Fuori sulla strada una quasi pioggia grigia, un ricordo d’acqua sul cemento e noi di fronte; lui con la barba lunga, i capelli lunghi, il cappello e io con la pistola in tasca. Le macchine, le loro, di sbirri, finanzieri e militari, schierate l’una accanto all’altra, e loro, gli sbirri, i finanzieri e i militari fuori, coi fucili, gli occhiali scuri. Si sapeva, si sentiva bene che c’avrebbero fermato, anche solo per la barba lunga, la sua, il mio passo nervoso. Era un cielo grigio, un ricordo d’acqua sul cemento pure grigio, e le macchine di fronte, e noi che ci andavamo incontro, lui col cappello nero, io con la pistola in tasca.
Raffaele stava fuori casa da due settimane secche. Una tre-giorni di bnb periferico, per Pasqua alla casa del padre, e poi di nuovo alberghi, due notti sul divano mio, e poi di nuovo alberghi e adesso eran tre giorni che stava fuori casa sua, dentro casa di mio nonno, a Viareggio. Si sentiva bene l’aria di tragedia quando all’osteria non si era presentato, e io a chiamarlo senza un cenno di risposta e poi Maria che mi scrive abbiamo litigato, lui mi ha dato uno schiaffo, gli ho detto di sloggiare. L’ho rivisto quattro giorni dopo il fatto, alla birreria di piazza, di domenica. Uno zaino con un cambio, una bottiglia d’acqua grande, e la chitarra che poi sarebbe stata abbandonata dieci giorni dopo, sul Pisa-Viareggio, la notte che si trasferì a casa di mio nonno morto, dei miei luglio di bambino. Non c’è spazio di ritorno, mi diceva.
Il mare dietro, il grigio intorno, le macchine di fronte. Questi ci fermano, questi ci mandan tutto all’aria — si pensava. Era più che ovvio, inevitabile il procedere spediti, passare fieri a fianco delle macchine, dei fucili, dei loro stronzi occhiali scuri. Era più che ovvio poi, inevitabile ovviamente il far finta di niente, l’evitare di rispondere ai commenti, all’invito duro, all’ordine bullo di fermarci, di girarci, di consegnare i documenti. Era ovvio il camminare mio nervoso, i suoi capelli che prendevano vento mentre il passo accelerava, e loro dietro, le macchine schierate l’una accanto all’altra e loro fuori, gli sbirri, i finanzieri, i militari coi fucili, a gridare, e poi uno che parte, che ci insegue.
Dopo la domenica di birra, dormì sul mio divano, che poi era quello di Maria, sua ragazza forse ex, padrona della casa che affittavo. Bevemmo, ci drogammo, al mattino poi di nuovo fuori, a lavorare, e nel pomeriggio ancora insieme, a discuterne, a pensare a come fare. Raffaele era un drappo lacero ma fiero, di divani non ne voleva certo più: prese un bnb a Tirrenia, una casa di svizzeri piantati in riva al mare, e poi furon solo giorni strani, d’altalena. Con Maria si rividero un pomeriggio, piansero, si dissero mai più. Mi stupii infatti quando la vidi arrivare la sera del treno. Era facile a pensarci, ovvio, le chiavi ce le avevo, ma in un portaoggetti in qualche buio di cassetto, non nella memoria, nemmeno più nel cuore. La piccola casina viareggina, un’altra casa, un altro mare, la casa di mio nonno morto. Raffaele accettò, io gli detti le chiavi, gli dissi se vuoi andiamo insieme, e allora ancora fuori, io con il passo svelto, lui con la barba lunga, Odarka mia bella appresso a noi, e poi senza avvisare, Maria che passa il fiume, e viene insieme a noi. Quella notte dormirono insieme, io quasi mi ammazzai di dentro il mare, Odarka che mi aspettava a riva per litigare ancora, la chitarra abbandonata sopra il regionale e che mai fu ritrovata, né a Pietrasanta, né a La Spezia, né Altrove.
Correvamo, il grigio era una nuvola sfocata intorno a noi che correvamo e il mare dietro, Viareggio che si andava disperdendo nella polvere di un inseguimento. Lui, lo sbirro, aveva occhiali scuri, occhi caldissimi, e correva quanto noi, lui con la barba lunga, io con la pistola in tasca. Era ovvio, evidente ci fermassero, ci chiedessero qualcosa. Non eravamo pronti, non si è mai pronti a questo. Fu solo un lampo chiaro che ci fece dietro un angolo, il deserto intorno, neanche un testimone solo, e noi fermi col fiatone che aspettiamo, e ci guardiamo e lo sappiamo che non siamo pronti, che non si è mai pronti a questo, e poi lui, lo sbirro che corre, che arriva, e noi che lo prendiamo.
Dopo il giovedì di mare, lo rividi all’osteria. Con Maria s’insanguinavano a turno su di un’altalena sciocca, un continuo di vai via, non so chi sei, io con te non ci sto più, ma lo sai che t’amo tanto che tu sei il mio, tu il mio uomo e tu la mia donna e noi siamo noi però vai via che… Di questo si parlava, e poi pure Maria che viene in osteria, che ride, che mi dice io tu Raffa e Odarka, andiamo via questo weekend, tutti insieme a far baldoria e poi di dentro l’osteria, il pianto e la rabbia tra le pappardelle e la cicoria, e lei che se ne va, e Raffaele ancora solo che mi dice forse il problema, il problema è la non accettazione, o che è troppo facile passar così di scatto, da una cosa all’altra e poi di nuovo indietro, o che ormai ci stiamo solo sui coglioni. Quel pomeriggio bevemmo, ordinammo pizza. Dormì un’altra volta sopra il mio divano, l’ultima, non se ne tornò a Viareggio. Non c’è spazio di ritorno — si pensava.
Fu lui a colpirlo per primo, alla testa, e io pure, con i pugni, la pistola fredda in tasca. Il mare era lontano, certo era lontano, e il grigio e la pioggia di nuovo e il sangue era un tutt’uno stordito attorno a noi che picchiavamo, che avevamo ucciso un uomo.
Ora, dopo due settimane dal fatto, dallo schiaffo e la cacciata, dopo quindici giorni di bnb in periferia e alberghi svizzeri di mare, dopo qualche giorno pure di Viareggio, di casa di mio nonno morto, dei miei luglio di bambino, vedo Raffaele più sereno. Mi dice che di notte dorme ancora con un occhio aperto, che di giorno trema da cerbiatto. Sa quanto veloce cambino gli umori, e le parole, quant’è facile passare così, di scatto, senza senso, da una cosa all’altra. Maria adesso gli concede qualche volta il letto loro, della casa, ma che lui deve cambiare questo è ovvio, troppi sogni ha nel cervello, troppo freak gli dice lei, ma io rido, camminiamo, lo vedo più sereno. Ieri sera all’osteria se n’è discusso, della confusione e dell’assenza, e poi cinque chilometri d’asfalto, una notte da cani sciolti e stanchi, e Odarka fuori chissà dove, e Maria fuori chissà dove, e io che gli chiedo se serve il divano e lui che no, stanotte dormo a casa, e noi che camminiamo, le macchine che sfrecciano nel buio.
Dentro la cella noi ridiamo. Il mare è lontano, un ricordo d’acqua sul cemento e il grigio tutt’intorno e pure dentro e noi con le mani sporche che ridiamo. Ci danno la grazia d’un telefono, ed è Raffaele che chiama, che vuole chiamare, e Maria che risponde, ed è già di lacrime la voce del pronto. Marì! si camminava tranquilli mica altro e poi siamo passati a fianco a loro e ci hanno chiamato e senti mica ci avevamo voglia e allora siamo andati e questo ci ha seguito e allora dietro l’angolo l’abbiamo ammazzato e questo è quanto. Raffaele rideva, un fare burlesco e tremendo gli stava di dentro la voce, nell’ironia grottesca con cui confessava un omicidio. Fu un piccolo silenzio, ci guardammo consapevoli, e soli, e poi Maria dall’altro capo, durissima: quanto sei freak…
Al mattino mi sveglio col fumo del ricordo a pizzicarmi gli occhi. Ieri sera l’osteria in periferia, e poi la strada sola, ma poi di nuovo casa, e lo so che Raffaele stanotte ha dormito nel suo letto, nel letto suo e di Maria, e allora rido, penso d’invitarlo a pranzo, ma no ma no, che forse è davvero quella svolta che si cerca, che s’insegue da due settimane buone, o forse mesi, e forse oggi stanno insieme, che forse c’è davvero spazio di ritorno e un weekend di questi si parte davvero, e davvero andiamo tutti insieme da qualche parte, a Napoli, in Trentino, ovunque basta che sia insieme, a far baldoria, ma c’è il fumo, il pizzicore del ricordo che è forse un altro mondo, e io ho voglia, ho voglia di dirgli del grigio, di Viareggio, dell’uomo ammazzato, e delle risate in galera, l’atroce ironia del sentirsi di marmo, colpevole e assurdo, e allora glielo scrivo, e lui che mi risponde che il bastardo se l’era cercata, e nessun commento su Maria, sul commento duro di Maria, dell’incomprensione evidente pure dentro l’altro mondo, e allora mi alzo, con calma, e sveglio Odarka e le do un bacio e mi dico che forse e banalmente non c’è niente di più forte, e vero, simile alla vita, della strana eco che rimbomba nella testa dei sogni al risveglio.
Collage di Julien Pacaud
Lorenzo Pisaneschi nasce a Pistoia nel 1993. Diplomato al liceo scientifico, si laurea tre anni dopo in Lettere moderne con una tesi su cibo e vino in “Satura” di Eugenio Montale. Frequenta il corso di Laurea magistrale in Italianistica. Suona, canta, scrive. Tra Lamporecchio ed Empoli, Empoli e Firenze, Firenze e Pisa, Pisa e Viareggio, ha vissuto e vive. Nel 2018 ha esordito con il romanzo Crapula (Catartica Eduzioni).
