltata: la morte è un “reato grave e diffuso”, quasi un mito da superare. Ciò con cui ci si riconcilia è la consapevolezza della trasformazione e del mutamento, scorrendo la luce, accettando la spinta dinastica, che è più una caduta, un precipitare attivo in cui si dà forma all’amore e al dolore nel loro sempiterno compenetrarsi.

Questo mondo emotivo e psicologico, tempestoso e a tratti funesto, è guidato dal paradigma postmoderno della destrutturazione del linguaggio su vari aspetti. All’idea infatti dell’alma mater meccanica, anti-edipica di derivazione deleuziana si affianca una destrutturazione del linguaggio tipicamente postmoderna, che frantuma gli stilemi classici del madrigale ma anche della canzone e della recitazione. Il contrappunto di diversi sistemi linguistici in traduzione (l’alternarsi, ad esempio, di strofe in italiano e strofe in spagnolo, nella traccia Certificati d’Esistenza per Animi Incendiari) o di diversi sistemi semiotici (la presenza di messaggi criptati in codice morse in Ventimiglia) è infatti reso ancora più forte dal cibernetico smantellamento del linguaggio nella tecnica del cut-up, che smonta le individualità che hanno lavorato alla composizione dei testi per fonderle in una nuova, androgina figura artistica. Spellbinder è, infatti, una macchina che porta le vestigia dei suoi costruttori, ma che al contempo è viva e generatrice, al di là dei suoi creatori, del superamento della visione patriarcale e della separazione tra femminile e maschile, genitori e figli, auspicando una nuova, e più matura, umanità.

(Lorenzo Lombardo)

Ventimiglia

…- . -. – .. — .. –. .-.. .. .-

¿Qué haces, mi vida?
Ho perso il ritmo nella marcia.
Apri le braccia apri le braccia
apri le braccia apri le braccia
apri le – Aquí está la salida.

Per preservarmi
dal panico dei passi
portavi avanti
dissertazioni brevi

sulla necessità ginnica
di tacere il battito –
nella lotta, ovunque andassi,
portavi giù le maniche
fino all’orlo: dicevi

“agitarsi è tutta
una questione di polso”:
ci vuole la giusta
inclinazione.

Adesso bevi.

A denti stretti – a denti stretti
avviso    a tutti gli aventi
diritto – a tutti gli aventi
avviso    a tutti –
a viso aperto – a denti stretti
a venti-miglia dal confine
finestre sbattono storte: si dice
siano perquisizioni, profezie
in codice morse;

a denti stretti – a denti stretti
i loro vetri sono stelle cadenti.

No tengas miedo, cariño.
A venti miglia dal confine
non ci sono segni
di colluttazione; non ci sono tetti.

Sai, da laggiù si vedono
tutte le volte celesti;
ricordi tutte le volte
che nel sonno
ci siamo rotti
e redenti?

 

Testi e voci: Davide Galipò, Chiara De Cillis, Elena Cappai Bonanni
Musica e arrangiamenti: Ilaria Lemmo
Sound engineering e master: Alex Brattini
Artwork: Olia Svetlanova