Adesso prendi il viola | Giovanna Cinieri

– Anzitutto c’è il debito d’aria. Lo vedi? C’è l’assenza dell’aria. Gli manca, si vede.
Lei posa la mano sul vetro, cerca l’assenza dell’aria da toccare.
– Poi c’è il passaggio, ma è secondario al debito di vita: il passaggio da una parte all’altra che il corpo compie prima di trasformarsi, prima di essere ciò che è, potenzialmente, già dalla nascita. Voglio dire, è evidente il dolore, è evidente la sofferenza, ma non c’è alcun bisogno di parlare prima di questo – Lei sente il vetro del bancone frigo gelido, freddo come se pochi secondi prima fosse stato bollente.
– Il caos suggerisce immagini, diceva. Tu fallo diventare un lavoro sulle parole. Le parole che ti mancano.
Il bancone frigo è lungo quasi due metri ed alto uno. Dai due sportelli di vetro apribili in verticale, lei vede: pezzi di manzo rosso, carni bianche di coniglio, petti gialli di tacchino. Tranci di agnello con ossa sporgenti, occhi lasciati ancora nelle teste dei polli appesi a un gancio, carne macinata in vaschette di acciaio. Fette di fegato viola, cosce di maiale con ancora la pelle attaccata, e in fondo, su un vassoio luccicante di sangue, due cuori accesi, pieni, come se avessero dentro una polpa speciale, un ingrediente naturale messo lì per renderli così armoniosi, accostabili e tremendi. 

– Quello che devi fare è spostarti dall’immagine alla parola: sei davanti a una serie infinta di scene. Sotto ai tuoi occhi ci sono centinaia di immagini, è la tua memoria, ma sono anche le cose che hai intorno: devi sottrarle. Tutte, una per una. Ci riesci? – Le dita della mano scivolano, il vetro è appannato in corrispondenza della pelle.

– Cosa vi servo? – chiede loro il macellaio, un uomo anziano: camice chiaro, pulito, stirato, cuffietta fermacapelli, occhiali da vista trasparenti, minuscolo sguardo su una vastità che neanche lui conosce, lì sotto le sue mani, selvatica e a pezzi.
– Due fettine da fare in padella – dice lei, ma non guarda il macellaio, guarda con approssimazione i contorni di Livio. Il che vuol dire che lo percorre, lato per lato, ne sente il calore, sente Livio stare nel locale, stare lì fermo, col peso tutto sulla gamba sinistra, in contemplazione delle carni, lo guarda favorendone i confini ma perdendone l’insieme. Quando si avviano verso la porta di uscita, lei con la busta della carne da fare in padella, lui con le chiavi dell’auto già in mano, avverte quel sentore familiare, di cui, però, adesso che è più grande, ha paura.
Come un buco nero che piega la luce, e di quella restituisce solo echi, Maria ha il sentore di riuscire a fare altrettanto con le cose della vita, risucchiarle e farle finire altrove, e di arrivare finanche al piegamento dei campi magnetici quando al posto di avere Livio, avvicina a sé altri uomini, per il solo desiderio di congiungersi con loro, e terminare quel processo che inizia quando crea.
Lo studio dove lavora, e dove da qualche mese dorme, è nel piano ammezzato di una palazzina di via Oberdan. Lei abita al terzo piano di quello stesso palazzo, ma ultimamente non vuole allontanarsi dalla tela. Nello studio, oltre a quella iniziata, ne ha cinque, terminate, non commissionate, eseguite per suo solo volere. Ma sono lavori di un anno fa. Poi Maria si è sospesa. Non è riuscita a fare nulla, finché non ha chiamato Livio al telefono. Una sera di fine marzo lui ha bussato, è entrato nello studio, ha visto le tele posate a terra, ha visto quella nella stanza rettangolare, in fondo alla parete più stretta, lasciata bianca a marcire di nulla.
– Cos’è questo? – le ha chiesto.
Maria è rimasta zitta.
– Quindi è lui.
– Sì, è lui.
– E non sai come fare.
– Non so come fare.
– E pensi che io ti debba aiutare.
– Tu devi.
– Ma non è più come venti anni fa, non dovresti neanche chiedermelo.
– Però tu devi.
– Sai almeno da dove iniziare?
– Non lo so.
– Ma c’hai pensato o non vuoi?
– Non lo so.
– Siediti.
Maria, non avendo un divano nello studio, si è seduta su una sedia pieghevole portata dal piano di sopra. Non si è neanche tolta il cappotto. Livio invece sì. Poi si è accostato a Maria, restando in piedi, si è girato e insieme hanno guardato una tela bianca.
– Quindi è lui.
– Sì, è lui.
– Ora iniziamo.

La mattina dopo hanno iniziato: Livio è tornato con quattro blocchi di fotocopie, alcuni libri e una serie di stampe a colori.
– Come prima cosa: i concetti che ha detto. Devi ripercorrerli, ti servono. Che parole ha usato lui? Per dire se stesso, che cosa ha detto?
Maria guarda tutti quei fogli legati con uno spago.
– Perché ha iniziato a piegarsi? Perché ha iniziato a piegare i corpi?
– Perché doveva farli entrare nelle gabbie.
– E perché aveva bisogno di farli entrare nelle gabbie?
– Perché voleva essere liberato.
– Non voleva essere libero, voleva essere liberato?
– Sì.
– Da chi?
– Non lo so.
– Lo sai.
– Dal padre?
– Non da che cosa. Da chi.
– Dall’amore?

– Dall’amore. Voleva essere liberato dall’amore. Il padre è una cosa, l’amore è una persona.

Maria lo guarda: Livio è un uomo che ha più di cinquant’anni, e negli occhi ancora i giorni che si spartirono, glielo legge a un tratto, come se da qualche parte sul suo volto fosse scritto, come se volesse essere letto, Livio che è fatto di parole cos’altro vorrebbe da Maria, se non questa bocca che pronuncia la elle, la i, la vi, e la parola io che chiude, vorrebbe la bocca di Maria con dentro le parole io che non ha detto allora, le indicazioni del corpo per arrivare davvero a lui, le braccia grosse, le labbra grosse, le mani ruvide, è Maria che sta pensando tutte queste cose, mentre lo guarda in piedi vicino a una tela qualunque, per una copia da fare, ma questa volta non una copia qualunque: la signora Disole le ha commissionato un Bacon e da allora Maria non ha più pace.

Luglio 1995

Lei e Livio sono seduti sotto il portico della villa, le loro madri sono scese in paese a comprare la frutta, la carne, le friselle di orzo e altro cibo da mettere in dispensa, i padri a lavoro nella stessa azienda vinicola di famiglia, i padri fratelli che anni dopo non si sarebbero più parlati per colpa dei figli. I figli Livio e Maria, da soli nella villa, lasciati nel pieno della fiducia, lui più grande, lei distaccata, lui iscritto all’università, lei avrebbe iniziato il liceo a settembre, lui che scende dalle grandi città che visita per tornare al mare con tutti quei nomi di grandi artisti, e che anni dopo avrebbe portato Maria in giro per musei ma solo dopo esserle entrato dentro, ripetutamente, alla fine di quell’estate.
Ed è successo proprio così, che quell’estate si tengono inizialmente più distanti a parlare di sforzo creativo, di processo interiore del dolore, di elaborazione di un’idea, tutte cose che Maria non sa, non capisce e che beve così come Livio gliele presenta, e via via gli si mette più vicina: incrociano i commenti su grandi  temi  all’osservazione dei quadri più famosi, La notte stellata, La dama con l’ermellino, Olympia, la Vocazione di San Matteo, e si leva tra di loro una promessa, una promessa si mette al centro della fronte di entrambi, poi passa intorno ai polsi come un laccio, è la promessa di non dire a nessuno cosa sta accadendo, che più cresce la fame di bellezza, di colori, di tensione, di prospettive, di sguardo, la fame di scene passate, perdute, conservate ancora intatte, la fame che ha portato Maria alle prime notti passate a dipingere, abbandonando il disegno a carbonella; più cresce la fame di unire i loro punti di contatto sparsi nell’aria come stelle invisibili e basse, più Livio le si avvicina accaldato, lentissimo, costante. E le tiene la faccia negli occhi come la frutta nelle ceste dei quadri, una natura morta che non può essere mangiata finché non ci si convince che è vera e può essere afferrata.
È successo il 23 agosto: c’è un enorme catalogo aperto sul letto della stanza dove dormono Livio e suo fratello Giulio, il cugino più piccolo. La doppia pagina è tutta interamente dedicata a Papa Innocenzo X di Velàzquez. Ma Livio fa una cosa inaspettata: anziché parlarle del dipinto del 1650, inizia a farle capire l’enormità di quel ritratto del Papa seduto su un trono di legno dorato a partire da un’ossessione di un altro artista. Non le parla perciò del pittore spagnolo, delle volte in cui visitò l’Italia, di cosa facesse nella sua bottega, dei volti che aveva già ritratto, di come usasse il colore o la luce. Non le dice di Innocenzo X seduto di tre quarti, le braccia posate sul bracciolo del trono, non le dice che Innocenzo X guarda proprio lei, proprio in quel momento e anche da quella pagina di catalogo, le labbra strette, in movimento da fermo, enorme e magnifico. Non le dice che la guarderà per sempre perché così ha voluto Diego de Silva Velàzquez. Le dice invece che c’è Francis Bacon. Così, nel mondo c’è ciò che ha lasciato lui. È morto solo tre anni prima, ma c’è ancora perché ci sono le cose che ha visto. Le dice le cose che Francis Bacon ha visto su Innocenzo X.  Allora Maria va verso l’interruttore della luce: – Se ci sono ancora queste cose che ha visto, se ci sono sempre, le vedremo anche così – e spegne.
– Francis ha tolto il telo rosso, come prima cosa ha mostrato come si può togliere il protagonista di un ritratto e lasciare che si veda ancora più chiaramente nel buio. Ha tolto il telo e ci ha messo il buio, sì. Te lo ricordi? – le dice. Sono nello studio di via Oberdan da sette ore, lui ha salito una cassa d’acqua, lei sta lavorando sul fondo nero, che non è nero davvero, se ne sta lì davanti al nero nel tentativo di accorparlo alla realtà, di renderlo fuori come è dentro, Livio le fa bere l’acqua a cadenza regolare, le mette la bocca della bottiglia in bocca e le dice che sono loro due, lì dentro come fuori, e che se lei restituisce la copia della copia, saranno lì dentro come fuori, per sempre.
Le dice di pensare al padre di Francis, prima di iniziare i contorni.
I contorni: il rumore del coltello nel piatto mentre tagliano la fetta di carne in padella cucinata al piano di sopra e ora sullo sfondo di una stanza vuota, una stanza con quattro carcasse, due morte e due vive, e in fondo la tela con lo sfondo.

La carne masticata fra i denti emette un suono muto, sono i colpi ricevuti da altri corpi, sono le percosse richieste da altri corpi, i colpi affinché si piegassero, ed entrassero infine nella gabbia. Maria comincia a tratteggiare nella sua mente il trono che è fatto di sbarre e che riprodurrà sulla tela. Il debito d’aria ora è ovunque.

– Adesso prendi il viola – gli dice Livio.
Maria chiude gli occhi. Ritorna a quell’estate.
Fra pochi giorni inizierà la nuova scuola, ha scelto il liceo artistico. E Livio partirà. Una serie interminabile di pensieri la rincorrono, solo che lei non vuole farsi trovare. Vuole restare in questa momentanea estraneità al resto dei giorni, vuole restare in quel pezzo di fine stagione dove tutto è già accaduto, e la sera, alle 23, lei e Livio si vedranno nel boschetto lì poco distante dalla villa.
Lei chiederà un bacio sotto la luna, ma lui le dirà di girarsi, lei si accosterà al tronco dell’albero, e lui le alzerà il vestito turchese, e le scosterà le mutandine. E quando lei per attutire i colpi che Livio le darà, poserà una mano sul tronco, lui le stringerà il polso così tanto da farle male, poi lo porterà dietro la schiena, facendole appoggiare la faccia contro l’albero. Adesso prendi il viola.
– Che cos’è che ha ritratto veramente Francis? Qualcosa di unico. Unico e solo. Una grandezza che sovrasta il mondo – dice Francis. Ti ricordi cosa dice? Per ricordarlo devi sottrarre le immagini. Tutte. Francis dice che questo suo essere unico al mondo non serve. E non salva, e non protegge. Non ti protegge dall’inquietudine, non certo dal dolore. Ma non c’è alcun bisogno di parlare prima di questo. Devi trasformarlo in un lavoro sulle parole, quelle che Francis non ha detto, quelle che non ho detto neanche io, quelle che non hai detto neanche tu. E mentre Maria dipinge, ritorna a quell’estate, a quando, fuori la macelleria di Pulsano, era fermo un camioncino aperto, e sette buoi oscillavano scannati. E poi un ragazzo con una maglietta da sgozzatore tutta sporca e consunta aveva sollevato il primo quarto di bue, e lei aveva visto le mani nodose, dure, e aveva desiderato essere toccata da mani così, le mani grandi in cui scivolare e in cui venire. E Livio lì accanto se ne era accorto, che lei era assente, smarrita davanti al camioncino odorante di sangue, lei adorante di cose sinistre e incomprensibili. E più tardi, mentre tutti erano al sabato sera affollato della piazza del Castello, l’aveva fatta sedere sulla scrivania della stanza, le aveva legato entrambi i polsi davanti il ventre, poi le aveva sollevato le cosce.
Che cos’è che ha ritratto veramente Francis? Qualcosa che accade una volta e basta con una potenza che non si può ripetere e il tentativo del ritratto ripetuto da Francis molte volte era lo stesso tentativo dell’amore: non morire adesso, non andare adesso, non sparire adesso, non restare altrove, non disperare da altri mondi, lasciati vedere, apri la bocca e fatti guardare dentro, come dietro, come sopra, come sotto, come adesso, come dopo, come prima.
Che cos’è che ha ritratto veramente Francis, continua a chiedere Livio, e lei dipinge e si assenta, e più si assenta più il dipinto appare. Ed ecco Innocenzo X sulla sedia che è sedia di morte e scatola di vetro, e la contrazione del volto che è la verticale del tempo, il precipitare, l’innalzarsi, il dilaniarsi verso più tensioni restando immobile lì dove tutto deve essere. Queste parole finalmente compaiono.

Il giorno prima che Livio deve partire per l’università, Maria va a dormire da un’amica. Così dice a sua madre, ma solo perché vuole provare cosa si prova ad uscire a cena con il suo ragazzo, che però non è il suo ragazzo, è il figlio di suo zio. Ed è grande e presto avrà altre donne e si dimenticherà di lei. Questo Maria crede. Ma ciò che invece accade è che Livio non troverà Maria da nessun’altra parte, e sarà costretto a rivolgere a lei i pensieri più veri per il resto della vita, ma non può dirglielo a quella cena, davanti a due pizze in un locale sulla spiaggia di Marina di Lizzano. In quel momento ancora non può saperlo. Glielo dirà molti anni dopo, davanti alla riproduzione di un quadro di Francis Bacon da consegnare alla signora Disole alle 17 del pomeriggio.
– L’amore è una persona – inizierà a dirle, stringendole il polso.

Opera di Francis Bacon

Classifica di qualità dei migliori racconti del 2021

Carə neutopistə, l’anno 2021 ha rappresentato per moltə lo strascico dell’anno precedente, ma anche un nuovo modo di approcciarsi alla relazione e alla narrazione tutta: la domanda che sembra sorgere spontanea, da parte di parecchiə, è: cosa diventeremo? Scopriamolo insieme tra lotte arcaiche, partenze e ritorni, polpette yoga, futuri ucronici e automi disforici nella

CLASSIFICA DEGLI INCREDIBILI 10 MIGLIORI RACCONTI DEL 2021
A CURA DI NEUTOPIA MAGAZINE

1. Giovanna Cinieri, Cosa c’è per cena, Neutopia vol. VIII, luglio 2021;
2. Sergio Oricci, *happy* *surprised* *cool* *inlove*, Split, numero 0, settembre 2021;
3. Chiara De Cillis, La rana in pancia, Altri Animali, giugno 2021;
4. Roz Catone, Avernus, Micorrize, dicembre 2021;
5. Simone Lisi, Yoga è una maniera di preparare le polpette, In allarmata radura, dicembre 2021;
6. Clelia Attanasio, La voce, Cronache dall’aldiqua, novembre 2021;
7. Davide Galipò, La gabbia vuota, Neutopia Vol. VII, marzo 2021;
8. Cristiano Caggiula, Narrazione di una catastrofe, UTSANGA, ottobre 2021;
9. Antonio Francesco Perozzi, Nuovissimo blob, Malgrado le mosche, ottobre 2021;
10. Francesco Cane Barca, My mother was a computer, Spore Rivista, ottobre 2021.


I robot erediteranno la terra?
Sì, ma saranno i nostri figli.
(Marvin Minsky)


ILLUSTRAZIONE DI DULCIS DOMUS