Magari un giorno | Valeria Zangaro

Mi chiesero se volessi farne parte, se avessi voglia anch’io di giocare. L’invito mi arrivò inaspettato, in un momento di inesistenza: non c’era nessun tempo, nessun luogo, io ero ancora niente. E lo sarei stato a lungo se non avessi accettato l’invito che conteneva già la prima delusione: ciò a cui mi apprestavo a partecipare non era un gioco.

Una torre dalla testa nascosta, forse infinita, niente finestre, solo un ponte lungo, lunghissimo, fatto per oltrepassare un fossato di gelatina rossa e acqua e carne, questo trovai. Arrivai davanti a un portone di quelli che quando alzi lo sguardo, ti danno la misura della tua insignificanza.
Prima di entrare aspettai. Non so quanto. Allora non avevo contezza del tempo. Non esisteva nemmeno un prima e un dopo. Infatti mi voltai e la strada dietro era svanita, assieme al ricordo di come dal niente ero finito lì. Ciò che invece ancora ricordo fu il portone che si aprì; soprattutto il pianto, disperato, muto, che provai attraversando la soglia. Perché ero solo, perché non sarei stato più niente. Un passaggio di stato avvenne in quel punto, nel corridoio che stavo percorrendo: mi toccai, ero fatto di braccia e gambe, e mani per sfiorare un viso che non avevo prima. Poi arrivò un’altra porta. Spinsi.
L’aria mi entrò dentro soffocandomi, come fanno certe cose quando sono in eccesso, e fu lacerante, tanto quanto quella che uscì per dare suono a un urlo che prima non aveva voce. Anche la luce, quella, era troppo bruciante. Con un braccio coprii gli occhi, con l’altro tentai, invano, di difendermi da un’altra sensazione che mi investì: il freddo.

Il luogo in cui mi trovavo era fatto di bianco. Quando gli occhi si abituarono, comparve il primo oggetto. Senza sapere il motivo, lo presi in mano e lo assaggiai. Perché qualcosa è davvero tua e puoi dire di conoscerla soltanto quando la metti in bocca, questo mi disse una voce che non si mostrò mai. Poco alla volta mi abituavo alla mia corporeità e a quella che mi circondava.
Comparvero nuovi oggetti e la voce mi elencò i nomi. Diceva che una cosa esiste soltanto se ha un nome. Sediatavolopollomammaciucciolatteacqua. E poi parole più difficili come: amiciziasorrisitristezzarabbiaodio.
Ora che ci penso, quel bianco abbagliante che mi aveva invaso, appena varcato la soglia, finì per diventare sempre più flebile. Non mi importava, ero impegnato a conoscere gli oggetti, finché non mi importò più di conoscere i nomi delle cose; volevo capirne i significati, le origini.
Arrivarono le domande, soprattutto i perché: perché i cani abbaiano, perché la cera si scioglie, perché il sole non cade. E poi altre domande, meno importanti, più importanti, fino alla domanda che mi fece soffrire per tanto tempo: perché esisto?
Nessuno sapeva darmi risposta. Per la frustrazione scaraventai oggetti, sentimenti, mi voltai persino indietro, alla ricerca della porta che mi aveva permesso di essere lì. Trovai la maniglia. Per provare ad aprirla diedi pugni, piansi disperazione, mi ferii i polsi. Poi ritornai in me.
Per distrarmi, mi portarono in un’altra stanza piena di tapis roulant e di persone che correvano, che guardavano fisse verso un punto, che sembravano tutte uguali. Mentre arrivavo al tapis roulant che mi era stato assegnato, capii che mi sbagliavo, che non erano tutti uguali. Intanto c’erano maschi come me e femmine. C’era chi correva velocissimo con il fiatone e chi invece camminava a passo spedito, o lentamente. C’era anche chi andava in senso contrario, ma poi spesso cadeva e si faceva male.

Colui che mi accompagnò al mio posto non aveva nome. Non glielo chiesi. Sembrava non avere voce. Mi indicò soltanto il mio posto e mi lasciò. Esitai prima di salire.

Guardai alla mia sinistra e c’era una femmina che camminava al contrario. A destra, invece, un uomo dalla barba grigia aveva un andamento spedito, nonostante la sua età.
Mi ritornarono in mente le domande sul significato delle cose e glielo chiesi: – Perché corri? – senza guardarmi il vecchio mi disse: – Devo raggiungere l’obiettivo.
– Quale obiettivo? – con il dito indicò lo schermo davanti a sé: – Hai un obiettivo mensile da raggiungere. Corri.
Salii sul tapis roulant, premetti l’unico bottone che c’era e il tappeto scorrevole prese lentamente a muoversi. Il monitor mi avvisò: nel primo mese avrei dovuto raggiungere l’obiettivo di 100.  

Nel mio primo mese lì non rivolsi la parola a nessuno. Però osservai entrambi, sia la femmina che il vecchio. Decisi che avrei seguito l’esempio del vecchio. Così, perché mi sembrava quello coi risultati migliori.
Cercai anch’io di correre più veloce e raggiunsi il mio primo obiettivo. Speravo di poter festeggiare con il vecchio, ma quello neanche mi guardava. Era troppo impegnato a seguire se stesso e i suoi obiettivi. Il tempo aveva l’inclinazione e l’andatura del tappeto scorrevole: piatto e veloce.
Passò altro tempo. La barba del vecchio si fece più lunga e più bianca. Di contro, il mio corpo divenne uomo: peli, muscoli che non pensavo di avere, anche il mio membro era pronto.
Guardai la donna alla mia sinistra. Anche lei adesso aveva ventre per accogliere il mio seme e per godere entrambi del piacere. Mi sorrise. Ricambiai.
– Perché corri?
– Io non corro, mi rispose. Vado per la mia strada.
– E dove ti porta la tua strada?
– Si incrocia con la tua, adesso.

Voltai le spalle al monitor davanti a me. Rallentai il passo, lo calibrai al suo. Intrecciammo dita e piacere, e per un breve lasso di tempo la mia solitudine si interruppe.
All’inizio pensai di aver trovato il modo per essere due e non più uno. A un certo punto, però, qualcosa cambiò; sarà stata la stanchezza dei giorni sempre uguali, con le parole girate e voltate di continuo per attribuirgli un senso nuovo che poi non hanno mai:

Compra questo oggi.
Faccio tardi.
Metti la lavatrice.

Questa fu la mia seconda delusione, fatta dei ti amo che si spengono, lentamente, inesorabilmente, perché la noia, come una pietra, anche se la giri, non smette di essere quella che è. Finii per tornare alla mia forma originaria: da due a uno.
Continuammo a tenere le dita intrecciate, ma io presi a guardare in una direzione diversa, rivolto nel verso opposto al suo. E non perché lei fece o disse alcunché.

Solo dopo lo capii: se nasci con la solitudine attaccata al collo, quella non te la cacci più. Resta lì, è un groppone che non ti fa respirare, anche se motivo non ce n’è.

Le dita mie e le sue si sciolsero e lei smise di correre al mio fianco.
Ripresi a imitare il vecchio, che intanto aveva rallentato il passo. Si vedeva che le gambe non lo reggevano più.
Perché continui a correre?
Il vecchio mi guardò. Non avevo mai visto il colore dei suoi occhi: dello stesso nero del niente. Mi disse: – Che altra scelta ho? Devo muovermi, se non voglio morire.


Dopo aver pronunciato quelle parole, il vecchio smise di correre. Spense il bottone del tapis roulant e quello lentamente si arrestò.

Prima di scendere, il vecchio mi rivolse un ultimo sguardo. La terza delusione albergava nei suoi occhi: la morte.
E lì mi fu chiaro anche che non c’era un perché alla mia, sua, alla corsa di tutti per raggiungere uno o centomila obiettivi. Quando premi il bottone del tapis roulant e ti appresti a scendere, come sto facendo anch’io adesso che tanto tempo è passato da quello sguardo, sai che tutto tornerà a non esistere.

– È per questo motivo che te ne vai, vecchio? – mi ha appena chiesto il ragazzo accanto a me, al quale ho raccontato tutta la mia storia.
– No.
– E allora perché non continui a correre?
– Perché sono stanco.

Do le spalle al ragazzo, cammino con più difficoltà di quando sono venuto, mi fermo per un po’ nella stanza bianca. Ho di nuovo freddo. Gli oggetti attorno a me scompaiono poco alla volta che ne dimentico il nome. Il colore di questa stanza è sempre più accecante. Prendo un paio di boccate d’aria. Respiro profondamente, ché l’ultima cosa che resta di quel luogo è l’aria. E io mi ci aggrappo più a lungo che posso.
So cosa c’è oltre quella porta. È da lì che provengo. Quella è la mia origine. Eppure, ora che ho la mano sulla maniglia, questa trema, esita. E non so perché. In fondo, ho trascorso il mio tempo qui correndo e correndo e quando sono andato controsenso, poi ho voluto cambiare. Ecco il motivo della mia paura: il cambiamento. Una volta che oltrepasserò questa porta, non avrò più possibilità di cambiare. Resterò per sempre niente.
Mi volto indietro, guardo tutto ciò che ero e solo adesso mi accorgo che il mio tempo qui avrei potuto impiegarlo in maniera diversa. Solo adesso so perché lei si muoveva in una direzione diversa da tutti gli altri.
Faccio scorrere un altro po’ di aria nei polmoni. Abbasso la maniglia e apro la porta, attraverso il corridoio con molta più facilità di quando lo percorsi nel senso opposto. Sono già davanti al portone gigante e non devo aspettare che si apra.
Oltrepasso la soglia. Mi volto a guardare questa torre per un’ultima volta.
Magari un giorno tornerò.

Fotomontaggio di Laurent Chéhère