Ho incontrato Chiharu Shiota in occasione della conferenza per l’inaugurazione della sua mostra, The Soul Trembles, al MAO – Museo d’Arte Orientale di Torino, lo scorso 21 Ottobre. Curata da Mami Kataoka, si tratta di una serie di installazioni, video, disegni e archivi fotografici che si articola su tre piani e crea un dialogo con le altre opere ospitate dal museo. Nelle parole del direttore del MAO, Davide Quadrio, è molto più di un luogo di conservazione: è un’esperienza, che avvolge lo spettatore a livello emotivo, plastico e visivo. Oltre all’indescrivibile bellezza del suo lavoro, sono rimasto da subito colpito dalla grande discrezione dell’artista di Osaka, che alla soglia dei sessant’anni dimostra un’umiltà e una semplicità fuori dal comune, a dispetto del curriculum e della caratura internazionale.
Vi accompagno all’interno del suo incredibile lavoro, grazie alle sue stesse parole.

Gentile signora Shiota, ci siamo incontrati durante la conferenza sulla sua mostra al MAO – Museo d’Arte Orientale di Torino, lo scorso 21 ottobre. Ho visitato The Soul Trembles tre volte e cercherò di porgerle alcune domande per la nostra rivista, Neutopia.

Vorrei iniziare con questa immagine dell’installazione curata da Marcel Duchamp per la mostra surrealista di Parigi del 1942. È la prima immagine che mi è venuta in mente quando ho iniziato la mostra. Quanto è importante il movimento surrealista nel suo lavoro? Fa parte della sua ispirazione?
Molti amano parlare di Marcel Duchamp a proposito delle mie opere con i fili, ma lui creava linee per tenere le persone fuori dallo spazio. Con il mio lavoro, voglio creare uno spazio in cui le persone possano entrare e connettersi. All’inizio volevo fare la pittrice, ma tutto ciò che creavo sembrava di qualcun altro e non aveva alcun significato. Quando ho iniziato a tessere fili, mi è sembrato di realizzare dipinti tridimensionali, con molta più emozione. Mi ispiro alla mia vita e alle mie esperienze, e disegno con le linee nell’aria.

Nella serie Cells, i dettagli del suo corpo servono da calco e vengono riprodotti in parti scomposte, come pezzi di una bambola smontata, arti e organi interni sottili e fragili come il vetro che contengono un groviglio nero. Qual è la corrispondenza tra i colori? Il nero rappresenta la malattia?
Ho realizzato quest’opera d’arte in vetro mentre ero in cura per il cancro con la chemioterapia. Sentivo il mio corpo fragile, come il vetro, quindi ho voluto creare una cellula trasparente. Il rosso rappresenta il sangue e il nero simboleggia l’universo. Sento di avere un universo dentro il mio corpo e volevo collegarlo all’universo esterno.

Questo filo d’Arianna ci porta al nido dei suoi ricordi, della sua infanzia. Il pianoforte annerito e bruciato rappresenta un ricordo traumatico. Vuole raccontarcelo?
In realtà, il pianoforte bruciato non emette alcun suono, quindi ho collegato delle corde nere per creare musica visiva nel silenzio. Quando avevo nove anni, la casa dei miei vicini prese fuoco e il giorno dopo misero il pianoforte all’esterno. Quando lo vidi, mi sembrò ancora più bello di prima e un profondo silenzio mi pervase. Questo ricordo mi è sempre rimasto impresso e, molti anni dopo, ho voluto realizzare un’installazione su quell’evento.

Sedie su cui non può più sedersi, case in cui non può più vivere. C’è un riferimento a Hiroshima e Nagasaki nel suo lavoro?
No, non faccio riferimenti politici o riferimenti storici specifici a nessun paese o cultura. Il mio lavoro è molto personale, inizia con un sentimento o un’esperienza e voglio espanderlo in qualcosa di universale a cui altre persone possano connettersi.

Un altro elemento molto importante, dopo il fuoco, è il sangue. La trasfusione da DNA a DNA, la routine ospedaliera che tiene i corpi incatenati al letto, privandoli della loro vitalità. C’è un riferimento evidente alla sua lotta contro il cancro. Se possibile, il sangue è un muro?
Credo che tutto sia racchiuso nel nostro sangue, nella nostra famiglia, nella nostra nazionalità, nella nostra religione, e che, sebbene queste cose ci uniscano, creino anche delle barriere. Normalmente, il sangue è dentro il corpo, ma io voglio mostrarlo all’esterno. Mi chiedo se l’esistenza umana possa mai superare questi muri.

Una scalinata di valigie in movimento, che contengono macerie, fotografie di famiglia e cemento, trasporta idealmente lo spettatore al terzo e quarto piano della mostra. La sua arte ha attraversato i confini e raggiunto ogni angolo del mondo. Quanti viaggi ha dovuto affrontare per diventare l’artista che è oggi?
Non lo so. Ma ricordo ancora di aver lasciato il Giappone con una sola valigia. Mentre visitavo un mercatino delle pulci a Berlino, ho visto una vecchia valigia e mi sono sentita attratta da essa. L’ho portata a casa e dentro c’era un vecchio giornale del 1946 e una lista di cose da mettere in valigia. Era così vecchia, eppure simile a qualcosa che avrei potuto scrivere io. Ogni valigia rappresenta una persona in viaggio. Non so dove stia andando o chi sia, ma mi sembra di conoscerla. Riesco a percepire la sua presenza anche se non c’è nessuno.

Un abito da sposa accanto all’armatura di un samurai ci pone di fronte a uno strano dualismo: proprio come gli antichi non riuscivano a vedere la persona dentro l’armatura, oggi non riusciamo ancora a vedere la donna dietro la sposa. Qual è il suo rapporto con il matrimonio? Per lei è solo un corredo nuziale o ha ancora senso?
Questo lavoro non riguarda specificamente un abito da sposa; riguarda il nostro abbigliamento in generale. Credo che i nostri abiti siano come una seconda pelle, ma possono essere ancora più potenti della nostra prima pelle perché ci permettono di esprimere chi siamo. Quando li indossiamo, raccolgono i nostri ricordi. Il corpo può anche non esserci più, ma la sua presenza può ancora essere percepita. Uso un abito al posto dei pantaloni perché lo ritengo più potente, ma non si tratta dell’indumento specifico, si tratta della sensazione.

Le case delle bambole, gli oggetti che decorano le case, fanno parte della sua ricerca. Anche questo fa parte del trauma dello sradicamento?
Connecting Small Memories è nato dalla mia visita al Mori Art Museum mentre mi preparavo per la mostra. Il museo si trova al 52° piano e, quando ho guardato fuori dalla finestra su Tokyo, tutto mi è sembrato così piccolo, eppure ogni finestra mi è sembrata un universo a sé stante, pieno di vita. Mi sono ricordata di tutte le piccole cose che ho collezionato nel corso degli anni. Nel mio vecchio studio, c’era una soffitta e un giorno ho chiesto la chiave. Dentro, ho trovato ruote arrugginite, vecchie bambole, pietre, noci e piccole bottiglie, tutte cose che la gente considera spazzatura. Sono diventate parte del mio atelier e hanno trovato un posto nel mio cuore.

Grazie per essere arrivata fin qui. Un’ultima domanda: nella serie di disegni all’ultimo piano, si chiede se il suo corpo si stia riconnettendo con l’Universo. Come si sente ora? Pensa di essere pronta per una nuova forma?
Quando ho avuto il cancro, pensavo spesso alla morte del mio corpo e a dove potesse andare la mia anima. In quel momento, ho iniziato a sentire che la morte non era solo una fine, ma anche una connessione con un altro universo. Qualche anno dopo, durante la pandemia di COVID-19, quando sapevamo così poco del virus o del futuro, ho provato di nuovo la stessa sensazione. Ho iniziato a disegnare una piccola figura umana sempre collegata da una linea al cosmo. Non ho una risposta, ma potete vedere i miei sentimenti in questi disegni.

Immagini tratte da Chiharu Shiota, The Soul Trembles
Chiharu Shiota è un’artista giapponese nata a Osaka nel 1972, nota per le sue installazioni su larga scala realizzate con fili intrecciati, che esplorano temi come la memoria, la temporalità e le relazioni umane. Dopo aver studiato a Kyoto, si è trasferita a Berlino, dove vive e lavora dal 1997 e dove ha studiato con artisti influenti come Marina Abramović e Rebecca Horn. Nel 2015 ha rappresentato il Giappone alla Biennale di Venezia con l’opera The Key in the Hand. La sua personale, The Soul Trembles, è in mostra al MAO di Torino fino a giugno 2026.
