Gli scuri albori della RAPubblica | Il ritorno di Zona MC

È con l’EP Storia della RAPubblica 1943-1953. I veri anni di piombo che Stefano Mularoni, in arte Zona MC, torna nella forma disco dopo ben 8 anni che non è corretto definire “di inattività”, ma semplicemente di mutazione, già mappata in una vecchia intervista qui su Odile. Molte e poliedriche sono state infatti le sue produzioni dal suo ultimo album, Porconomia, del 2014: dalle sue apparizioni come frate rappista nelle puntate del Goth Talent di MusicaPerBambini alla pubblicazione del suo saggio Le origini del sovranismo, dalla realizzazione di un mashup-album tributo ai due linguaggi musicali a lui più affini, il rap e la breakcore, fino al suo sbarcare nel mondo dell’insegnamento scolastico, universo che probabilmente ha fatto scaturire l’urgenza di questa sua nuova avventura. Presenta lui stesso questo EP dicendo che “Chiunque sia stato a scuola sa che la storia della Repubblica italiana viene spiegata raramente, spesso in modo frettoloso e per di più in quella fase di sovraccarico di studio che precede l’esame di Stato. Intanto nell’editoria e nei social network si diffondono sempre più narrazioni revisioniste della storia d’Italia, con derive antikeynesiane, anticomuniste o addirittura antipartigiane”. Trovata quindi l’urgenza di spiegarle, l’opera di Zona MC si inoltra nell’esplorazione di quegli anni con l’avvalersi del supporto della storica Lidia Celli e di una abbondantissima bibliografia della quale presenta alcuni elementi in un video dedicato.

Occupatosi anche delle strumentali dell’EP, Mularoni decide di proseguire la sua attenta ricerca storiografica scegliendo per i suoi beat tutti campionamenti da registrazioni di quell’epoca riuscendo, fra le altre cose, nell’ardua impresa di non fare suonare come kitsch l’aria di Fischia il vento all’interno di un brano dedicato alla Resistenza e alle sue implicazioni. La ricerca è in più corredata da estratti da film e discorsi pubblici sempre d’epoca, con l’intenzione di tracciare un quadro il più fedele e chiarificatore possibile.

Per le orecchie più affezionate alle imprese audio di Zona, il nuovo EP suonerà molto come un ritorno a casa, sia dal punto di vista delle sopracitate strumentali che, lungi dai potenti abissi sonori di dischi come Caosmo dai suoni affidati ad altri produttori, ricordano molto di più le strumentali autoprodotte dei suoi primi lavori, con molte intelligenti scelte mascherate all’interno di una forma-beat più tipizzata, sia dal punto di vista dell’approccio didattico e narrativo alla scrittura che potrà fare ricordare ai molti Ananke ed altre opere simili. “Ma almeno stavolta voglio sorvolare sull’attuale/Tornando al passato non per nostalgia o rimpianto materiale/Si stava peggio ma quel clima intellettuale/Lasciava speranze a chi voleva rovesciare il Capitale” spiega Mularoni nella traccia dedicata alla scrittura della Costituzione, mettendo l’accento sul desiderio di una narrazione che si discosti da quelle più personali, sperimentali, critiche o fantastiche che negli anni aveva messo in campo nei suoi dischi, per poter osservare con chiarezza un periodo che osserva come cardine per comprendere il contemporaneo, in dialogo con le decadi future. Certamente la penna di Zona MC non maschera le sue opinioni, ma descrive con obiettività la concitatezza dei fatti di quegli anni, col suo sapiente utilizzo di una narrazione esplosa, accelerata, vivida di giochi e di immagini.

Isidoro Concas

DE GASPERI V-VII (’48 -‘ 53)

“Prendendo la parola in questo consesso mondiale sento che tutto, tranne la vostra personale cortesia, è contro di me: è soprattutto la mia qualifica di ex nemico che mi fa considerare come imputato”

Nato nel Tirolo italiano sotto il dominio asburgico da subito vicino all’ambiente liturgico
Da giovane partecipa a proteste studentesche
Della minoranza italofona che lo investe
Segretario del Partito Popolare Trentino
Eletto nel parlamento austriaco in cui rimane sino all’annessione della regione all’Italia è il ’19
Quando segue don Luigi Sturzo il “prete sinistro” che muove critiche al fascismo ma è fuori dal tempo perché il suo partito vota la fiducia a Benito seguendo il Vaticano
E ciò spinge Sturzo a dimettersi diviene segretario Alcide
Ma poi nemmeno lui vuole flettersi alle leggi fascistissime
E nel ’27 è arrestato, incarcerato e graziato restando sorvegliato
Ed è così che durante il conflitto armato
Riunisce la politica cristiana sotto lo scudo crociato
Il resto l’abbiam visto, Ministro
E poi capo del Governo che abbandona le sinistre e mantiene alleanze atlantiste mentre all’interno
Ha già capito
Che i voti non sono tutto, conta il Capitale ossia il “quarto partito”
In breve negli anni della ricostruzione
Al nord prosegue l’industrializzazione
E al contrario nel meridione una stagione
Di riforme come quella agraria
Insieme alla Cassa del Mezzogiorno in parte varia
Il volto dell’Italia
Finiva l’agricoltura estensiva
Espropriati fondi a grandi proprietari
Li si offriva a aziende familiari
Ma l’azione non era propulsiva
Era solo sull’agricoltura, infrastrutture civili e stradali mancavano investimenti industriali
Solo più tardi in quel deserto sorgeranno le note cattedrali
Come quella aperta da Nitti nel 1904
Poi chiusa in ossequio all’UE nel ’94
Il sud doveva esportare solo il lavoro e col suo poco capitale comprare più merci al nord e non prodursele da solo
Un modello di espansione
Guidato in gran parte dall’esportazione del settentrione che può competere con l’estero perché dispone di una disoccupazione
Che abbassa i salari con l’emigrazione interna e il sindacato in accordo col padronato licenziamenti politici e il proletariato schedato
Più tecnologie avanzate
Per produrre beni di consumo per le economie europee più agiate
Tutto ciò fornisce il quadro indegno
Che solo rese possibile il boom economico a fine decennio
Per fare una sintesi del lustro
In cui ha governato De Gasperi ha restaurato più di quanto ha riformato
Solo dopo aspri dibattiti avviò riforme sociali ma insufficienti per le ricadute occupazionali
In parte eserciti industriali si assorbivan
Con il piano keynesiano di Fanfani di edilizia abitativa
Mentre Vanoni aumentava le entrate
Imponendo le dichiarazioni dei redditi prima mai compilate
E la compagnia del petrolio fu affidata per essere liquidata a Mattei
Ma egli si oppose all’oligopolio delle sette sorelle fondando l’ENI
Ma i suoi piani caddero con il suo aereo in uno dei tanti misteri
È quasi certo che furon mani mafiose
Come per Mauro De Mauro giornalista che sapeva troppe cose (nostre)
Di certo dopo Mattei scompare la sua visione
Ma rimangono i mezzi: la corruzione
E nel marzo ‘53: temendo l’elezione imminente
De Gasperi vara la “legge truffa” ossia un largo premio di maggioranza per la coalizione vincente
Scelba è scelto come proponente
Si dice che persino lui si oppose ma niente
Il presidente del Senato si dimise ma niente
Al suo posto venne Ruini che alla fine ultimò gli scrutini ma è evidente
Che nemmeno l’ex Presidente della Commissione per la Costituzione poteva arginare lo sdegno crescente
E come il Po nel ’51 è esondato con l’alluvione
Parri lasciava i Repubblicani e con Calamandrei fondava un partito da micropercentuale
Ma sufficiente a bloccare
Il premio truffaldino per la coalizione
Tutto ciò va ricordato per mettere anche le ombre nel quadro che a De Gasperi viene troppe volte dedicato del cristiano deluso dal Papa
Che contro i comunisti voleva allearsi con i monarchici e i neofascisti nell’elezione romana:
“proprio a me, un povero cattolico della Valsugana, è toccato dire no al Papa.”
O deluso dalla questione triestina a lui vicina ma che importa? Conta che sia ricordato chi poi ha lottato come i 6 che nel ’53 son morti sotto i colpi del Governo Militare Alleato
O europeista deluso dal fallimento della CED
Ma gli equilibri internazionali cambiano dopo che il 5 marzo del ’53
Muore Stalin e il timore della guerra in Corea
Che aveva oliato l’integrazione militare europea d’altronde il primo trattato firmato nel dopoguerra aveva scopi militari:
Tutti contro Stalin
Nei suoi discorsi De Gasperi ha una visione
Il perno dell’integrazione deve esser la partecipazione
Senza la democratizzazione
L’Europa diventerebbe fonte di – cito – “imbarazzo e oppressione”
Ma intanto tornando a ciò che abbiam lasciato
Il piombo colpiva chi si ribellava dal contado al sindacato
Come a Modena l’eccidio delle fonderie riunite la polizia uccide 6 operai e duecento persone ferite poi Ravenna, Venosa, Ragusa anni di repressioni
Fino all’apice: ’60, Governo Tambroni
Io per tutto questo e non solo li chiamo “anni di piombo” e i settanta invece “anni del tritolo” in quanto la nota tensione
Iniziò con un’esplosione
Mentre il piombo è sullo sfondo già dalla ricostruzione
«… mò c’hanno pure il radiogrammofono.»
«E te, teg l’è no la casa?»
«E la chiami casa questa? Du camere e cucina, eccole lì.»
«E non mangi tutti i giorni?»
«Come no? Patate, patate la mattina e patate la sera me so ingrassata che paro ‘na botte, fra un po’ me devo fà allargà tutto, non lo so io!»
«Ma ti te’l set che Gaetan i fa la borsa nera?»
«Fossi bono tu a falla!»
«Io mi contento di quello che guadagno.»
«Ecco e noi seguitiamo a magnà patate che ce fanno tanto bene!»
«Si mangia patate, si fa economia.»
«Ecco… se magnamo pure l’economia pe’ companatico!»

Testi e Musica di Zona MC

Esplorando il termine | Un’intervista a Carlo Corallo

Carlo Corallo, fine penna ragusana classe ’95, fin dall’inizio del suo percorso tra rap, storytelling e poesia ha cercato di evolvere il proprio linguaggio espressivo perché il suo istinto lirico si sposasse al meglio con la sua produzione, carica di immagini con un intento narrativo dove anche gli aspetti più tecnici del rap vengono utilizzati al fine di raccontare una storia. Il suo nuovo album, Quando le canzoni finiscono, è un ulteriore gradino scalato in questo suo cercare ed è un concept album dedicato a quel momento in cui qualcosa finisce, e a ciò che da lì prosegue. Per esplorare assieme questa sua nuova opera, l’abbiamo raggiunto per un’intervista.

Buondì Carlo, benvenuto su Neutopia. Il tuo nuovo album, Quando le canzoni finiscono, è una nuova tappa del tuo percorso tra scrittura e musica e decide di incentrarsi su un tema molto specifico: il termine di un qualcosa, il suo finire e quel che resta. In che modo hai incontrato la necessità di esplorare questo sentire, e come hai deciso di svilupparlo?

Ho deciso di sviluppare questo tema quando mi sono sentito tradito dalla mia ispirazione e messo all’angolo dalle contingenze del periodo Covid. Io scrivo assorbendo i fatti della vita quotidiana e limitarmi a stare a casa mi ha bloccato a lungo la creatività. Appena ho deciso che il tema sarebbe stato quello della fine, ho letto tanti libri e guardato tanti film inerenti, in modo da trarre più ispirazione possibile sull’argomento. È un tema che mi affascina perchè è uniformante, in quanto ci riguarda tutti, ma personale allo stesso tempo. Sono partito da “Etimologia” per dare una sorta di anticamera al progetto, volevo parlasse di “inizio”. Le dieci canzoni che la seguono raccontano la fine in diverse sfaccettature e al termine dell’ultima di esse si ipotizza un nuovo inizio. È la rappresentazione dell’andamento ciclico della vita, scandito da momenti di luce e buio che si alternano. Detto questo, non tutti gli epiloghi descritti hanno una connotazione negativa, spesso donano al protagonista una sensazione liberatoria.

Passando velocemente da Thanatos a Eros, una cosa salta chiara alle orecchie, nell’ascoltare le tue nuove tracce: se l’amore è sempre stato nelle tue parole, raccontato da moltissime prospettive, è solo in questo album che compare più potentemente l’elemento carnale, in più pezzi ed in maniera più sanguigna. Pensi che questa cosa abbia attinenza col tema del finire, o è qualcosa che è comparso per altri motivi?

Sanguigno è un termine adatto alla descrizione del corpo presente in questo album. Il corpo accomuna l’origine e la fine: è divino quando crea e mortale quando si deteriora. Inoltre, per me è un fattore importantissimo che si sta perdendo tra i meandri di una socialità sempre piú informatizzata. Inoltre, i corpi delineati nel disco, sono corpi che adempiono la loro funzione nel mondo in quanto tali e, dunque, non ricevono mai un giudizio estetico, ma si limitano a percepire e dare sensazioni, a compiere azioni che ne modificano i destini. Descrivo il fisico talvolta nella sua componente mistica, come in alcuni brani quali “Etimologia” e “Quando le canzoni finiscono”, talvolta nella sua componente razionale in altri brani quali “Il capofamiglia” e “Natura umana”.

Il tuo stile è molto immaginifico, e spesso nei tuoi testi lo spostamento tra un’immagine e l’altra si appoggia sul perno del doppio significato dello stesso vocabolo, spesso con effetto a sorpresa. Anche “fine” è un termine (e anche “termine”!) che è ambivalente: è qualcosa che hai esplorato, nel lavorare il tema? 

Fin dai miei esordi mi servo di termini-passepartout in grado di significare qualcosa di lontanissimo da ciò che normalmente identificano. Mi diverto tanto a far rimare i concetti e a rendere il senso malleabile, più che a giocare col semplice suono delle parole. Tuttavia, non è l’unico stratagemma tecnico che uso all’interno dei miei brani; mi piace impreziosire i testi con varie figure retoriche, cercando di non eccedere rendendo il tutto troppo lezioso. Già in “Ogni uomo nasce libro” (2017) dicevo “il fine ultimo l’hai capito alla fine dell’ultimo capitolo…”. Le parole “fine” e “termine” si prestano ottimamente a questo trick ed è una fortuna perchè mi permettono di arricchire di sfumature un’opera già prismatica.

Com’è stato condotto il lavoro sulle strumentali? Se appare chiaro, infatti, che nelle tracce in featuring i suoni scelti (soprattutto nell’utilizzare le batterie) si avvicinino al mondo delle persone con cui condividi il brano, così come del resto fai anche tu, accomodando la penna ed il flow al loro stile, è nei brani in cui compari solo che i riferimenti si allargano e mutano col variare del tuo scrivere. Ci sono state scelte più direttive di altre, con più priorità, nello scegliere i suoni? 

Ho cercato di utilizzare strumentali che mettessero a proprio agio gli ospiti dell’album, senza, però, snaturare il mio stile. Credo di sapermi adattare al mood sonoro degli altri, anche perchè ascolto generi di musica molto vari. Inoltre, ho scelto le basi a seconda della loro capacità di comunicare quanto espresso dalle parole. In questo secondo capitolo della mia discografia, mi avventuro maggiormente in soluzioni cantate e flow fuori dalla mia comfort zone: “Izakaya Jazz Interlude” ne è un esempio. Un tratto che, invece, ritorna dopo l’esperienza di Can’tAutorato, è la presenza di suoni ambientali, come il rumore dello sparo che fa scappare gli uccelli in “Qlcf”, il suono della pioggia in “Natura Umana” o il vocio dei bambini ne “Il capofamiglia”.

La tua scrittura abita quel terreno tra prosa e rap, tra liricismo e testo a cui ritornare, in cui sembrano confluire influenze più varie di quelle nel background di un rapper standard. Quali sono stati i passaggi e le suggestioni che ti hanno portato a Corallo per come è ora? 

Posso dividere le suggestioni che mi hanno accompagnato durante la creazione dell’album in quelle derivate  dall’arte pittorica, come nel caso di Ligabue, quelle musicali, come Kendrick Lamar, J. Cole, i Kings of Convenience, Sufjan Stevens, e quelle letterarie come Philip Roth, Kundera, Calvino, John Fante, Sandor Marai, Rigoni Stern e Andre Aciman.

ETIMOLOGIA

Parole dette a bassa voce
Soffiate oltre il collier d’oro
Da ore in bocca come un colluttorio dolce
Ed uno sguardo docile
Ma i tuoi capelli sono legni che mi basta torcere
E siamo torce, forse
È in volte come questa
Che penso che la mia etnia sia influenzata dall’Etna
Sudore se chiami per nome con quella cadenza lenta
E stai attenta alla scansione di ogni lettera
Tu rendi la passione un’esperienza
In cui ogni mossa è concеssa
Pure comandarsi a bacchetta
Ma per darе vita a un’emozione intensa
Che poi è la differenza tra un dittatore
Ed un direttore d’orchestra
La testa sta morendo al rogo
Io moderno Erodoto
Padre della storia nel senso di rapporto erotico
In un vorticoso incipit di voglia
Che ricorda i libri di scuola
Con gli indici prima di ogni parola
Ma ora, accolti questi baci apolidi
Il tatto è l’ultimo tratto prima di varie trasmigrazioni
Il contatto si fa simbiosi, fa dubitare del fatto
Che noi siamo due corpi soli e che siamo due corpi solidi
A rispondersi: “Stasera ho programmi”
Che ci fa sentire sempre più macchine e meno umani
Così vorrei bussassi, coi palmi sulla mia schiena

E che la testiera fosse una tastiera di vene pulsanti

Se io sono Bologna, tu sei San Petronio
Se io Xavier Dolan, tu Mommy
Ma con mille alibi tra le mani
Mentre un’aria estiva stimola l’umami
Così che i pensieri contrari di entrambi domani saranno unanimi
E distanti da credenti e padri
Ma anche noi con gli organi usati
Come strumenti per momenti sacri
Sai, il tuo mi piace, quasi
Perdo la pace se mi allontani
Forse è per questo che si piange appena nati
Il pericolo è di odiarsi tra anni
Durante vite lunghe in cui crescere insieme come le unghie
E magari farò il perito meglio di altri
Che un marito è già istruito
Al confronto continuo tra due caratteri
Da estranei conta un altro schema
Andare a cena è un rito per non star soli la sera
Concentrando la libido alla fine della pancia
Finché un liquido ci separa come alla fine della Pangea

O in una camera gelida o troppo calda

Con un parquet iridato e ogni parete bianca
Su cui strapparmi la giacca tipo avvocato radiato dall’albo
E starti accanto fin quando siamo irradiati dall’alba
Ormai quasi ogni tua usanza l’ho fatta mia
Ogni ansia o periodo di calma, ogni principio etico o follia
Per questo, quando dici: “Vieni da me”, sorrido
Perché per te è un invito, per me si tratta di etimologia

Concept & Film: Andrew Superview, Valeria Michetti
Starring: Ginevra Ambrosino, Nunzio Di Matteo
Testo e voce Carlo corallo
Produzione Osa

La storia di uno sguardo | Visioni Imperiali di TresDeca

«Duemilaventi, stelle cadenti, cultura neocoloniale/cambian le forme così come i venti ma tutto in sostanza rimane uguale», chiosa TresDeca nella title track del suo concept album Visioni Imperiali, disco di debutto che prende il suo nome da un capitolo di Sapiens. Da uomini a dèi di Yuval Noah Harari, libro da cui si sviluppa il pensiero sotteso al disco e racchiuso nella barra di cui sopra, ma che soprattutto sottolinea l’attenzione e l’amore di TresDeca per la storia dei popoli umani, tutti, che hanno attraversato il nostro pianeta nei millenni. Prodotto interamente da EdoardoJJ e uscito per Turindrugstore e Malcontenti Records, nuova etichetta nata con l’uscita di questo disco, Visioni Imperiali è un debutto peculiare nel quale i racconti intimi di testi come Rimango in me e Mr. Blade si inseriscono in un flusso di immagini molto più ampio che cerca di raccontare quanto ciclicamente ogni cosa, da moti personali a stravolgimenti globali, si riproponga in nuove declinazioni di una stessa voce nella storia degli esseri umani. Questa apertura di prospettiva si chiude in Bonus (96100), una dedica che può essere letta attraverso due chiavi speculari: la dedica a una persona amata, paragonandola alla terra, si incrocia a un inno alla terra stessa, paragonata a una persona amata.

È partendo dal punto di vista di un album – il primo ufficiale nella discografia dell’artista – che il progetto prende connotati interessanti: la consegna piana, precisa e tecnica di TresDeca e le strumentali di EdoardoJJ, in questo disco molto lineari e dalla personalità chiara ma non roboante, si intrecciano lungo un discorso che raramente si incontra in un debutto, storicamente più volto all’introduzione dell’ascoltatore all’interno del mondo dell’artista nella sua varietà più che nella sua intensità, con un volo radente ma distaccato lungo tutta la superficie delle sue potenzialità. Col passo che TresDeca compie, invece, tale varietà lascia spazio a un sincero discorso, appassionato e ben costruito, che adempie alla sua funzione di presentazione del personaggio per mezzo di una via più sottile, meno calcata, meno spettacolarizzata. Questa soluzione apre a una scoperta più intima e disponibile, ma non sul fronte della scena, come se la ricerca del proprio ascoltatore sia per TresDeca un processo nel quale anche l’altro deve compiere dei passi per andare sotto la superficie. Il doloroso messaggio al termine di Andata e Ritorno ne è un esempio perfetto, riuscendo a risignificare l’interno brano solo nel momento in cui lo si ascolta, non come elemento dell’outro, più musicale che significante, ma come parte del racconto a cui prestare la propria attenzione traducendo.

È proprio questa spietata sincerità del rap di TresDeca che ci consente di uscire fuori dal seminato strictly hip-hop prima di tutto per l’attenzione richiesta all’ascoltatore, in un dedalo di rimandi non pop che intessono un racconto, il quale pur rimanendo fedele a quel linguaggio, traccia una linea molto personale su quest’orizzonte, facendo emergere in un modo più sotterraneo la figura di chi scrive. È un gioco di specchi di cui la traccia di chiusura è solo l’esempio più clamoroso, ma che si ripropone in tutto il disco: è nel racconto più globale che la figura di Tresdeca viene a galla con maggiore chiarezza, ed è nei pezzi più personali che invece, dal piccolo, tenta di descrivere il grande. 

BONUS (96100)


I tuoi ricci sono larici autunnali lungo i pendii scoscesi che quando c’è vento ondeggiano, riecheggiando il mare
Nei tuoi occhi dimora la terra limosa e fertile, sconfinati paesaggi si aprono davanti a colui che la percorre e la attraversa
Le tue scapole sono teatro di grandi migrazioni danze e falò, attorno ai quali tutte le tribù di questo emisfero hanno cantato i loro totem guida
Il tuo collo è un violino che va suonato da mani morbide e vigorose, sensibili al suo impercettibile sussultare
Le tue mani sono estuari dei grandi fiumi orientali, portatrici di sale e ricchezza per la foresta e le sue creature
Il tuo seno è un vulcano e non può essere domato
I tuoi nei costellazioni ataviche culle, a labirinto per chi come me ha trovato silenzio e pace in cui potersi espandere 
Il tuo respiro è il mio, così il vento dai ghiacciai dolenti, porta al riparo la sabbia rovente del fuoco di ulivo, verso mondi sconosciuti, dove l’ignoto passa le sue giornate e il mistero ha il sapore di Etna Rosso.

Voce e testo di Tresdeca
Musica di EdoardoJJ

Poli(cis)tica degli Animaliguida | Un approccio attoriale alla performance poetica

Animaliguida è un progetto nato nel 2018 da Elio D’Alessandro e Roberta Lanave, entrambi diplomati alla Scuola per attori del Teatro Stabile di Torino e che, da lì, conducono una ricerca sui percorsi ibridi tra il testo messo in voce e il suono. L’obiettivo dichiarato del duo è quello di portare sul palco happening tra la performance teatrale e un concerto spoken word, sfruttando le doti canore e attoriali di entrambi, la scrittura di Roberta e le capacità compositive di Elio, che tramite synth, strumenti elettroacustici e drum machine elabora dal vivo il suono.

Il duo nasce infatti da una costola più propriamente musicale, il progetto solista di Elio, che ha dato vita a un desiderio da parte di entrambi di mescolare la parte strettamente legata alla forma canzone dei live con band a un approccio più intimo col pubblico, mediato dal linguaggio teatrale. Passando anche attraverso una prima esperienza col testo scritto, affrontando Le Lacrime di Mirra, una produzione di Teatro Piemonte Europa curata da Marco Lorenzi che vedeva Animaliguida e Gaia Ginevra Giorgi approcciare assieme una riscrittura del mito ovidiano della metamorfosi di Mirra e la sua messa in voce e suono, pian piano il duo decide di scindersi dalla forma band e, parallelamente, concentrarsi sempre di più sulla parola scritta.

“I primi concerti”, raccontano, “erano una amalgama di testi nostri e altrui, musicati e recitati cercando di creare un racconto unitario, un fil rouge chiaro che si dipanasse lungo l’intera performance.”

Il loro prossimo lavoro, il primo a nascere in un’ottica più consapevolmente spoken word, sarà la messa in voce e musica di un poemetto di Roberta stessa, dal titolo Poli(cis)tica, testo da lei stessa descritto come “strutturato proprio come una serie di agglomerati, di cisti, di forma e natura differenti” e che prende vita sonora in un patchwork di stili che talvolta va verso il recitativo, altre verso il cantato, altre volte piega la metrica ad un flow più aguzzo e tendente all’hip hop, altre si colloca in una delivery più intima e decostruita. Con uno sguardo che riesce a mantenere un taglio cosciente di sé, analitico anche nei momenti meno concreti, la scrittura di Lanave affronta un viaggio nel profondo, con quell’impulso lirico che riesce a trasformare – potenza performativa figlia del teatro – il suo racconto in prima persona in immagine plurale in cui rispecchiarsi, cercando i punti in contatto e umanizzando archetipi, seguendo un lavoro sonoro che, nel rispetto delle complessità, mantiene una propria identità stabile inserendo le sue suggestioni con l’attenzione che il testo richiede. In anteprima a questo lavoro, il duo ci propone in esclusiva il primo studio del prologo di Poli(cis)tica, lavoro che programmano di poter portare completo, sui palchi, già tra qualche mese.

Isidoro Concas

POLI(CIS)TICA – PROLOGO

Come si può chiamare buio
questo – smarriti i sensi
e con essi il sentimento
che fa di ogni fenomeno
uno specchio
e di ogni coincidenza
un segno.
La pelle ingrigita non pulsa
la lingua riposa gonfia
le pupille non vedono più:
han fatto assalto all’iride
per sempre inghiottite
le forme, nessun profumo
mi parla del mondo.

Muoio. Io muore.
Ed è bianco rumore.
È precipitare lungo un corridoio
orizzonte a gravità deposta.

Quel che ero non sono più
quel che sarò già sono.

Ogni secondo un omicidio.
Migliaia di corpi ammassati
ai bordi delle strade
ignorati dai passanti e dalle
autorità.
Alle mie spalle crolla
tutto ciò che conosco
si ricostruisce al mio fianco
e crolla
ad ogni nuovo passo.

Sono immanente
inoppugnabile
eppure non consisto.
La realtà è stradimensionale
fatta di sole – frequenze.

Amo ciò che non comprendo.
Quel che mi lascia sguarnita
moribonda. Quasi vinta
eppure con un briciolo di forza
per gioire alla conquista che verrà
più in là nel tempo mai nel punto
del presente che potrebbe uccidere
il pensiero.

Amo ciò che non trattengo
che mi abita come un vecchio silenzioso
che coltiva un giardino nel mio petto
e diligente lava le finestre
e discreto riaccende il fuoco spento
tanto per fare una minestra
e star quieto e leggere nelle veglie.

Sono una popolazione – io
mi occupo dei loro passaporti,
li nutro con sempre nuovi sensi
e sollecitazioni e nuovi
sogni e visioni
di quel che potremmo essere
o fare.

Li tengo vivi con promesse
che si dissolvono – meduse al sole
lumache sotto sale.

Sono un presidente
sovrana spesso assente
spesso in ospedale
firmo dichiarazioni di guerra
e trattati di pace
con fervente distrazione.

Vola la berta marina
sul mar dei sargassi e dice
di trovarmi un porto
di scrostare le conchiglie
dai forzieri e usare il bagaglio
perchè non affondi.

“Mezza donna e mezzo uccello
io sono la sirena
io son colei che chiama
io son colei che sposta che plasma
che informa che interra la ghianda
che traccia la rotta, munita
di lira. La nave è ormai attratta
rapita nei gorghi del sapere.”

E i cittadini costretti
a farsi marinai
guardano una piuma cadere
e dondolare sul pelo dell’acqua
finchè tra loro uno la raccoglie
e la usa per penna
e scrive sul diario di bordo
di quanto vorrebbe essere un uccello
e perdere una piuma nel mare

affinchè qualcuno la raccolga
e la usi per scrivere quanto arde in sé il desiderio
di farsi uccello e solcare distese immense
e battere le ali tanto forte
da perdere una piuma e vederla volteggiare
fino alla superficie dell’oceano
dove qualcuno la troverà e penserà di farne una punta
da intingere nell’inchiostro per vergare su un foglio
il sogno di volare e planando verso una preda marina
smarrire una piuma e dimenticarla lì a galla
ad attendere paziente che un marinaio la raccolga

e ci scriva di quando è stato uccello
e tutto ha visto dall’alto e di come ha tentato cantando

di dire al mondo di non difendersi dai propri sensi
ma di andare incontro al fuoco e vedere e sentire e odorare
com’è la carne che brucia, com’è quel fuoco

quando non è fonte che genera ombre
ma viva cosa che grida.

TESTO E VOCE Roberta lanave
Musica, campionature e voce elio d’alessandro

Murubutu | Storie d’amore con pioggia e altri racconti di rovesci e temporali

È da poco tempo che è uscito il suo sesto album solista, Storie d’Amore con Pioggia e Altri Racconti di Rovesci e Temporali e, superati mari, venti e notti, la penna di Alessio Mariani aka Murubutu ha deciso di affrontare il leitmotiv della pioggia per legare la sua ultima raccolta di racconti rap, che nonostante il suo preciso stile riesce a toccare alcune specifiche nuove variazioni – alcune già annunciate dallo scorso split-album scritto con Claver Gold. Ne abbiamo parlato con Alessio stesso, in preparazione per il suo prossimo tour. 

Ciao, Alessio! Dunque, l’uscita del tuo ultimo lavoro, Storie d’Amore con Pioggia e Altri Racconti di Rovesci e Temporali, porta ulteriori evoluzioni al tuo percorso di ricerca: entrano in gioco sperimentazioni su metriche che strizzano l’occhio sia al reggae che alla trap e alla drill (quest’ultime già anticipate in INFERNVM, con Claver Gold), prosegue in alcuni brani il tuo ricercare forme più melodiche e musicali, intenzione che ritorna nella scelta, per la prima volta, di proporre un live assieme ad un’intera band e, sorprendentemente, eccettuati i brani con riferimenti storici, nessun personaggio muore a fine pezzo! Scherzi a parte, a fronte di una presenza trentennale nel mondo musicale, è molto bello osservare che c’è ancora volontà di cercare qualcosa di nuovo, nonostante il lavoro sul tuo stile ti abbia già portato ad un linguaggio così specifico e personale, cesellato e riccamente ornato. Come sei arrivato a queste nuove direzioni? Com’è il tuo rapporto col cambiamento, in relazione al tuo linguaggio?

Sì, questo è decisamente il mio album più sudato perché mi sono sforzato di uscire dalla mia comfort zone ed evolvere innanzitutto la mia relazione con la melodia, provando a cantare di più, e in secondo luogo sperimentandomi su sonorità diverse, più attuali, grazie al contributo del talentuoso beatmaker James Logan. Ma soprattutto, con l’aiuto del compositore Gian Flores, ho tentato di costruire delle melodie assieme al produttore, al posto di adattarmi alle basi per come mi venivano proposte. La volontà era per l’appunto quella di mettermi alla prova, cercando nuove formule non solo dal punto di vista musicale ma anche da quello compositivo e quindi provare a uscire dalla narrazione-storytelling stretta per avvicinare di più il flusso di coscienza, la poesia o comunque una forma espressiva che non avesse per forza una trama ma che si muovesse più per immagini.

Una cosa che mi ha sempre colpito è il numero e la capillarità delle tue collaborazioni con altre persone, sia all’interno dei tuoi album che in progetti altrui, passando dall’underground meno conosciuto a grandissimi nomi della scena nazionale, adattando il tuo stile a quello dell’altro artista e tuttavia conservando così bene il tuo gusto personale. In che modo nascono queste collaborazioni, come si sviluppa il dialogo creativo con altri liricisti?

Le mie collaborazioni sono rivolte a persone che stimo, che mi incuriosiscono, artisti con cui penso che possa esserci un dialogo proficuo. Fa parte anche un po’ della mia identità la progressione, il voler provare tante forme espressive e voler visitare i mondi degli altri, è parte della mia concezione di arte come percorso, e quindi sviluppare delle canzoni dove gli ospiti possano sentirsi a proprio agio pur mantenendo la mia identità è un modo per sperimentare e mettermi alla prova, cercando di far scaturire delle forme artistiche anche inaspettate.

La tua scrittura, che è molto immaginifica, crea un legame molto stretto tra ambientazione e personaggio – complici anche i concept dei tuoi album, che sono già loro stessi presupposti a cui fare riferimento e che richiedono contestualizzazione. Questo legame, però, lo vedo accostato molto alla scelta delle strumentali, che facendo anche tesoro della pratica del diggin’ sfornano una serie di rimandi a generi musicali molto particolari per confluire in un beat, che in alcuni casi della tua discografia determinano l’ambientazione almeno al pari del testo: dalla musica classica minimalista a quella orchestrale passando per il blues, fino a sfociare nel metal o nelle mazurke francesi. Lo stesso utilizzo di una sorta di leitmotif, in Storie d’Amore con Pioggia, tra le due parti di Black Rain e Diluvio Universale, crea un’altra lettura dei tre testi. Qual è il modo in cui questi due tipi di ambientazione, quella sonora e quella che sgorga dalla penna, si interlacciano? Quali sono i tuoi metodi di lavoro, in rapporto alle strumentali?

Rispetto alla relazione che c’è tra scrittura e composizione musicale ho già detto sopra che per la prima volta ho lavorato alla stesura della produzione da zero, e quindi c’è stato un approccio diverso rispetto al passato. In questo progetto ci sono produzioni che dialogano molto di più con gli strumenti suonati, questo è un album che porterò in tour con una band e per cui, sì, c’è una relazione diversa, più ricercata, fra la musica e il testo. Il fatto che ci siano tante contaminazioni fa parte, come dicevo prima, della volontà di sperimentare di più e di rendere in modo nuovo dei testi che continuano ad avere una loro complessità. Ecco, diciamo che il mio obiettivo, in questo momento, è di riuscire a rendere con sonorità sempre più melodiche e coinvolgenti testi che non cedano dal punto di vista della complessità concettuale. Come ho detto altre volte, tra il serio ed il faceto, dopo quella politica, didattica e narrativa, ritengo di essere nella mia fase melodica.

Sotterraneamente alla pioggia, tra i brani del tuo ultimo album scorre anche la tematica del tempo e del rapporto che l’umano ha con esso, che si tratti di memorie della vita dei personaggi, viaggi spaziotemporali, epoche storiche poco ricordate, oscuri futuri distopici o eventi fantastici che sottendono un prima/dopo netto, come il diluvio universale. La scrittura stessa è una forma di dialogo col tempo, e così come il tuo insegnare al liceo, in bilico tra il divulgare fatti passati e il comunicare con una generazione nuova, con le sue evoluzioni di linguaggio e di immaginario. Com’è il tuo rapporto col tempo, anche considerato il tuo doppio lavoro e le indubbie questioni logistiche che dovrai affrontare al riguardo?

Sì, effettivamente ho un rapporto col tempo molto particolare, e sicuramente si è riversato in questo disco. Mi intriga tantissimo il fatto che il tempo ci consumi ma nello stesso tempo non esista, le riflessioni di Kant al riguardo, a partire da Sant’Agostino, mi hanno sempre affascinato. Ho una paura incredibile di perdere tempo, forse proprio perchè ho paura che il tempo che abbiamo a disposizione sia sempre troppo poco per fare tutte le cose che la vita ci dà la possibilità di fare. Ho un rapporto col tempo un po’ conflittuale, anche perchè mi porta a confrontarmi con la nostra finitudine e con quella delle persone che ci stanno vicino. Nello stesso tempo sono anche tantissimo affascinato dal tema del viaggio spaziotemporale, che poi ricade sulle cose che ho detto prima, e anzi ne deriva, e così anche dalla letteratura e dal cinema che si fondano su questo tema. Quindi sì, il tempo è una mia grande passione dal punto di vista della riflessione concettuale, ho provato a svilupparne un’espressione di tipo artistico, mi ha fatto paura e quindi ho pensato che la pioggia fosse un buon mediatore ambientale per esprimere il tempo in una forma più lieve, meno approfondita e soprattutto meno angosciante.

A partire dai concerti-performance in teatro assieme a La Kattiveria fino alle date in combo con Roby il Pettirosso alle live visuals, passando per tutti i talk, le interviste e i confronti, il tuo rapporto col palco non si è mai esaurito nella semplice esecuzione dei brani, consentendoti da un lato altre modalità di espressione e dall’altro di poter calcare palchi e toccare contesti che sono preclusi ad altri tuoi colleghi meno istituzionalmente “letterati”, arrivando ad un pubblico che magari non è mai stato toccato dal linguaggi del rap. Come cambia il tuo rapportarti al palco a seconda del contesto? Hai delle storie di esperienze in cui il luogo della performance ha generato risultati inaspettati?

Effettivamente mi capita di performare in contesti che vanno dalla jam hip-hop, quindi un contesto più street, più giovane, fino ai festival culturali dove c’è un pubblico di tutt’altro profilo e che richiede una riflessione e un approccio meno urban, però io sono a mio agio in entrambe le dimensioni e in tutte quelle che ci stanno in mezzo. Questa è una cosa molto stimolante, mi piace cambiare contesto, e anche se il tipo di presentazione che faccio e il tipo di linguaggio che utilizzo sono diversi, fanno tutti parte di me. Reinventarmi ogni volta è una cosa che non temo e che mi tiene decisamente stimolato e vivo. Mi è capitato di vivere delle situazioni particolari in base al contesto, tra queste sicuramente quella che ricordo meglio è stata l’esperienza dell’intervista con Guccini nella quale mi sono ritrovato a confrontarmi con questo grandissimo cantautore in un talk decisamente interessante e quindi a fare un concerto nel quale io cantavo i miei pezzi in questo teatro in cui, nel backstage che riuscivo a vedere mentre cantavo, vedevo Guccini che mi ascoltava. Questa è stata una delle situazioni più memorabili che ho passato. Un altro episodio è legato al Festival Manzoniano che c’è stato quest’estate dove mi sono confrontato con un docente della Cattolica su Dante, anche in questo caso è stato estremamente stimolante unire i due linguaggi e trovare un punto d’incontro tra la cultura accademica ed una più musicale, ma anche la mia personale, più collegata alle scuole superiori, con degli ottimi risultati anche a detta del pubblico, che ha trovato interessante mediare stimoli culturali alti con riferimenti musicali legati alla musica leggera, fondamentalmente.

All’interno dei fatti che racconti, che si tratti di cose avvenute realmente, del tutto fantastiche oppure verosimili, raramente il personaggio Murubutu prende parte personale all’azione e spesso la tua stessa figura, per quanto rimanga ben presente nello stile della narrazione, scompare nel punto di vista del narratore delle storie, talvolta degli stessi protagonisti. Paradossalmente, oltre ovviamente a riconoscerti nella scelta delle storie stesse e dei significati che possono sottendere, la tua presenza si rivela più chiara nei brani senza un racconto preciso dietro, in cui è il tema stesso che rivela, nel tuo descriverlo, lo sguardo con cui lo osservi. In un genere dove il racconto di sè stessi e del proprio personale taglio con cui si descrive ciò che si ha attorno, questa scelta è peculiare. Terminando questa intervista, vorrei chiederti da dove sia arrivata questa decisione, se fosse stata cosciente o se semplicemente sia accaduta e, dopo anni, quali siano le cose a cui ti abbia portato a livello espressivo questa scelta.

Sì, questa cosa che dici è molto interessante, che il mio io emerge di più nella prospettiva con cui approccio testi meno strettamente narrativi. È comunque vera questa volontà di non parlare di me, oltretutto in un genere che va in tutt’altra direzione attraverso l’egotrippin’ e attraverso le narrazioni di vita, che siano credibili o meno. Non è tanto una scelta, credo che la cosa dipenda da due fattori: in primo luogo è la mia curvatura narrativa che mi porta a raccontare storie in terza persona, poi è chiaro che la mia esperienza di vita in qualche modo ritorna, però lo fa in modo molto indiretto, e in secondo luogo penso dipenda anche dal mio carattere, a me non piace tanto parlare di me, oppure mi piace farlo ma in modo più indiretto. Ecco, penso che dipenda soprattutto da questo.

ODE ALLA PIOGGIA (INTRO) 

Ma tu pioggia che cadi e canti, ti alzi nell’aria
Danzi il tuo pentagramma sotto il cielo del secolo
Sento un coro dall’alto e intanto il cuore si incanta
Infiamma il canto dell’acqua sotto un cielo del Tiepolo

Rimbomba-mba-mba nell’etere, l’etere, l’etere la sua sinfonia
La pioggia-gia che scende-nde-nde-nde ha una sua melodia
Quest’onda-nda di gemme-me-me e crea una sua armonia
Ritorna a risplende-nde-nder e poi ti porta via

Tu pioggia che scendi, sciogli un po’ di ricordi
Mentre grondi fra i rombi di tuono giù a terra
E prima stavi fra i nembi, ferma sopra altri mondi
Fra le nubi coi volti di uomo, Mantegna

E quando inizi, fissa e fitta, dritta e obliqua
Picchi i tasti sopra l’erba, lasci l’aria trafitta
Baci l’anima afflitta, in più la permei e la ritmi
Ma quando il rito della terra più eterna che Whitman
Ma il mondo che brilla di mille pupille divise da righe di linee visibili

Ogni goccia che stilla là fra le tue ciglia dipinge le vie delle vite possibili
Questi ricordi caduti fra noi, noi
Insieme alla pioggia di Joy-Joyce

Punteggian con stile il tuo libro di terra che scrive e cancella gli stessi capitoli
E tu pioggia sugli occhi che mi gonfi i ricordi
E il suo era così enorme che colava sui fogli
Sopra il senso dei giorni ed io sospeso fra i mondi

Sai, pioveva così forte, l’acqua entrava nei sogni
Copri d’argento quest’alba sul vicolo
Scuote il silenzio nell’aria, Quasimodo
Forti le gorghe ricolme di foglie, memorie e ricordi in un flusso continuo

Ma sti venti qui ti amano, di-di-dilagano
Nei cieli che richiamano i destrieri di Nabokov
E tu pioggia sorpresa stai nell’aria sospesa
Miri e scruti il riflesso della luce che emerge
Attese dentro a una schiera, mille nubi in attesa
Come il cielo del Correggio mentre assume la Vergine

Rimbomba-mba-mba nell’etere, l’etere, l’etere la sua sinfonia
La pioggia-gia che scende-nde-nde-nde, ha una sua melodia
Quest’onda-nda di gemme-me-me e crea una sua armonia
Ritorna a risplende-nde-nder e poi ti porta via

Mille lampi e bufera, mille dardi in faretra
Vivo sotto a un cielo-mare fra le strade di Fischer
E tu mi guardi sotto sera, tu mi baci, tutto trema
E quando smette il temporale la tua bocca svanisce, sparisce

Ed ogni goccia di pioggia sui vetri
L’ammira mentre appoggia la punta dei piedi

Testo e voce di Murubutu ft. dj caster
Produzione James Logan, Gian Flores, XxX Fila e Red Sinapsy