Difficilmente scorderò quella sera di gennaio. Ci sono ficcato dentro come un chiodo. La Procura della Repubblica mi aveva convocato per farmi alcune domande intorno a un caso di scomparsa di cui si stava facendo un gran parlare in città. La cosa incredibile è che ero stato attenzionato per errore, nel senso che si trattava di un equivoco, uno scambio di persona. Del resto lo scomparso io non lo conoscevo affatto, eccetto il poco che mi era capitato di leggiucchiare sui quotidiani locali. Un caso di cronaca da rotocalco che ormai, colpa di quella stramaledetta convocazione in Procura, mi ritrovo appiccicato addosso come un’ombra.
E dire che sulle prime sembrava che tutto dovesse risolversi in un interrogatorio di routine, di quelli che si fanno a “persone informate sui fatti”, tanto per acquisire “sommarie informazioni”. Pare che lo scomparso abitasse nel mio quartiere. Forse avevo visto qualcosa, forse no. Io poi di giurisprudenza non ci ho mai capito un accidente. Reputavo comunque improbabile che sarei potuto essere di un qualche aiuto per la soluzione del caso. L’agente di polizia giudiziaria preposto a condurre le indagini mi aveva accolto nel suo ufficio con uno sguardo distratto e il “buonasera” di chi vorrebbe essere altrove, magari in pensione, per poi tornarsene svogliato allo schermo del suo pc a ticchettare lento, tasto tasto, con gli indici tozzi.
Un uomo che ti colpiva tanto era massiccio e, nell’insieme, tolta la divisa con tutti i suoi belletti, selvatico. A incontrarlo in un bar, in maniche di camicia, lo avresti detto un legnaiolo o un manovale. Una cascata nera di baffi gli scendeva fin sotto il mento, lasciando intuire l’altezza della bocca giusto da un alone tra l’arancione e il biondiccio che gli sporcava i baffi, tradendo così abitudini da fumatore accanito, di quelli però che sul lavoro e in auto le sigarette neanche per scherzo, ché poi ti puzzano addosso, mentre lui emanava un afrore di deodoranti e brillantine che sgrossava ancor di più la sua stazza di uomo piantato.
Se era un colosso. Uno spreco in quell’affaccendarsi da becchini che è appunto il mestiere dell’investigatore. I pochi metri quadri del suo ufficio gli andavano decisamente stretti. Una stanzetta spoglia e ordinata che consisteva in una scrivania, qualche carta, le targhette ai meriti professionali, la foto al mare coi figli, due seggiole per i ricevimenti, il pc, gli scaffali coi faldoni, una natura morta malamente incorniciata alle spalle, la finestra sul traffico.
Ciò che però colpiva maggiormente nella sua persona era la chioma di capelli grossi e scuri che, nonostante l’impiastro di cera messa a pacchi per tenerla schiacciata indietro, montava e montava che non c’era verso di distinguere la fronte dalla nuca, eccetto che per gli occhi, minuscoli e appuntiti, d’un nero intenso, che parevano un concentrato di materia e luce divorata.
«Lei prima non mi ha raccontato tutto, o sbaglio?», proruppe con una voce piena, di pancia, palesando fin da subito l’assurda convinzione di conoscermi, nonché di avermi addirittura interrogato in precedenza, continuando intanto a ticchettare al pc con la solita aria di sufficienza da impiegato.
Immaginate l’imbarazzo. Già alla portineria della Procura, smarrito, avevo provato a spiegare che doveva esserci stato un qualche disguido a livello di segreteria: «Temo che mi abbiate confuso per qualcun altro…».
«Lo faremo presente», mi aveva risposto frettolosa una voce femminile da dietro un diaframma in plastica. Ma vai a capire in quale incunabolo burocratico o tana di ragno doveva essersi smarrito il mio messaggio.
L’agente continuava imperterrito con l’interrogatorio: «Mi spieghi questa…», e con un gesto secco fece scivolare verso di me un fascicolo verde e sottile per poi rimettersi alla tastiera; sopra il fascicolo, una scritta a macchina: caso l. «Al momento, questo è tutto ciò che abbiamo raccolto. Due tre fogli stampati in fronte-retro, assai difficili da decifrare. Non sappiamo se si tratti di una lettera d’addio o cosa. Io, se permette, sento una gran puzza di depistaggio. Lei è proprio sicuro di non saperne niente? Ma che aspetta, apra il fascicolo…».
Abbozzai un sorriso un po’ goffo. Possibile che nessuno si rendesse conto del bisticcio? Arrivati a questo punto non c’era nemmeno più la scusa del tran tran da sbrigare sulla tastiera. Adesso l’agente era lì con gli occhi fissi nei miei come per strapparmi l’anima di dosso.
Aprii appena la bocca per provare a sciogliere l’impiccio che, più che imbarazzante, si stava facendo oltremodo ridicolo; dirgli: “Mi guardi in faccia, mi guardi bene…”.
Ma lui, di nuovo, troncandomi le parole sulle labbra: «Apra il fascicolo, avanti. Mi aiuti a decifrare questi fogli…».
Presi a oscillare sulla sedia, in preda a un’ansia che lascio immaginare. In testa una fitta che nemmeno. Un attacco improvviso di nevralgia. Quellʼaria satura di deodoranti, di brillantine. Osservavo l’agente come chi è lì lì per rimettere l’anima all’Orco. Io, uomo della strada, che nella vita sono sempre stato attento a tenermi lontano dai guai, che mai sono andato a cercar grane per il mondo, che ho speso i miei anni migliori nell’amicizia, che bastano un bicchiere e un piatto di pasta a farmi imperatore, ritrovarmi da un giorno all’altro così, nel ventre della giustizia.
Perché mi avevano convocato? C’erano già stati altri interrogatori in precedenza? E se dentro a quel fascicolo mi avessero preparato una trappola per incastrarmi? L’unico desiderio che avevo in quel momento era di sparire. Le vertigini continuavano a tormentarmi. Così la morsa della nevralgia. Sentivo il pavimento come sul punto di spalancarsi in una bocca. Attaccai a rimuginare tra me e me il nome dell’agente – sempre che le targhette di cui faceva sfoggio appartenessero a lui – per mantenere la concentrazione: “Barbariccia, Barbariccia, Barbariccia…”.
Contemporaneamente provavo a rammentare le sue parole. Lui, inesorabile, insisteva a tenermi gli occhi addosso. L’eco di una colpa ancestrale – “che ho fatto? che ho fatto?” – i sensi di colpa, dicevo, mi torcevano il ricordo fino a falsificarlo. La mente fantasticando semplificava l’ufficio riducendolo a pochi elementi, come per renderlo più maneggevole. Via la foto di famiglia, via le targhette, via le carte, via gli scaffali coi faldoni, via la natura morta. Sono seduto alla scrivania dell’agente Barbariccia, che se ne sta lì davanti a me a ticchettare lento sul suo pc. Mi scruta di sottecchi. La sua testa è un’enorme e fitta palla di pelo. Il suo odore sfacciato di pulito mi trafigge le tempie. Poi il “buonasera” di chi è distratto da altre faccende. Mi dice: “Lei prima non mi ha raccontato tutta la verità, o sbaglio?”, quindi con un gesto secco fa scivolare verso di me il fascicolo del caso l.: “Avanti”, mi esorta, col suo vocione calmo e profondo, l’argento dei bottoni e le spille della divisa da poliziotto che mi sfolgorano nelle pupille: “Mi aiuti a decifrare questi fogli…”, continua a incalzare.
Scuoto la testa; parlo: “Come devo dirglielo? Si tratta di uno scambio di persona. Io questo L. neanche lo conosco…”.
E il Barbariccia, spazientito: “Andiamo, cosa le costa? Testa di rapa! Mi aiuti a decifrare questi fogli…”, e, con estrema lentezza, tira fuori la pistola dalla fondina. Poi alita sulla canna, la sfrega con la manica della divisa, fa come per specchiarci sopra la sua impossibile faccia tutta baffi e pelliccia per poi appoggiarla sulla tastiera del pc, tenendo la mano sul calcio.
Apro il fascicolo: “Ma, che significa?”.
L’agente mi sta fissando dritto in faccia: “Ancora non ha capito…?”, i suoi occhi neri sono un concentrato di fotoni che sembrano volermi disintegrare. “Una lettera di addio…?”, prosegue, “un depistaggio…? ma no… secondo me, invece…”.
Il fascicolo consiste in un migliaio di fogliacci zeppi di ghirigori buttati giù a penna e a matita che ripetono ancora e ancora la stessa scritta: caso l. Sembra la mia grafia.
Mi aggrappo alla sedia, in preda all’angoscia. La nevralgia mi sta scavando a zampate dentro le orbite. Osservo la mano destra dell’agente che accarezza il calcio della pistola. Io, uomo qualsiasi, ritrovarmi all’improvviso in bilico tra la vita e la morte.
L’agente rinfila la pistola nella fondina, apre il cassetto della scrivania, estrae un rasoio elettrico e collega la presa: “Ancora non ha capito, eh…?”, seguita a sfidarmi, e, premuto il pulsante di accensione, si mette a radersi la selva di capelli e baffi che gli coprono il volto.
Il ronzio del rasoio è estenuante. Trascorrono minuti, ore, mesi, secoli! Tolta la prima ciocca, mi sembra di intuire i lineamenti di un qualche personaggio da rotocalco. Un calciatore, un politico, un senatore, un luminare, un artista, un riccone. Alla seconda ciocca, sono quasi certo di trovarmi di fronte al sindaco della mia città. Quindi il delirio, il volto del Barbariccia che ciocca dopo ciocca frulla veloce come un colpo di slot machine: vedo concittadini, conoscenti, amici, zii, fratelli, mio padre, mia nonna – e io in preda al panico che mi tormento: “perché mio fratello? perché mio padre? perché mia nonna?” –, il ronzio del rasoio che adesso suona come la melodia ipnotica di un carillon.
Tolta l’ultima ciocca, tic tac tic tac tic tac, i rintocchi disuguali degli occhi ferini del Barbariccia che rimbalzano sulla scrivania come palline da ping-pong e quel colosso d’investigatore via, svanito nel nulla, scomparso. Sulla sua sedia soltanto la divisa da poliziotto imbrogliata dentro un folto di barba e capelli. Sono solo. Il rasoio elettrico è lì a terra che continua a ronzare e ronzare. Il traffico che preme contro il vetro della finestra.
Poi allʼimprovviso – pam! – uno schianto fragoroso, l’agente che mi riscuote dalle mie fantasticherie tirando uno schiaffo pieno sulla scrivania: “Che aspetta? Avanti, apra il fascicolo…”.
Sobbalzo sulla sedia; mi guardo attorno: “Che significa?”.
“Ancora non ha capito…?”.
Cielo! Adesso non mi trovo più nemmeno in un ufficio della Procura. Sembra di stare in una grotta, sì, dentro una penombra soffocante che sfuma tra il buio e un grigiastro luminoso e inorganico. L’agente è seduto davanti a me. Intuisco giusto una debole luce che gli balena negli occhi, il brillìo fioco delle medagliette sulla sua divisa. L’aria è densa di una puzza corposa di vino e di tabacco.
Poi all’improvviso – pam! – un altro schianto. Sono seduto alla scrivania della mia cameretta, davanti al pc, al buio. Sullo schermo, una pagina di scrittura: caso-l.doc.
Poi un altro schianto: sono in cucina; la macchinetta del caffè che borbotta sul fornello, il pentolino del latte. Poi un altro schianto: sono sul divano; alla tv c’è l’agente Barbariccia al centro di un dedalo di microfoni e telecamere, a reti unificate: “Dopo anni di indagini abbiamo finalmente arrestato il mostro, quello vero…”. Poi un altro schianto: ho dodici anni; sto pescando in riva a un ruscello, dietro casa della nonna; il cielo limpido, i susini in fiore. Poi un altro schianto: tic tac tic tac tic tac e – pam! – un altro schianto: la padella, un filo d’olio, l’aglio, il peperoncino e – pam! – un altro schianto: sono di nuovo nell’ufficio del Barbariccia; con la sinistra si sta arricciando il baffo, la destra che di nascosto sgancia il bottone della fondina – in testa una fitta tremenda che mi scassa il cervello; colpa dei deodoranti, delle brillantine –, l’agente che sibila sarcastico: “Avanti, apra il fascicolo…”, e dietro una secchiata di palline da golf e biglie che scrosciano dure sulla sua scrivania rimbalzando confusamente in un fracasso ticchettante. Poi un altro schianto: buio. E un altro schianto: luce. E ancora un altro schianto. E ancora. E ancora. E ancora. E ancora. E ancora. Ormai non so nemmeno più dove mi trovo.
Collage di angelica paez
Gregorio H. Meier nasce a Prato nel 1983, frequenta la facoltà di Farmacia ma si appassiona agli studi umanistici e alle scienze naturali. Sue poesie e racconti sono stati pubblicati su «Nazione Indiana», «Il primo amore», «L’Indiscreto», «CrapulaClub». Nel 2021 ha pubblicato la raccolta di racconti Io e Bafometto per Wojtek Edizioni. Il racconto La preghiera dell’estate ovvero una lettera d’addio sarà pubblicato nella raccolta di racconti curata da Vanni Santoni per Intermezzi Editore.