Nicolò Gugliuzza | Aprile

Viaggiando non avevo mai incontrato nella mia vita una persona di quel tipo: ricca di segreti sconfessati, sguardi sottili, parole fini. Fino a quando, un sussulto, un gemito:
come cazzo è possibile che non sai chi fosse Benito Mussolini?

Da quando ho l’impressione
che pure la mia fruttivendola
abbia liberato il piccolo fascista in lei,
mi sento sempre più solo.

Covo pensieri pessimistici,
li nutro, li allevo,
quasi fossero animali domestici,
criceti composti di ecoansia
e voglia di fuggire
in Indonesia o Giamaica.

Ma è chiaro che sto farneticando,
non sull’ecoansia —
quanto sui paradisi tropicali:
luoghi da cartolina
dove un colonialismo mai finito
gira in shorts in qualche resort,

mentre intorno,
terre percosse da tsunami
e da clordecone
che uccide gli insetti nelle banane
ma che ti fa anche venire il cancro alla prostata.

La mia considerazione per il mondo moderno
è così violenta,
che se non avessi cominciato
a relativizzare il termine “radicale”,
le mie parole sembrerebbero uscite
dal carcere di un anarchico di fine Ottocento,
o da un membro della Baader-Meinhof.

Ma queste cose non si possono dire,
dato che questa è una piacevole lettura di poesia

il mondo di oggi va male,
ma non siamo disfattisti:
la nuova versione di ChatGPT
fa foto in stile Studio Ghibli,
i cambiamenti climatici sono sempre esistiti —
nel Rinascimento faceva freddo,
nel Basso Medioevo caldo,
nell’Alto Medioevo di nuovo freddo
e così via dicendo.

Oggi non si può dire più nulla,
va dicendo qualcuno
che detiene troppo potere
per la salute di questa società.

Ma io ho la percezione invece
che ognuno possa dire tutto:
il mio vicino di casa
è convinto di appartenere
a una razza superiore
di origine indoeuropea,
tu eri convinta
che Mussolini fosse un filosofo di inizio novecento,
forse aveva ragione Claudia
a dire che sono cinico,
pessimista anche quando digresso,
ho un pessimismo cosmico,
tipo Giacomo Leopardi,
solo ai tempi del reggaeton.

svogliato, avanzo nei corridoi della metro,
chewing gum per terra
e piccioni intrappolati,
svolazzano senza via d’uscita,
come noi nelle nostre vite adulte:

Xanax, schermi, stampanti,
appartamenti arredati con mobili Ikea e condivisi con sconosciuti soffocanti
alcolismo quattro giorni su sette.

Che dire?

Resta l’amore.
Sì, io mi innamoro,
sebbene i miei momenti d’amore
non durino mai più di un’ora e venti:

sfogliamo persone
come pagine di un libro sul comò mai letto
i cui segnalibri sono categorie:
BDSM, shibari, friends with benefits.

La maggior parte dei miei coetanei
ha barattato il senso di rivolta
con un branzino cileno
e una confettura di pomodorini verdi.

Le strade sono attraversate
da marmitte truccate
e rider bengalesi senza documenti,
eppure il mio stomaco morde,
un battito sporco che non si placa,
non tace

nelle notti in cui lune spente
boicottano ogni canto,
nelle pieghe del letto
in cui sconosciuti si accavallano,
cercando solo,
comprensibilmente,
un po’ di caldo.

Nel terrore delle armi,
nella tossicità della finanza,
nella devianza adottata a norma,
e nella repressione di ogni differenza:

là, nelle mani sudate e nervose
che sfuggono, si aggrappano, si serrano

dobbiamo ridere, immaginare, pensare,
ma dobbiamo poi anche piangere,
per continuare a respirare,
riumanizzare ciò che ci sta intorno:piante,
spazi,
identità marginali,

pratiche per non estinguerci,
per afferrarci alla vita,
per essere solo ciò che siamo,
e non dargliela vinta.

Voce e opera visiva di Nicolò Gugliuzza

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