S.ee | Umani sognano leoni elettrici?

  1. Per te scrivere è un bisogno, ma di cosa?

Scrivere è come un ritorno alla memoria, ai luoghi, alle persone, alle loro voci, ai loro volti, ai loro odori.
È anche un’osservazione costante delle cose, che richiede la mia presenza assoluta.
Ma scrivere è sempre scrivere nell’assenza e un venire dopo, quindi per necessità diventa anche un altrove al tempo stesso. 
Per me è un atto di spolpamento di vivisezione per guardare nuovamente nelle cose.
Quello che mi interessa è proprio l’apertura che ti da la scrittura in versi, l’aspetto anarcoide che mantiene rispetto alle altre scritture organizzate.
Perché allora il linguaggio può come risvegliarsi.
Poi per me inizia sempre, quando mi dedico a questo, l’eliminazione. Procedo per sottrazione, per trovare l’aderenza tra senso, immagine, suono, biografia.

Scrivere per me è un atto di spolpamento di vivisezione per guardare nuovamente nelle cose.

2. Gli argomenti dei quali preferisci scrivere?

Non credo che ci siano argomenti privilegiati nella scrittura.
La scrittura per me è materica, solida, si crea dal vissuto, è esperita.
Quindi di base credo di non aver mai maturato lo slancio immaginativo che hanno i narratori per esempio o i drammaturghi gli sceneggiatori, nell’inventare personaggi, storie, a partire da sé stessi o dagli altri o comunque non mi ci sono mai del tutto dedicata come autrice.
Per molto tempo, il mio binario poetico era la memoria, nella fissazione della sua perdita e della sua ricostruzione.
Ad oggi quello che mi preme di più è il racconto del corpo, della sua carnalità del suo legame con la parola, il suono e quindi l’indagine performativa su me stessa, sul linguaggio, sul donare oralmente il testo che diventa corpo con me. Ritrovare una carnalità della parola.

3. Cosa del tuo contesto ti influenza maggiormente quando scrivi?

Quello che entra direttamente nei miei testi sono le relazioni, la loro generazione o la loro degenerazione. Le relazioni con i luoghi le persone le loro voci i loro corpi.
Il contesto dove vivo è urbano e questo segna chiaramente i miei scenari che sono contaminati di luci artificiali, di colori artificiali, di odori ferrosi, di suoni concreti, di rumore.
La bellezza sta nell’evasione da tutto questo, plasmandolo in qualche modo. Cercare l’intimità. Credo che i miei testi lo siano molto. Ma dentro poi si insinua tutto, la mia condizione, la condizione delle persone che incontro, quindi emerge un’attenzione politica verso mondo, o sta emergendo in ciò che sto scrivendo oggi, in qualche modo critica.
Comunque ho bisogno di sentire, al di là dello scenario (che comunque mi aiuta se naturale, i boschi, l’acqua, la terra) al di là del luogo è proprio il movimento quello che mi serve. Ho un bisogno fisico di viaggiare di muovermi, anche a piedi. Il passo mi riannette ad un ritmo, una musicalità interna della lingua che diventa la mia lingua e nel tempo lo considero il mio training principale.

Quello che mi preme di più è il racconto del corpo, della sua carnalità del suo legame con la parola, il suono e quindi l’indagine performativa su me stessa, sul linguaggio, sul donare oralmente il testo che diventa corpo con me.

4. Quale cambiamento è stato più potente dal tuo punto di vista per la storia dell’arte poetica… di domani? (mezzi, tecniche, eventi)

Ciò che mi colpisce sempre della scrittura in versi è che conserva la sua antichità rituale nella restituzione orale, solo se questa è autentica, cioè svuotata del narcisismo del mettersi in scena come dei “personaggi”. Cioè io trovo che sia un controsenso il poeta che si crea un personaggio, se no a quel punto si parla di attori. Certo ci si può creare un’immagine, un’estetica comunicativa, ma questo è un punto che conserva ambiguità e secondo me potrebbe essere considerato più come un gioco. Il gioco permette di non prendersi troppo sul serio. Ma se si recita la parte del poeta di un qualche tipo, qualcosa stona, si perde l’empatia, cioè almeno io perdo l’empatia, perché la scrittura poetica contiene questo tacito patto con l’autore, cioè di avere il coraggio di mostrarsi per la persona che si è, per il mistero che si è. Secondo me, almeno per quello che più mi ha toccato artisticamente, più è profondamente personale un atto artistico, poetico, più è potente ed eversivo. Ma per esserlo credo bisogna ricercare e ricercare e divertirsi nel ricercare e liberarsi qualunque cosa voglia dire liberarsi.

Il mio nome progettuale S.ee, che non è altro che la vocale protratta della prima sillaba del mio nome, e mi permette di creare non un distacco, ma più un prolungamento della mia identità, da scrittrice a compositrice performer, quindi è un giocare con la mia immagine certo, ma è anche un definire il mio lavoro la mia ricerca artistica al di la della carta scritta.
La diffusione di pratiche performative in poesia è stata un po’ la diretta conseguenza dei tempi. In passato molti attori-attrici prestavano voce a testi di altri poeti, ora è lo scrittore che si vuole porre in luce. Questo ha creato molti fraintendimenti su quello che è il lavoro effettivo che comporta l’uso della voce. La scrittura è una cosa, l’oralità un’altra e richiede un training, una disponibilità, un’apertura vocale che non si improvvisa. Soprattutto se si costruisce una resa pubblica dei propri testi come performance e non come semplice reading.

In passato molti attori-attrici prestavano voce a testi di altri poeti, ora è lo scrittore che si vuole porre in luce. Questo ha creato molti fraintendimenti su quello che è il lavoro effettivo che comporta l’uso della voce.

Poi ci sono varie etichette che cercano di dividere i fenomeni scenici degli autori: slam (spesso confondibile con la stand-up), spoken word, poesia performativa, performance di poetry music (anche qui ci sono altri sottogeneri ancora) ecc… Ma questo non assimila niente né riduce niente. È forse un tentativo di dividere un macro-fenomeno, che vede al suo interno artisti che spesso in comune hanno molto poco, se non il fatto di essere autori dei loro testi e/o delle musiche e di proporne una resa orale.

5. L’arte serve… a chi?

Sul discorso sull’arte, è un discorso enorme. Credo che L’arte sia utile, credo che l’arte sia inutile.
Mi occupo di poesia, composizione, teatro di ricerca, quindi posso dire nel mio piccolo che certo è utile, necessaria per trovare espressione, per creare relazioni, per scavare ricercare, se no non la tenterei. Però è anche inutile materialmente, nel senso che l’arte in quanto tale non può essere confusa con l’intrattenimento o l’edulcorazione dei suoi contenuti per diffonderla meglio.
Se si pensa alla lingua della crudeltà artaudiana si può capire cosa intendo per non edulcorazione, o ai versi di Maria Marchesi, o di Patrizia Vicinelli.
L’arte non dovrebbe mai segnare confini, o essere segnata da confini, semmai il contrario, essere costantemente irrisolta.
L’arte, la poesia serve davvero a tutti se ci si predisponesse per farne parte con una certa criticità e anche un certo studio.
Però quello che si produce con l’arte è inutile, inconsumabile, per dirla con Pasolini, io produco una merce inconsumabile. Allora lui si chiede “come faccio a fare parte del sistema pur criticandolo? Si possono sfruttare le strutture capitalistiche che ci circondano”. Quindi per noi i social, l’immagine, il video, che permettono di esistere in termini di comunicazione artistica imposta come principale forma, a mio avviso vanno bene. Ma è sempre una forma, i contenuti sono altro e possono comunque essere più coraggiosi di molto di quello che gira online. Chiaramente in una società basata sulla comunicazione continua e sulla visibilità, soprattutto se produci arte e non puoi permetterti un ufficio stampa, la cura, la diffusione, la continuità della tua arte spetta solo a te.

Ascolta l’intervista


S.ee è il nome progettuale di SERENA DIBIASE, autrice di poesia nata a Bologna. Ha pubblicato Nelle vene, (Manni edizioni) e Amnesia dei vivi (Italic Pequod).  Performer e compositrice elettronica, i suoi studi teatrali e musicali si sono via via indirizzati verso un più specifico uso della parola e del corpo/voce. Ha collaborato a progetti di Armando Punzo, Andrea Adriatico, Stefano Masotti, Romeo Castellucci, Chiara Guidi, Silvia Gallerano, Motus, Francesca Ballico. Suoi testi compaiono in riviste, antologie e blog online, e sono tradotti in inglese, spagnolo e russo. Fa parte del collettivo di autori raccolti sulla piattaforma online NeutopiaRivista del Possibile. Partecipa a festival di poesia e nuova drammaturgia (RicercaBo, ParcoPoesia, Pordenonelegge, Biennale College Teatro, Langue Festival, PerAspera Drammaturgie Possibili, FLA festival, Here Torino). Nel 2018 arriva in finale al premio Alberto Dubito di poesia con musica, e viene selezionata dal concorso Bologna in Lettere 2019 per la sezione di poesia orale e performativa. Da questa ricerca testuale e sonora nasce il progetto S.ee, che indaga il linguaggio della poesia attraverso supporti più propriamente tecnici quali software e campionatori, per la costruzione concreta della drammaturgia sonora atta ad accompagnare la voce, che live diventa strumento d’interazione corale e al tempo stesso elemento anarcoide, disgregato, onomatopeico, puro respiro e battito. La sua ultima raccolta è La bambina lo sa (Edizioni La Gru), da cui è tratta La b, performance in fieri di vocals, parola e soundscape.

In copertina, ritratto dell’autrice