«Si è detto che il poeta è il grande terapeuta.
In questo senso il fare poetico implicherebbe esorcizzare, scongiurare e inoltre, riparare.
Scrivere una poesia è riparare la ferita fondamentale.»
Alejandra Pizarnik
«Perché la ferita sia soltanto ferita
in una carne che nega d’essere necessità dell’anima»
Alejandro Jodorowsky
Nella società che viviamo, in cui la lingua vede ingrossati i suoi campi semantici della sanità e della cura, la parola poetica viene sempre più spesso insignita di un ruolo salvifico, fino ad essere proposta come farmaco o balsamo tout-puissant contro i mali dell’uomo e della donna. Eppure, se ci trovassimo di fronte un ipotetico foglietto illustrativo per la somministrazione della poesia, non potremmo sorvolare su alcune avvertenze.
I punti cruciali da svolgere a partire dal binomio poesia-cura sono – almeno – due. Se il primo rimanda all’annosa questione “Che cos’è la poesia?”, senza pretendere di esaurirlo qui, non possiamo che riflettere su come si produca e su come il sistema cui pertiene – quello linguistico – possa interagire con altri sistemi a loro volta complessi, come quello del corpo e della mente umana.
Il secondo punto sarà definire cosa significhi <cura>, il che ci porrà di fronte diverse possibili articolazioni, secondo le accezioni insite nel lessema. Intanto, una biforcazione che può essere subito resa esplicita prendendo in considerazione i corrispettivi inglesi che tiene insieme: <care> e <cure>. <Care> corrisponde a un «impegno assiduo e diligente nel perseguire un proposito o nel praticare un’attività, nel provvedere a qualcuno o a qualcosa: premura», si riferisce quindi a una modalità dell’agire, a una praxis; <cure> rimanda invece al «complesso dei mezzi terapeutici e delle prescrizioni mediche relative a determinate malattie o a stati morbosi generali: terapia» e può essere quindi associato a una funzione che pertiene all’ambito della medicina.
Riavvolgendo però il lessema seguendo le sue radici etimologiche, risaliamo al latino <cura-æ> e soppesiamo una semantica più estesa. Al primo posto ritroviamo l’accezione di «sollecitudine, premura, attenzione» ma subito dopo emerge quella di «inquietudine, affanno, pensiero, preoccupazione»: l’accezione di cura come «trattamento, cura delle malattie, rimedio, guarigione» la rinveniamo solo dopo averne scorse molte altre, tra cui «oggetto d’amore», «direzione, opera, impegno», «ornamento, cura della persona», «studio, compilazione, ricerca».
Prima del restringimento di significato che ci ha consegnato il lessema <cura> così come lo conosciamo, infatti, questo non era, il più delle volte, il rimedio all’inquietudine o alla preoccupazione, bensì la preoccupazione stessa.
Può dunque la scrittura, che Artaud definiva “un male pericoloso e contagioso”, configurarsi come un antidoto al malessere, fisico o mentale? Se sì, questo rimedio sarà spontaneo e indolore oppure comporterà effetti collaterali e richiederà fatica?
Per avere un riscontro – o meglio, diversi possibili riscontri – rispetto al tema, ne ho parlato con Dome Bulfaro, poeta e performer attivo in corsi di Poetry Therapy, e Sonia Caporossi, poeta e critica, autrice, tra le altre opere, della raccolta Taccuino della cura (Terre d’ulivi Edizioni, 2021).

Dome Bulfaro: la poesia come terapia e indagine del sé
ECB: Cosa si propone di fare un laboratorio di poetry therapy? A chi si rivolge?
DB: La poesia è un “ponte”, ogni suo verso è sospeso nel vuoto e congiunge una sponda dell’ignoto non detto alla riva opposta, sempre appartenente all’ignoto. La Poetry Therapy, che in questa intervista uso come sinonimo di poesiaterapia, precisa dove si dirige questo “ponte”: non più verso l’ignoto, bensì verso la cura, l’aiuto alla consapevolezza e il benessere delle persone, tutte. La poesiaterapia fa bene ad adulti, anziani, adolescenti, bambini, neonati e feti nello sviluppo prenatale. Per questi ultimi, negli anni ho ideato la pratica Nido, poesia in dolce attesa.
ECB: Se la poesia è una cura, a quale malattia risponde? Può essere prescritta?
DB: La poesiaterapia, a seconda della malattia, può funzionare come pratica di cura autonoma oppure va usata come pratica integrata ad altre arti-terapie o terapie. Se volessimo curare un tumore in metastasi soltanto con la poesia, saremmo certamente fuori strada; nel contempo, però, la medicina occidentale sta prendendo sempre più coscienza – vedi ad esempio il crescente ricorso alle medical humanities – del fatto che per curare un organo malato si debba operare sulla persona nella sua totalità e in sinergia con essa, assecondando un “approccio integrato” dell’esperienza della malattia e della cura. Su quali poesie preesistenti utilizzare e quali prescrivere esiste, specie negli Stati Uniti, una letteratura piuttosto estesa. Storicamente, il primo “poetaterapeuta” di cui si hanno documenti, è il medico romano di nome Sorano che, nel I secolo d.C., prescriveva la tragedia per i suoi pazienti maniacali e la commedia per coloro che erano depressi. Nel corso dei secoli la questione della prescrizione si è approfondita e sempre più evoluta. Certamente si possono trarre risposte concrete di auto-mutuo aiuto dall’antologia Poesia per ogni pandemia, che ho curato con lo psichiatra Paolo Maria Manzalini.
L’evento malattia, con i concetti conseguenti di lesione, di dolore, e con la corrispondente paura di eventuale perdita della vita terrena, può essere uno squilibrio di per sé, ma non per quell’essere umano che realmente conosce se stesso, e che è giunto a conoscere se stesso attraverso la consapevolezza. Lo stesso avviene nei migliori percorsi di poesiaterapia: la cura della malattia non può essere separata dal processo di aiuto e sostegno alla consapevolezza di sé. Lo studio del sufismo, ad esempio, aiuterebbe noi occidentali a maturare una visione olistica della malattia. Gabriele Mandel Kân, ad esempio, vicario generale per l’Italia della confraternita Sufi Jerrai-Halveti, ci ricorda quanto disse Âbû Hamid âlGhazalî, grande maestro Sufi ed eminente filosofo islamico: “La malattia è una delle forme di esperienza tramite le quali gli uomini giungono alla consapevolezza di Dio.” O ancora, se consideriamo lo studio di Margot Astroy nell’antologia Il serpente alato (1962): “È chiaro quanto per gli indiani americani fosse fondamentale per la cura il potere guaritore della parola: più dell’erba medicale che veniva somministrata al malato.”
Anche il concetto di “cura” andrebbe meno idealizzato. Stasera ho rivisto Sabrina diretto da Billy Wilder e verso la fine del film Audrey Hepburn (Sabrina) dice al padre, sull’onda della svanita cotta d’amore per David Larrabee e una nuova storia d’amore che desidererebbe vivere con il fratello Linus Larrabee ma che è ancora irrisolta: “Sì, mi è passata oramai, sono guarita, ma ora come guarirò dalla cura?”
ECB: Il poeta si presenta come terapeuta, offre i suoi strumenti di lavoro agli altri, permettendo loro di apprendere e applicare strategie utili a cercare risposte ai propri interrogativi. Chi riceve e impiega questi strumenti si fa a sua volta poeta e terapeuta di se stesso? Siamo perciò tutti, almeno in potenza, poeti?
DB: Joseph Beuys, già negli anni Sessanta, sostiene che “Ogni uomo è un artista”, considerando l’arte una “scienza della libertà”. Il mio lavoro di insegnante di poesia performativa va nella medesima direzione: “Ogni essere umano è un poeta” – quando siamo bambini ne diamo prova costantemente – solo che non sappiamo di esserlo, né sappiamo come incarnarlo. Anche solo imparare a dire poesie ad alta voce, ad esempio, significa imparare a volare, conquistare il coraggio di essere liberi.
Il poeta e il poetaterapeuta, al pari di un musicista e un musicoterapeuta, sono figure affini, ma solo in alcuni casi sono sovrapponibili. Per praticare la poesia-terapia occorre una formazione adeguata che comprende anche l’acquisizione di una deontologia professionale. Con il gruppo Mille Gru, con cui dal 2009 elaboro percorsi di poesia-terapia, stiamo studiando diverse scuole di formazione di bibliopoesia-terapia. Per ora stiamo guardando ai percorsi formativi proposti negli USA e in Europa, specie in Finlandia e Ungheria. Personalmente sto approfondendo le ricerche di figure italiane poco indagate ma di notevole valore, come le “pratiche di etnomedicina” di Antonio Scarpa, la modellistica psicofisiologica di Vezio Ruggieri, la psicobiogenealogia di Antonio Bertoli, ecc. Ad ogni modo, tutti i poetiterapeuti contemporanei sono accomunati dalla volontà di condividere esperienze, modalità, tecniche, strategie per facilitare i colleghi nello svolgere il proprio operato e facilitare il proprio cliente nel trovare una via di guarigione o, più semplicemente, un sostegno alla propria crescita. Spesso chi si avvicina alla poesia o scrive poesia lo fa, consciamente o meno, per guarirsi o aiutare a guarire, anche solo immaginando simbolicamente un mondo diverso, che permetta delle condizioni di vita migliori.
ECB: Ritieni che sia importante, per raggiungere gli obiettivi posti da un laboratorio di poesiaterapia, il carattere orale e performativo della poesia? Lo consideri un momento successivo a quello della scrittura o sono due aspetti inscindibili della stessa pratica? Possiamo dire che la parola si fa corpo e viceversa?
DB: Quando adotto il modello RES del pioniere Nicholas Mazza, tendenzialmente seguo l’ordine più canonico: 1- componente ricettivo/prescrittiva (R); 2- espressivo/creativa (E); 3- simbolico/cerimoniale. Però in poesiaterapia regole precostituite rigide non ce ne sono. Ogni persona e ogni gruppo con cui lavori ha un vissuto e delle caratteristiche proprie. È su quelle che dovrai modellarti. Ai fini della guarigione il carattere orale e performativo della poesia ha un ruolo certamente basilare, come lo hanno l’ascolto, la scrittura e altre componenti proprie della poesia-terapia. Ruolo e importanza dipendono da quale percorso voglio compiere e con chi lo sto compiendo. In generale posso dire che il momento della scrittura terapeutica è quello che più necessita di un “riscaldamento” il quale, solitamente, può essere rappresentato da una lettura da parte del poetaterapeuta, oppure da esercizi di riscaldamento svolti con il corpo.
Il suono della parola ha un corpo, a maggior ragione lo ha la parola. Certamente per “poetizzarsi”, mutuando un bel neologismo della psicologa e poeta Marisa Bracciaroli e appoggiandomi alla simbologia cristiana, nel rito della poesia performativa arriva un momento in cui bisogna che la poesia si faccia carne e quindi corpo. Per dirla con il poeta Antonin Artaud nella poesia Post Scriptum: “(…) voi vedrete il mio attuale corpo / volare via in schegge / e raccogliersi / in diecimila aspetti ben noti / un corpo nuovo / in modo che non possiate / mai / dimenticarmi.”
ECB: Il percorso di terapia che impiega lo strumento poetico ha una sua conclusione, che coincide con una “risoluzione del caso” o della “malattia” oppure si prospetta come processo che è sempre in divenire?
DB: Ci sono nodi che sciogli per sempre e altri che sciogli ma poi si riannodano e quindi vanno di nuovo trattati con il balsamo della parola poetica. Ci sono riti di passaggio che, con l’aiuto della poesia, una volta superati non occorre più che vengano affrontati e, per contro, ci sono disagi, difficoltà, traumi, che richiedono più cicli di incontri.
Teniamo conto che la Poetry Therapy è una pratica che prevede l’uso intenzionale della poesia e di altre forme letterarie per la guarigione e la crescita personale, quindi ad esempio, circa la crescita personale o collettiva di un gruppo classe di una scuola primaria, può essere che il poeta-terapeuta lavori per diverse annualità; lo stesso vale se lavora con anziani in una struttura come una RSA o con malati di Alzheimer residenziali o con malati di mente, senzatetto, alcolizzati, carcerati, coppie in via di separazione, donne che hanno subito violenza.
Detto questo, da un certo punto di vista qualsiasi essere mortale, anche il più sano, vive in un perenne stato di malattia. Salute e salvezza sono termini strettamente collegati tra loro.
È interessante notare che nella contrapposizione malattia/salute ai poeti più “sani” si attribuiscono simbolicamente caratteristiche che di norma si considererebbero un handicap fisico (la cecità) o una infermità psichica (la follia). La migliore condizione di “salute”, secondo il poeta sufi Rûmî, la si raggiunge quando si diventa folli: “Lascia ogni ipocrita astuzia, o amante, / entra nel mezzo del fuoco, diventa pazzo! / Distruggi la tua casa e con il tesoro nascosto in essa / sarai in grado di costruire migliaia di case.” [1]
Spesso il problema risiede non tanto in cosa vivi ma in come lo vivi. Due delle leve che sovente il poetaterapeuta cerca di far azionare dal proprio paziente sono il cambiamento e la speranza, due componenti che non a caso sono alla base di una delle poesie sul coronavirus che più si è diffusa in quel periodo, tanto da diventare un farmaco virale collettivo: si tratta di And the people stayed home (in Italia tradotta con il titolo Guarire) di Kitty O’Meara, una insegnante in pensione, che la compose e pubblicò sul suo blog per sedare le proprie ansie e paure: “(…) qualcuno pregava / qualcuno ballava / qualcuno incontrò la propria ombra / e la gente cominciò a pensare in modo differente / e la gente guarì.” Perché sperare di guarire significa aver già compiuto un enorme passo per guarire davvero.
La poesia che si offre come terapia è perciò uno strumento, secondo Bulfaro, la cui utilità comprovata risiede nel permettere all’io di conoscersi, avere consapevolezza di sé e del proprio percorso di vita. Anche Sonia Caporossi, nel suo Taccuino della cura, porta avanti un’operazione che sembra prendere le mosse dallo stesso tipo di indagine, vediamo però in che modo la conduce.

Sonia Caporossi: la poesia come indagine aperta e crudele
ECB: Il tuo Taccuino della cura (Terra D’Ulivi Edizioni 2021) sembra insistere sulla scrittura come pratica, processo o procedimento di indagine lucida – ma non semplice – dell’io. Eppure, percorrendolo, l’indagine non sembra essere chiusa. L’io si riconosce ma non rimane fermo su se stesso: si avverte, costante, una tensione. L’io è finalmente sé o è anche altro da sé?
SC: Sono una convinta assertrice della teoria di Hartmann, in base alla quale le pulsioni dell’Io non provengono semplicemente da un’intima natura nevrotico-difensiva, come pensava Freud, bensì possono anche essere di impronta adattiva, visto che riescono a dare espressione alla nostra capacità di adattamento alla realtà. La parabola umana vive sul filo sottile di un indefesso Bildungsroman interiore, un costruirsi che è anche un decostruirsi alla luce dell’esperienza, dell’autoanalisi e della presa progressiva di coscienza delle proprie idiosincrasie e della propria “vilipesa umanità”. Dobbiamo, però, essere consci del fatto che fronteggiamo un rispecchiamento identitario slittante continuamente in altro, tale che l’ottenimento di quell’istanza definitoria, nella quale solamente vige la possibilità del “conosci te stesso”, è più un’aspirazione progettuale che un traguardo raggiungibile. L’io, insomma, è sempre un altro, proprio perché è esperienzialmente sempre in altro.
ECB: Si potrebbe dire un’indagine aperta?
SC: Certamente. In fondo, in tutta la mia produzione letteraria non saggistica, sia in poesia (con le mie quattro sillogi) che in prosa (con il dittico di racconti filosofici Opus Metachronicum, Corrimano Edizioni 2014 e Opus Metamorphicum, A&B Edizioni 2021, nonché col mio romanzo onirico Hypnerotomachia Ulixis, Carteggi Letterari Edizioni 2019) ho fatto come l’Eraclito del frammento 80: “Ho indagato me stesso”. Ma l’indagine dei più remoti recessi dell’io, necessariamente, permane nella potenza dell’atto, soggiace all’incostanza e all’accidente, resta consapevole della paradossalità logica di una contingenza assoluta insita nella possibilità del dirsi, che rimane sempre molto al di qua della possibilità del darsi. Allora, se la nostra natura mostra tutta la debolezza di cui siamo (in)capaci, se, per dirsi, non rimane che la poesia come strumento salvifico, l’indagine si muta in operazione artistica, che per natura non concede mai un’ermeneusi compiuta e perfetta. Contrariamente al vanto abituale di cui si ammanta il mezzo linguistico, attraverso la poesia non si dà, infatti, comprensione sensibile del mondo, ma solo apprensione e decodifica parziale del dato attraverso una dimensione estetica che è, insieme, impressione ed espressione. Il poeta si aggira intorno a temi e problemi perennemente aperti, in un sistema segnico e significante osmotico ed espanso. La poesia, secondo me, non è che la più verosimile rappresentazione simbolica, in forma di taccuino e di microfinzioni dell’io, dell’entropia del senso delle cose.
ECB: Questo processo di annotazione non si limita a una registrazione e riproduzione in forma poetica di dati sensibili e significati che intervengono sulla sfera del corpo e della malattia, ma sembra vi sia un’interazione di questi due piani. Mi sono chiesta quindi se in certi spazi che si aprono negli incastri tra il piano verbale e quello preverbale, non si crei quasi una corrispondenza tra il corpo e la carta su cui si esercita la scrittura. Può la scrittura sottrarsi alla mera funzione di codifica, e lasciare da parte il binomio significato-significante, per essere un materiale?
SC: Se la funzione sociale di un corpo sano e il senso di esclusione ed emarginazione insita nel possesso di un corpo malato era già nota benissimo a Giacomo Leopardi, la medesima funzione intrinseca alla malattia mentale è divenuta biopoliticamente determinante almeno da Michel Foucault in poi. Ma già il Nietzsche della Gaia Scienza scriveva, in modo sufficientemente rivelatorio: “abbastanza spesso mi sono chiesto se la filosofia, in un calcolo complessivo, non sia stata fino ad oggi un’interpretazione del corpo e un fraintendimento del corpo”. Io direi che, invece, la poesia è un fraintendimento dell’anima. Troppo spesso, pulsioni e deviazioni le sono state allontanate come fossero tematiche non degne del mezzo espressivo, per un misunderstanding legato alla presunta “altezza” della poesia in quanto tale. Ma la poesia, in fondo, non è altro che un tessuto linguistico, cioè, wittgensteinianamente, una “forma di vita”. E se, con Lotman, niente di ciò che è presente in natura può essere estraneo ad essa (contraddizione in termini già al solo pensarlo!), non vedo perché la poesia non possa farsi espressione delle pulsioni più recondite dell’umano; non, si badi bene, in senso esclusivamente consolatorio, laddove l’oggetto sia il sentimento del dolore, ma anche in senso ostensivo e descrittivo, laddove l’oggetto possa essere ciò che di atroce galleggia sul magma ribollente dell’anima e del corpo. Ho scritto molti versi corporei, a partire dalla mia prima raccolta Erotomaculae (Algra Editore 2016), per poi proseguire con la trilogia dei Taccuini: nel Taccuino dell’urlo (Marco Saya Edizioni 2020), l’argomento era l’elaborazione del lutto amoroso; nel Taccuino della madre (Edizioni Progetto Cultura 2021), il tema centrale verteva sull’elaborazione della perdita archetipica del Materno (con alcune pagine in cui lo strazio è consistito nella descrizione del disfacimento del corpo materno distrutto dal cancro); nel Taccuino della cura, la dinamica di disfacimento/decostruzione/ricostruzione riguarda la mente. La mente è, infatti, con il suo portato di memorie e di ipnoeresie, un tavolo da lavoro, fatto di nodi e scanalature: è un organismo vivente, spesso agonizzante, ma comunque vitalisticamente abbarbicato all’istintualità, un “eurganismo / che respira pioggia” (Erotomaculae).
È la mente, qui, il vero corpo senziente, e la carta non è che il suo sudario, luogo in cui il bollore del magma trova riposo.
ECB: Può la poesia essere quel “sassolino nella scarpa che infastidisce il cammino”, per citare un tuo testo e, a sua volta, il corpo farsi indice e causa di trasformazione della lingua, per cui “il piede batte dove la langue duole”[2]?
SC: Il testo che citi è rivelatorio di una serie di questioni di tipo estetico e critico-letterario. Dato che la poesia della lamentatio interiore ha sinceramente terminato la propria funzione simbolica, comunicativa e linguistica (d’uso), essendo ormai degenerata in un lirismo epigonale che, alla luce dell’ultracontemporaneo, non ha più niente da dire, occorre trovare nuove forme d’espressione. Tuttavia, non voglio dire che debba essere “nuovo” il messaggio relativo al contenuto tematico, che può continuare legittimamente a essere qualsiasi cosa: in poesia, infatti, come in ogni forma d’arte, niente è vietato e nessun argomento è intoccabile, non solo quelli nuovi, ma nemmeno quelli abusati. Al contrario, con “nuove forme di espressione” intendo la capacità di proporre una poetica differenziale che si dia nella ricerca di uno stile e di un adeguamento tra forma e contenuto consustanziali al proprio Kunstwollen. Il piede, quindi (in senso metrico, ovvero la poesia), batte le strade su cui la langue, con il suo retaggio di categoremi e regole grammaticali precostituite, duole. Avvertire il dolore significa riuscire a togliersi dalla scarpa il sassolino del rispetto delle regole e la soggiacenza nei confronti del gusto comune. Lo ammetto: è una fatica immane, e spesso non ripaga. Guarda caso, ogni volta che un’avanguardia è intervenuta per scardinare le regole, alla lunga ne ha create di nuove…
ECB: L’esito della scrittura è una fatica intesa sia come sforzo legato a un’indagine tutt’altro che indolore, sia come prodotto tangibile, opera. Si può dire che la poesia si propone non come un rimedio o antidoto al dolore e alla ferita, bensì come un’operazione volta a precisare e rendere manifesta la ferita stessa, se non a produrla direttamente? Potrebbe manifestarsi, addirittura, come crudeltà?
SC: Di più: è una dilacerazione esfoliativa della ferita archetipica, di qualsiasi ferita; è un’ostensione del fuoco doloroso che anela al refrigerio e che non può mai avere pace. In questo senso, l’unica cura è l’eviscerazione completa. Per questo motivo, sostengo da sempre che la poesia è un atto crudele, in quanto non è esente dall’epifania dell’atrocità, della parte peggiore di se stessi e degli altri. Bisogna squartare la parola e farsi pastori della propria carne. Allora, e solo allora, avrà senso il dono del sacrificio, perché qualsiasi cura, come fuoriuscita o fuga dal nido confortante dell’abitudine disfunzionale, è sempre un atto di suprema crudeltà nei confronti di se stessi, che prelude alla presa di coscienza dell’inequivocabile verità: “dal dolore non si sfugge” (Hypnerotomachia Ulixis).
ECB: Per mettere in atto un’operazione di questo tipo, diceva Artaud, è necessaria una lingua che “non può essere ingenua, naturale, spontanea” ma deve agire con “calcolo, metodo”, quindi in modo accurato. Concordi con questa possibilità e modalità di “ripossedere corpo e linguaggio” assumendosi tutti i rischi del caso?
SC: Se il rischio è quello di darsi un linguaggio che determini il delinearsi di una vera e propria poetica personale, al netto dell’indistinzione e dell’epigonismo in cui annega la poesia ultracontemporanea, allora rischiare non solo mi piace, ma è la mia missione precipua. Scrivere, per Blanchot, è una “tremenda responsabilità” che, innanzitutto, riguarda lo stile. Se non torniamo a propugnare una visione estetica delle cose d’arte, se non ci riaffidiamo di nuovo a una sensibilità che riesca a percepire la distinzione tra il bello e il brutto, l’universo poetico sarà destinato a deperire. Soprattutto, occorre svincolarsi dall’impostazione neoclassica che suggerisce come obiettivo quello di descrivere esclusivamente un contenuto bello in una forma bella. Si deve avere il coraggio di offrire una descrizione del mondo che conceda spazio al contenuto brutto in una forma sensata, giacché, se esso esiste, ci saranno pure un motivo e una forma che ne rendano ragione. A mio parere il brutto, parafrasando Pascal, ha ragioni di bellezza che la banalità non conosce.
La poesia, dunque, secondo Caporossi, può essere intesa come farmaco soltanto mantenendo uno sguardo aperto su tutta l’area semantica che in quest’ultimo termine è racchiusa: qualsiasi sostanza, inorganica od organica, naturale o sintetica, capace di produrre in un organismo vivente modificazioni funzionali, utili o dannose.
Ammettendo perciò che il linguaggio verbale possa – e debba – interagire con gli altri linguaggi e sistemi per riceverne – e produrre a sua volta – mutazioni e divenire, le nostre avvertenze rimandano a una precisa scelta, affatto obbligata: guarire o agire la ferita, prescrivere o scrivere la poesia.
Copertina di Klawe Rzeczy
DOME BULFARO (1971), poeta, performer, insegnante e artista, tra i più attivi nello sviluppo della poesia performativa. Su invito degli Istituti Italiani di Cultura ha rappresentato la poesia italiana in Scozia (2009), Australia (2012) e Brasile (2014). Ha cofondato la LIPS, Lega italiana poetry slam e ha raccontato il movimento slam, internazionale e italiano, nel libro Guida liquida al poetry slam (2016). È ideatore e direttore artistico del festival PoesiaPresente. È stato tra i primi in Italia a sviluppare e diffondere la poetry therapy. Tra le sue pubblicazioni Ossa. 16 reperti (Marcos y Marcos 2001), Carne. 16 contatti (D’IF 2007) vincitore del Premio di Letteratura “Giancarlo Mazzacurati e Vittorio Russo”, Milano Ictus (Mille Gru, 2011), Ossa Carne (Dot.com Press, 2012) con traduzione in inglese di Cristina Viti e Prima degli occhi (Mille Gru, 2015) con CD musicato da David Rossato. Sue poesie sono state tradotte negli Stati Uniti, in Inghilterra e in Sud America.
SONIA CAPOROSSI (1973), docente, musicista, musicologa, scrittrice, poetessa, critica letteraria, scrive di estetica filosofica e filosofia del linguaggio incentrando la propria indagine intorno alle forme del poetico e alle scritture di ricerca. Ha esordito narrativamente nel 2014 con la raccolta di racconti Opus Metachronicum (Corrimano Edizioni). Nel 2016 ha pubblicato la silloge poetica Erotomaculae (Algra Editore), mentre del 2017 è la raccolta di saggi Da che verso stai? Indagine sulle scritture che vanno e non vanno a capo in Italia, oggi (Marco Saya Edizioni). Nel 2018 ha curato l’antologia La Parola Informe. Esplorazioni e nuove scritture dell’ultracontemporaneità (Marco Saya Edizioni). Del 2019 è Hypnerotomachia Ulixis (Carteggi Letterari), romanzo sperimentale composto da narrazione e filosofia. Tra il 2020 e il 2022 pubblica le sillogi Taccuino dell’urlo (Marco Saya Edizioni), Taccuino della madre (Edizioni Progetto Cultura) e Taccuino della cura (Terra d’Ulivi Edizioni). Dirige il blog multidisciplinare Critica impura.
[1] Da Gialâl ad-Dîn Rûmî, Follia sacra
[2] Da Sonia Caporossi, Taccuino della cura, poesia XV