Rosa di macchia | Silvia Lenzini

Ci saranno un migliaio di morti, e dove li mettono tutti.
Corpi ammassati, corpi per i quali non c’è più posto al cimitero. Non passa giorno né ora senza quella scena davanti agli occhi, senza che io riviva la mia corsa tra le macerie.

Dovevo andarci subito, troppi i volti che non vedevo da giorni. Mi sentivo in colpa per avere ancora la casa in piedi, per essere viva. Sapevo che sarebbe stata una prova terribile, l’affrontai come un’espiazione.
Aleggiava su quell’ammucchiata di corpi un odore di marcio intollerabile, che mi parve soprattutto offensivo, irriguardoso. Vite smembrate. Vite di uomini, di donne, che due giorni prima respiravano, piangevano, si abbracciavano. Ora si permetteva che marcissero. Si faceva un secondo scempio dei loro corpi.
Corpi di bambini, anche. Fui attratta da un mucchietto di vestiti lerci e capelli, mi avvicinai il più possibile. Il corpo era appoggiato su un fianco, ma qualcosa non tornava: mancava lo spessore rotondo, la precarietà dell’appoggio che le forme producono, era come se il bambino aderisse in modo esagerato a quello che gli stava sotto. Mi piegai sulle gambe: la riconoscevo quella cosa, quello che era stato un bambino e ora sembrava una mezza patata tagliata per lungo e appoggiata sul terreno. Se piegavo la testa di lato, se mi mettevo parallela al suo sguardo che non c’era, vedevo meglio il mezzo profilo quasi integro, le lentiggini sul naso.
Era M., il figlio di V.


L’avevo visto crescere, giorno dopo giorno in piazza, l’avevo visto distante dagli altri bambini, fermo a pensare. L’avevo visto mangiare con occhi volpini

Era M.
Era M., Dio!
Su metà della bocca gli era comparsa una voglia di ridere che da vivo non aveva. Era un bambino pensieroso, triste: quando era piccolo, quando tutto questo non era pensabile, sua madre diceva di lui che aveva il potere di conoscere il futuro, come tutti i nati settimini.
Non potevo sopportarlo, era troppo. Mi misi a guardare in direzione delle colline, pensai ai nostri prati lassù, tu mi capisci, vero? Alla rosa scarlatta di macchia, ai gigli di campo, ai fiori viola dell’issopo, alla misteriosa mandragora che conduce all’oblio, all’origano profumato.

Era ancora la rosa di macchia a tingere di rosso i crinali? Era solo la rosa, lassù, che macchiava di rosso?

Allungai una mano, cercai di arrivare al piccolo viso, alla pelle bianca. Il mucchietto aveva un ciuffo di capelli castani e lisci appiccicato alla fronte, gli copriva un occhio. L’occhio.
Oh, se almeno fosse servito quel sacrificio, quel piccolo corpo diviso a metà.
Germoglia piccola patata, mormorai. Germoglia piccolino, ti prego, e ricopri di un ricamo verde pietoso tutto questo strazio!
Che disperazione, che orrore!
Scappai, corsi in direzione di casa. Correvo e piangevo e non guardavo davanti a me. È per questo motivo che andai a sbattere in una persona.
Mi sentii chiamare: – Che fai, dove corri?
Sussultai. Era lei, era sua madre.
– Dove corri? – mi chiedeva – Sei già stata a vedere…?
– Non ci andare, vieni con me.
– Ma sto cerc…
– Non andare, non c’è nessuno che si conosce. Nessuno dei nostri. Non c’è niente da vedere. Niente. Vieni via, torna indietro con me.
Mi asciugai le lacrime, ingoiai il fiotto di vomito che mi era risalito in gola, presi quella povera donna sottobraccio, la costrinsi a cambiare direzione facendole scivolare una mano lungo lo straccio sudato che le ricopriva la schiena, a sostenerne la sofferenza, i passi faticosi e recalcitranti.
Non sapevo se stessi facendo bene, tanto prima o poi sarebbe venuta a sapere la verità. Ma non in quel momento, non per bocca mia. Non sarei stata io il messaggero di un dolore inaccettabile.
Camminammo a lungo tra gli alberi di arancio, gli occhi si bagnavano alla bellezza dell’oro sparpagliata sul terreno, ci muovemmo in silenzio tra i coraggiosi melagrani che niente temono. I loro frutti, i loro figli, sanguinavano sul selciato. Maturai in quel momento l’idea che potevo ancora salvarla, preservarla dall’orrore più grande.
– Vieni a casa mia. – le dissi – Ti preparo un tè.

E mentre il suo fianco si appoggiava al mio con fiducia di sorella, maledissi mille volte il cielo.

Illustrazione di Semain Seganka

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