L’olfatto umano è una semantica aperta: dopo anni di primato del visivo sul resto dei cinque sensi, la seconda mostra del ciclo La poesia visiva come arte plurisensoriale, quella sull’olfatto, celebra la qualità sinestetica della scrittura verbo-visuale, esponendo opere, tra le altre, di poeti visivi della nuova generazione.
In mostra, oltre a Giovanni Fontana, Sarenco, Arrigo Lora Totino, Lamberto Pignotti, Antonino Bove, Luc Fierens, Cristina Ruffoni, Gino Gini, opere dei giovani Francesco Aprile, Andrea Astolfi, Elena Cappai Bonanni, Giuseppe Calandriello, Nicolò Gugliuzza e del sottoscritto, che risemantizzano il discorso della poesia visiva verso nuovi media, digitali e plastici.
Andrea Astolfi, Blu (2021), ampolla di profumo su cartoncino profumato in pasta blu e carta velina
Il progetto, nato da un’intuizione di Lamberto Pignotti, si chiama Pratiche sinestetiche e vuole porre l’accento sull’assenza di una grammatica specifica per gli odori, per il tatto, per l’udito, per i sapori. Già Des Esseints, nel romanzo A ritroso di Huysmans, aveva immaginato una “semantica degli odori”, o anche Baudelaire, nelle sue Correspondances, che i colori e le sensazioni olfattive si rispondessero in una comunicazione poetica, fino ad arrivare a Jean Baptiste Grenouille, che in Profumo di Patrick Suskind realizza un “catalogo degli aromi” a partire dalle essenze umane.
Davide Galipò, Olfabeto (2021), libro sovrainciso, essenze in boccette di vetro, collage su scatola di fiammiferi
Ma può un profumo evocare un colore, una lettera, un ricordo? Certamente sì, se pensiamo alle Madelaine di Proust nella Recherche. Dal canto suo, la poesia visiva sembra stimolare il gioco di rimandi con il lettore/fruitore, attraverso una provocazione continua, che passa anche dal cambio d’identità: sembra ieri, ma era il 1914, quando Marcel Duchamp, impersonando l’alter ego Rrose Sélavy in una celebre fotografia di Man Ray, diventava ironicamente promoter di una boccetta di profumo, ribattezzata per l’occasione Eau de voilette.
Elena Cappai Bonanni, In.odore di santità(2021), collage su carta e opera digitale
Va in questa direzione la mostra inaugurata lo scorso 6 novembre alla Fondazione Berardelli di Brescia, curata da Alice Valenti dopo il fondamentale apporto di Margot Modonesi; laddove la capacità ricombinatoria dell’immagine – potenzialmente infinita – colma il divario tra la pluralità delle sensazioni olfattive e la scarsità di definizioni per definire un odore nel nostro linguaggio. Un vernissage molto partecipato, che ha visto le performance di Giovanni Fontana, Davide Galipò, Elena Cappai Bonanni, con un live painting di Mister Caos – a ricordare che la poesia contemporanea è anche e soprattutto una pratica, che si agisce nel quotidiano.
Davide Galipò, Mister Caos, Elena Cappai Bonanni durante la performance Olfabeto – In.Odore di Santità
Come afferma Gilda Policastro nel suo saggio L’ultima poesia. Scritture anomale e mutazioni di genere (Mimesis Edizioni, 2021, p. 74), “il reading prende ad essere osteggiato o proscritto da una forma più neutra e impersonale di lettura in pubblico, in favore della cosiddetta installazione”. Più che un profumo o una “messa in scena” degli odori, quello che qui viene messo in campo è il mondo di ricordi, possibilità e suggestioni evocate dall’olfatto, senso che più di ogni altro – come ricordato da Melania Gazzotti nella sua introduzione al catalogo – può riportare alla mente luoghi, battaglie e sensazioni sepolte nella memoria.
Davide Galipò
Foto per gentile concessione della fondazione Berardelli In copertina: Francesco Aprile, Trittico. Eau de poème (2020)
In questi tempi di incertezza, nella poesia italiana sembra essersi delineata una nuova frattura. Assistiamo infatti a un profondo mutamento nella pratica di chi, fino a poco tempo fa, si auto-definiva «poeta performer», ovvero colui o colei annovera, nel suo campo di ricerca, l’esecuzione dal vivo dei propri versi, il più delle volte su un palco, nella maggior parte dei casi riconducibile alla corrente della «poesia orale». Quella corrente che, come riporta Giovanni Fontana nella sua introduzione a Opera di Adriano Spatola[dia•foria, 2020], si serve del corpo per la risoluzione dell’antico quesito: è nata prima la foné o la grafia? Lo stesso Spatola sembra eludere la domanda, affermando: «Le parole racchiudono una casualità semantica che la scrittura soffoca e che la voce esalta. […] I testi poetici da cui parto sono estremamente semplici: si tratta di poesie concrete costruite sul modello del chiasmo, con una evidente volontà di retorica alta.»[1] Se all’interno della ricerca spatoliana verso una poesia totale – non solo orale o da camera – troviamo un dialogo aperto con le avanguardie storiche e un tentativo di fuga dal libro, con il Gruppo 63 e le edizioni del Mulino di Bazzano uniti per creare un’editoria altra rispetto a quella imposta dal mercato, lo stesso non si può dire per i poeti orali e performativi di oggi, che dal mercato attendono solo di essere accolti. Perché? Cercheremo di rispondere, nel corso di questi interventi – che saranno riuniti sotto il titolo esemplificativo di Contro il presenzialismo – e di comprendere le ragioni di questa frattura, sebbene oggi, anno 2021, stiano accorrendo molti degli elementi storici ed estetici utili alla nascita di una nuova tendenza poetica, riconoscibile come avanguardia.
Adriano Spatola, Aviation/aviateur, rivisitazione sonora di Francesco Aprile, video di Simon Christoph Krenn, via [dia•foria
Il «presenzialismo» o dell’attitudine a «presenziare» dei poeti orali
Con il termine «presenzialismo» s’intende l’attitudine contemporanea a recitare un testo interpretandolo e facendolo proprio, in linea con il pensiero del filosofo tedesco Edmund Husserl (1859/1938), per il quale la foné sarebbe stata la prima forma riconoscibile di comunicazione, antecedente alla scrittura; viceversa, senza la «presa diretta» costituita dall’enunciato verbale, la comunicazione resta sostanzialmente monca. Prosecutori di questa attitudine, i poeti della scena orale e performativa sembrano ricondursi a questo filone. I loro libri, però, non sperimentano con il testo; tolto di mezzo il corpo, la presenza del/la poeta, il testo rimane – dal punto di vista semantico – estremamente lineare, perfettamente leggibile e privo di particolari distorsioni. In che senso, allora, in assenza di un pubblico a cui rivolgersi, la loro poesia può dirsi «orale»? E cosa accade quando un/a poeta, auto-definitosi performativo/a, viene impossibilitato dalle circostanze a presenziare la propria poesia su un palco? Se il/la poeta è mediocre, si deprime. Se invece vuole destrutturare il linguaggio, riprendendosi uno spazio di autonomia estetica, sperimenta.
La cultura del digiuno, collage di Chiara Vesce, Voce del verbo agire, 2016
Il Gruppo 93 e l’impossibilità del concepirsi «avanguardia» nel postmoderno
Quando Mario Bàino, Biagio Cepollaro e Lello Voce diedero inizio, alla fine degli anni Ottanta, al Gruppo 93, la loro preoccupazione principale era di venire additati come una «neo-neoavanguardia» e dunque di essere facilmente storicizzati e fatti fuori dal panorama letterario. Perciò si affrettarono – da abili postmoderni – a liquidare il discorso avanguardista, prendendone le distanze, per poi percorrere strade diversissime tra loro, chi introducendo il poetry slam nel contesto italiano e chi relegandosi a commentatore della scena ai margini di «Baldus» prima e «Il Verri» poi, senza produrre una sostanziale rottura con le forme e le sperimentazioni antecedenti. Mentre Cepollaro parlerà apertamente del Gruppo 93 come una «compresenza conflittuale»[2] fra avanguardia e suo opposto, Voce affronterà il tema dell’«avanguardia nostro malgrado»[3]. Non per nulla, il Gruppo 93 viene fondato nell’89, anno della caduta del muro di Berlino e del crollo delle ideologie. Non ha mai voluto fondare un’avanguardia, non solo per ragioni storiche, ma anche estetiche: con Fukuyama a paventare la tanto decantata «fine della storia» era difficile – se non impossibile – assumersi un tale rischio, ma anche nei testi di Voce, Cepollaro e Ottonello non c’è alcuna volontà di creare una rottura con le forme del passato. Tutt’altro: consci del fatto che anche lo sperimentalismo era diventato tradizione, questi poeti hanno sapientemente assunto delle forme e delle pratiche provenienti dalla neoavanguardia, senza decostruirle, ma facendole proprie, in pieno stile presenzialista. Volevano ricondurre la Vicinelli, Costa e Spatola al loro discorso postmoderno sul corpo e sull’oralità – che solo in parte riguardava la loro ricerca – e farli rivivere nelle loro poesie, senza contrapporvisi, in un momento storico in cui, per ammissione dello stesso Voce, c’erano solo rovine e il fatto di scrivere poesie che non riguardassero la «parola innamorata» già gli bastava. Ora si tratta invece di riconoscere quali elementi, oggi, potrebbero superare il postmoderno per approdare a una nuova consapevolezza, adesso che la pandemia sembra aver messo in discussione le nostre sedimentate certezze, primo fra tutti il corpo del/la poeta che si esibisce su un palco e ora che urge la necessità di altri linguaggi, contrapposti a quelli passati, in grado di rappresentare l’accelerazione data dalla ripresa della storia.
Consci del fatto che anche lo sperimentalismo era diventato tradizione, i poeti del Gruppo 93 hanno assunto delle forme e delle pratiche provenienti dalla neoavanguardia, senza decostruirle, ma facendole proprie, in pieno stile presenzialista.
Il testo poetico come «dispositivo»: nuove tendenze dell’avanguardia
Molti dei «cronogrammi», delle «anascritture» e dei «zeroglifici» che leggeremo a partire dagli anni ‘60 nei lavori di Balestrini, Accame, Spatola sulle riviste «TAM TAM» e «Malebolge» hanno avuto origine da un calligramma di Stephane Mallarmé, Un coup de dés jamais n’abolira le hasard(1914), in cui i riferimenti simbolici del poeta francese si sposavano per la prima volta con la proprietà tipografica delle parole, che cadono casualmente sulla pagina in modo da amplificarne i significati. Quest’attitudine alla poesia come «dispositivo», per innescare sensi e linguaggi altri rispetto allo scarno panorama letterario, la ritroveremo anche in alcuni lavori di Roberto Sanesi, che da fine traduttore di T. S. Eliot ben conosceva le istanze decostruzioniste della poesia d’oltreoceano. Tutti questi autori avevano ben presente la ricerca del filosofo algerino Jacques Derrida (1930/2004), per il quale, a differenza di Husserl, non esiste nessuna intenzionalità nel discorso verbale e qualunque testo, per definirsi tale, dev’essere scritto. La performance nasce dalla presa in carico del testo, che va per forza di cose distanziato dal pubblico, separandolo da esso, pena la sua inconsistenza. Una volta che viene eseguito – messo in atto – diventa un’altra cosa: interviene la «fonoritmia»[4] (cfr. Rosaria Lo Russo) a enucleare il processo creativo del/la poeta, rendendolo fruibile all’ascoltatore. Ma il testo è comunque un dispositivo: sta lì a rammentare la ricerca che sta dietro alla performance, attraverso tecniche e strumenti riconoscibili. A volte, arrivando a negare il processo di lettura, in una tendenza che potremmo definire «catamoderna»[5]. Non è forse questa la sede opportuna per ricordare che il vero virus, da sempre, è il linguaggio[6]? La parola, nella sua forma più autentica e concreta – la parole poetica – cerca oggi un nuovo corpo ospitante per riprodursi. Un corpo fatto non più di carne, ma di dati.
La parola – questo virus che fagocita qualunque cosa al suo passaggio – non morirà con la fine della nostra civiltà: ci sopravvivrà.
Stephane Mallarmé, Un coup de dés jamais n’abolira le hazard, Traduzione fonetica, via You Tube
Uno di questi strumenti, a differenza del caos propugnato dal Futurismo e del caso introdotto dal Dadaismo o ancora, dell’uso violento del cut-up di Balestrini nella Neoavanguardia, è stato proposto dallo «zapping» di Charlie Nan, che a tal proposito scrive: «Più il linguaggio del poeta aggredisce le immagini del presente, maggiormente i suoi versi saranno una proiezione del futuro.»[7] Un’altra forma di poesia come dispositivo potrebbe essere intravista nell’aggressione dei simboli dell’arte conservatrice del passato: «Manomettere i simboli dello stato fascista è un’opera di caritatevole buongusto»[8], scrivevamo quattro anni fa sull’opuscolo di SALINIKA, Poesia e rivoluzione è poesia, e a tal proposito le azioni iconoclaste del Black Lives Matter e del movimento femminista sulle statue – simbolo del potere patriarcale e colonialista – sono particolarmente illuminanti. C’è chi vede in quest’opera di decostruzione e di riappropriazione dello spazio urbano una semplice azione di vandalismo. Io la chiamo Poesia. Per capire come scrivere poesie oggi, però, dobbiamo interrogarci sull’ipertesto, vero strumento di scambio e comunicazione nell’epoca del postumano.
Milano, marzo 2019, statua di Indro Montanelli imbrattata di rosa durante un’azione di Non Una Di Meno
«Liminalismo»: processare la poesia
Oggi un testo può essere copiato, tagliato, incollato, riproposto in infinite combinazioni differenti. Nella semiotica, qualunque sistema di segni (linguistico, visivo, gestuale, musicale) viene considerato come «testo». È inevitabile, dunque, per la poesia contemporanea, orientarsi a tutti questi media per rappresentare la crisi del linguaggio, che è a sua volta messa in atto dal declino in corso nella società occidentale, indagandone le zone liminali. A partire da alcune sperimentazioni di Francesco Aprile, che nei suoi Code Poems (Post-Asemic Press, 2020) propone il linguaggio HTML proprio della programmazione web come nuova forma di riappropriazione poetica e linguistica, arriviamo a concepire la poesia come «passaggio» di informazioni da un server a un altro. Com’era stato previsto da Jonathan Swift, nel postumano la poesia potrebbe diventare il linguaggio prediletto delle macchine. Questa tendenza, ospitata sul nuovo numero di marzo della rivista «Utsanga», viene ripresa e ampliata da Andrea Astolfi, Cristiano Caggiula, Gianluca Garrapa e Antonio Francesco Perozzi, attraverso una serie di sessioni di scrittura collettiva in contemporanea, utilizzando un paper di dropbox. In tal modo, a partire dal concetto di desiderio, è stata effettuata una forma di scrittura «non monolitica», dove il primo elemento ad essere messo in discussione è quello dell’autorialità: secondo le funzioni del programma, infatti, se un autore A viene modificato da un autore B, all’autore B viene attribuito automaticamente l’intero testo. L’opera poetica, in tal senso, non si evince più dalla critica al prodotto finito, ma dal suo «processo.» Riprendendo dal loro anti-manifesto sul liminalismo: «e così il glitch creò l’uomo, e vide che era cosa buona.»[9]
Il dominio tecnologico sembra aver trovato finalmente la sua rappresentazione in poesia. A ben guardare, questi autori non si definiscono nemmeno poeti: somigliano più a dei programmatori, che dal linguaggio del web traggono una fredda bellezza.
Aprile-Astolfi-Caggiula-Garrapa-Perozzi, Latimeriidae, via Utsanga
Il «glitch» come manifestazione del desiderio: nuovi zeroglifici e interferenze sonore
Come riportato da Kenneth Goldsmith in Scrittura non creativa (Nero Edizioni, 2019), «Come un’immagine .jpeg è un linguaggio organizzato per permetterci di vedere determinate immagini e non altre, così la poesia è un linguaggio organizzato per evocare alcune immagini» del presente, del passato e del futuro. Pensate ai numeri e ai simboli che compongono il linguaggio HTML: questi, a loro volta, costituiscono un testo. Ma cosa accade se a questi elementi se ne sottrae uno? O se il codice viene modificato? Si produce un «errore» nel software, l’immagine risulta sfalsata. È questo il caso del glitch visivo di Nicolò Gugliuzza, forma di scrittura asemica che si manifesta come una riappropriazione della capacità desiderante del poeta, con i suoi «zeroglifici» contemporanei. Una scrittura aperta, in assenza di parole, che però mantiene integra la sua capacità espressiva.
Nicolò Gugliuzza, glitch da Europe after the rain di Max Ernst, via Neutopia
E non è tutto: nel linguaggio HTML i suoni possono diventare colori, i colori sensazioni tattili, le sensazioni tattili forme. È un’orgia sensoriale casuale che farebbe impazzire i futuristi. Un tentativo di questo tipo – di modificazione del «codice» rispetto allo standard – lo ritroviamo nelle interferenze[10]di Elena Cappai Bonanni e nella serie Couplets[11]di Alessandra Greco, laddove il sonoro interviene a ricombinare elementi già codificati. Se nel caso di Cappai Bonanni Il meriggio di D’Annunzio, nell’interpretazione di Herlitzka, viene mischiato con interventi discontinui in lingua araba, che vanno a intersecarsi con il testo originale per creare nuovi, inaspettati significati, in Greco assistiamo a una ridefinizione ipertestuale della parola «ricordo», con diverse varianti di testo che vengono recitate ora dall’autrice, ora dal riproduttore automatico, accompagnate da diverse composizioni di musica elettronica di Luca Rizzatello.
Elena Cappai Bonanni, Interferenza 1 – Meriggio, via Utsanga
Alessandra Greco, Couplets. Relazioni tra i recinti e l’ebollizione, musica di Luca Rizzatello, poesia visiva di Luc Fierens, via Neutopia
Per questa puntata ci fermiamo qui. Rimando alla risposta di quanti, con i propri articoli e interventi, vorranno contribuire a questa ricerca, in un periodo come quello che stiamo attraversando, sapendo che oggi più che mai – come ha scritto Luc Fierens – nella poesia c’è bisogno di una voce indipendente, di una voce autentica, che tagli con le forme del passato con la precisione e la nettezza del rasoio.
Davide Galipò (Torino, 1991) si laurea nel 2015 all’Università di Bologna con una tesi sulla poesia dadaista nella neoavanguardia italiana. Nello stesso anno dà alle stampe la raccolta di poesia visiva ViCoL0 – Giornale in scatola inesistente. Contribuisce a fondare il Gruppo d’azione poetica Salinika, nel quale milita fino al 2017. Dal 2016 dirige «Neutopia – Rivista del Possibile». Finalista al Premio Alberto Dubito con il progetto spoken word music LeParole, con cui realizza l’EP Volontà di vivere, alcuni suoi testi vengono inclusi in Rivoluziono con la testa (Agenzia X, 2017). Nel 2018 pubblica un suo saggio su Patrizia Vicinelli nell’annuario di «Argo», Confini (Istos Edizioni). Nel 2019 suoi testi critici vengono inseriti nel catalogo della personale di Luc Fierens, Punti di vista e di partenza (Fondazione Berardelli). Finalista al Premio InediTO con il progetto spoken word music Spellbinder, con cui realizza l’EP Madrigale. È ideatore del festival Poetrification_urbanismoinverso. Nel 2020 pubblica la raccolta di poesie Istruzioni alla rivolta (Eretica Edizioni).
[1] G. Fontana, Guarda come il testo si serve del corpo, introduzione a Adriano Spatola, Opera, pp. 49-50, [dia•foria, 2020
[2] B. Cepollaro, La compresenza conflittuale. Quattro equivoci sintomatici sulle vicende del Gruppo 93, in «Baldus», anno II, n. 1, agosto 1991
[6] L’idea del «linguaggio come virus» viene indagata da William S. Burroughs come articolazione della sua teoria sul «controllo», dell’asservimento che il sistema sociale opera sull’individuo (cfr. A. Caronia, Dal cyborg al postumano, Meltemi, p. 136)