Se prendi il treno pomeridiano da Sarajevo, troppo tardi per ammirare il paesaggio, e arrivi una sera di novembre a Mostar, se esci dalla stazione annerita, la lasci alle spalle umida e scura e vai verso il centro per una strada semideserta – con i bar chiusi o in chiusura, piccoli capannelli di tifosi da schermo, studenti che tornano a casa – passi un ponte, ne passi un altro, e, proprio perché è novembre, puoi lasciare la valigia in una locanda: un posto vicino al ponte di Mostar, proprio lui, il simbolo.

Prima di mangiare, prima di ogni altra cosa, puoi rendere omaggio al ponte di sera, così diverso da quello di giorno, così diverso da quello d’estate. A goderselo, insieme a te e pochi altri, può esserci un cane, poi due, tre, quattro: puoi passare anche un’ora ad accarezzarli, a conciliare loro il sonno insieme al suono del fiume Neretva.

Puoi cercare da mangiare e approdare in un ristorante un po’ defilato, protetto dagli alberi, illuminato dalle luci gialle, con le canzoni dei Beatles e il proprietario che dice che quella musica “cura l’anima”. Con pochi tavoli occupati, il proprietario può prendersiil tempo di spiegare i vari vini della casa e gli ortaggi di stagione, che non rispondono alle foto sul menù, perché come fai a volere i pomodori a novembre? Puoi mangiare queste verdure grigliate, magari ti ricordano l’infanzia ma non fai Proust, ti riprometti solo di rimangiarle domani. Puoi goderti la zuppa di pomodoro che, chissà perché, dall’altra parte dell’Adriatico non si trova mai e invece, con quel peperoncino e quell’origano, consola.

Puoi passeggiare, fra moschee e lavori in corso, un orrido Juventus club e souvenir che riposano in vista dell’indomani. Potresti imbatterti in piccoli gruppi di turisti che attraversano il ponte e si perdono fra i pochi bar. Ti puoi sedere a bere una grappa e al tavolo accanto ti potrebbero fare non lieta compagnia italiani reduci da Medjugorje: puoi sentirli lamentarsi della sostituzione etnica, del crocifisso fuori dalle classi, dell’invasione gay. Ci puoi anche litigare, la prossima volta, ma stavolta non ti va: puoi fare finta di non sentire e andartene, puoi tornare vicino al ponte, a guardare chi si fa le foto nella notte e ad accarezzare di nuovo i cani.

Al mattino i souvenir si risvegliano sotto al tuo sguardo, mentre fai colazione. Arriva il treno e i loro compratori. A gestire il tutto, donne con il velo e donne senza: si sono dette buongiorno, leggere. Se hai fortuna la tua guida è Sheva. Ha occhi azzurri, barba lunga bianca e nera, tatuaggi di altre vite, un inglese veloce ma non pre-confenzionato. Inizierà a spiegare che no, non c’è una parte bosniaca e una croata: se glielo chiedi, ti dirà che non ha senso dividere così la città come tutte le fonti superficiali che hai letto finora. Fosse così, non sarebbero cadute in quel modo le bombe, non sarebbe volata così la scheggia che ti mostra, schizzata a non so quanti chilometri all’ora durante il bombardamento di casa sua.
Sheva inizia a smontare tutte le convinzioni sulla guerra, sulle guerre. Può anche confonderti, nel ricostruire i mesi prima del bombardamento del ponte, può spiegarti chi da alleato è diventato nemico, e viceversa, e quanto poco ne sappiamo ancora.
Sheva si può presentare così: “Sono un bosniaco musulmano ateo e socialista, che si sente jugoslavo, perché la Jugoslavia non esiste più, ma gli jugoslavi sì”.

Quante guide passano per cimiteri dove sono sepolti i loro amici? Sheva sì, e può salutare ogni giorno il gatto di guardia. Se sei con lui, può guidarti nel negozio di artigianato vero, tra tanti fasulli; può mostrarti una sua foto da ragazzino, che salta da venti metri nel fiume, e spiegarti le regole delle gare di tuffi fra la gente del posto; può indicare una targa in tre lingue, serbo, bosniaco e croato, e farti capire che non ci sono differenze, sono la stessa lingua; può salutare i proprietari dei negozi che preparano cuscini per i cani randagi, e una coppia di turisti che adotta la cagna che hai accarezzato tu la sera prima; può farti strada in un vicolo dove non ci sarebbe motivo di andare, e sotto la pioggia raggiungere un ingresso anonimo: accanto, Sheva ti può mostrare due targhe, una ottenuta dall’armatura di una stufa perché altro, al momento, non c’era e un’altra apposta dopo, che ripete lo stesso ricordo, quello di Marco Luchetta, Alessandro Saŝa Ota e Dario d’Angelo, tre giornalisti Rai uccisi a Mostar, “vittime innocenti qui il 28 gennaio 1994 di una guerra fratricida che essi volevano capire e documentare con coraggio e con amore”.

Può scoppiare a piovere e ci sarebbe da rifugiarsi in uno dei bar tutti uguali, che sorgono qui a Mostar come in tutto l’universo battuto dal turismo obbligato. Si possono fare queste e altre cose, se si arriva a Mostar una sera di novembre, e si può sentire, quando l’unico suono è il fiume, cosa rimane della bellezza in un luogo oltraggiato due volte: straziato dalla guerra, svilito dal turismo.
Fotografie dell’autore
Alberto Bile Spadaccini, nato nel 1987, è un reporter, scrittore e traduttore napoletano. È autore di Libri a dorso d’asino. Storie e strade colombiane (Dante&Descartes, 2016), Una Colombia. Canzone del viaggio profondo (Polaris, 2017), Viaggio in Sithonia. Cammino nella Grecia che non c’era (Polaris, 2021), In Colombia con Gabriel García Márquez. Senza forze di gravità (Giulio Perrone, 2021) e del racconto Hardcore soft porn in Sciroccate (Tamu, 2023).
Tra gli altri, ha tradotto dallo spagnolo Alfonsina Storni, Piedad Bonnett, Tamara Tenenbaum, Roberto Fontanarrosa, Gabriel Ferrater, Javier Tomeo, Giuseppe Caputo, Alberto Salcedo Ramos, Leandro Avalos Blacha, Carlos Ríos, Jorge Zalamea.
