Attenti al cane | La poesia come segnale d’allarme, esca, parola d’ordine

Come si muove, oggi, la poesia? Cosa sta facendo adesso, mentre leggi questi appunti? Si schiarisce la voce? Si aggira furtiva qui intorno? Forse è già altrove, forse ti guarda le spalle. Ho cercato di rintracciarla dentro le opere di quattro autori che intraprendono percorsi del tutto particolari, fissandoli come punti cardinali: accostandosi a loro su diversi piani, seguendo a occhi chiusi le indicazioni delle loro voci. Attraversando dogane con tutto da chiedersi e nulla da dichiarare.

Barbato, Spina, Galipò e Di Forti: queste voci si pongono, facendo strage dei limiti, di fronte al limite ultimo. In modi diversi, tutti puntuali. Per Barbato, i morti sono i vivi che sono andati a capo. Per Alma Spina, «I morti vanno e vengono. Varcano il muro dell’acqua / e poi ritornano di schiena da dove sono venuti».[1] Galipò li vede cadere sul presente come bombe; a danzare come spettri sono coloro che rimangono. Cetty Di Forti parte da questa condizione preliminare: assenza, nel limite; assenza di limiti ultimi e primi.

NO TRESPASSING

I cani nel cervello, Nicola Barbato

Nicola Barbato fa tabula rasa – elettrificata – di ogni imbracatura, salta qualsiasi salvavita della macchina.  La parola ubriaca guarda dentro la realtà come a guardare dentro un’eruzione – e non per studiarla. La sua poesia non si distingue, nella voce, dalla lingua; nel suono, dal corpo. Una precisa scelta.

Siamo il varco sulla lingua,
la fenditura del segno: ho i cani
nel cervello, la festa è cominciata.

Nicola Barbato, I cani nel cervello (Eretica, 2024), p.39

Nulla di precedente, nessun funzionamento presupposto dal guasto: ciò che Mattia Tarantino chiama “Non-Sostrato” già ci spinge nell’unica direzione possibile – che sono tutte le direzioni: leggere la parola e leggerla non come prodotto, leggerla come ci allacciamo le scarpe, pronti per una fuga.  Da dove viene questo latrato?

Tú que llevas las orejas de fuera, fíjate a ver si no oyes ladrar los perros.[2]

Di sicuro fa buio e c’è troppo caldo. Ogni strato dell’enunciare aderisce a sé stesso, contraendosi, tira a sé i meridiani e i mille piani, mentre la scrittura in senso opposto, espandendosi dal punto come un polmone, si agita – agendo la fatica del rendersi tale. Attorno nient’altro.  Il vortice ci prende dentro il suo cervello. 

Non chiedermi di sorridere se fuori è tutto
verde: ora la televisione ne conta già mille
.[3]

Allucinare la macchina, prima che si sappia. Allucinarsi. In corsa su una strada senza sensi di marcia, con segnali impazziti, tutti i referenti si mischiano e assumono proprietà stupefacenti; l’allarme nasce dall’impossibilità di separare le categorie, di ricodificare. Ecco la sfida che la poesia vuole lanciarci: nell’urlo che si spalanca, Barbato riesce a cogliere con lucidità ogni frammento, per quanto minuscolo, mutilato e rutilante.

Famelico, ogni verso si percepisce come una strana festa, un lampo, uno zenit – un passaggio. Per poi ritrovarsi allo zero, all’origine, in un rimbalzo. Questo esercizio prende lo spazio di un rovescio, di un cane che volta il muso per leccarsi una spalla, in mezzo ad altre lingue che fanno lo stesso, «Dando traccia di un orizzonte che è già altrove».[4]

Lo que pasa es que ya es muy noche y han de haber apagado la luz en el pueblo. Pero al menos debías de oír si ladran los perros.[5]

Ecco allora che la poesia ci avvisa: attenzione, guarda bene prima di attraversare.
Parliamo tutti «un’altra lingua»[6], senza smettere di essere i cani a cui diamo la caccia.

Fuffy sente un colpo
alla porta. Abbaia.
Ci sono dei demoni. Abbaia
e torna a dormire sul divano.
[7]

Da un lato e dall’altro: chiudi gli occhi, brigante, prima di attraversare.

Annotazioni sonore: mentre scrivo, urla dalla strada e parole sfilacciate sotto il tram che passa a ripetizione.

VENTO FORTE

Corpi abitati, Alma Spina

La parola si fa, occupa un’estensione: è qualcosa che, come qualsiasi fenomeno atmosferico o manifestazione naturale, accade. Si può verificare, inaspettata, ispida; ospite. Eccola che si insinua, come un’esca ci convince ad aprire tutte le porte. La poesia di Alma Spina chiede di essere abitata, permetterle di abitarci. Come scrisse Virginia Woolf:

For it would seem – her case proved it – that we write, not with the fingers, but with the whole person. The nerve which controls the pen winds itself about every fibre of our being, threads the heart, pierces the liver.[8]

Virginia Woolf, Orlando, 1928

Spina registra ciò che capita – o crepita. Lungo che cosa? Un filare. L’asse di una crescita.

In vico Tana era rimasto un cane vecchio.
Il piscio ricadeva in gocce sulla parietaria
.

Alma Spina, Corpi abitati (peQuod, 2024), p.7

Significa che c’è uno spazio, un’asola attraverso cui guardare tutto. Anche se, subito dopo, sono gli altri a guardarci, mentre tracciamo traiettorie. «Migrando di spazio in spazio distrattamente».[9]
Il timore è non riuscire a vedere, o che nessuno ci veda, mentre «Le ortiche spavalde si alzano a ricoprire il ciclamino rosso dentro il vaso.»

La porta del giardino è spalancata
a me che vengo sempre a incontrarti

ma poi si chiude
e tornano gli arbusti e torna il campo
.[10]

Una soglia che si apre e si chiude, come un diaframma. Cosa separa? Un vuoto. Un pieno. Una visione, un’istantanea. Il sangue / la linfa. Fino a riconoscersi per nulla: fino a riconoscersi del tutto. Dipende dal tempo. La possibilità che Alma Spina trova di «fare e disfare il nodo che vi tiene»[11]. Così come dipende dal tempo, da particolari equilibri e condizioni, qualsiasi giravolta e quotidiana metamorfosi.

«Muovo il mio corpo. Lo sposto avanti e indietro
salgo sopra le cose poi scendo, mi siedo.
Ci penso ore ore.

Tutti intorno muovono il loro proprio corpo:
nuotano camminano corrono fanno sempre cose.

Quasi lo odio quel bambino che si tuffa serio.
Quasi lo voglio rincorrere anche io il bastone del cane
».[12]

Rispondere al terrore con il tremito, al terremoto con atterraggi sempre diversi, fare capriole nel vento forte. Qui ancora Woolf: I’m sick to death of this particular self. I want another.[13]

T.A.Z.

Kebab con tutto, Davide Galipò

Il poeta prepara i muscoli per il salto, dopo la corsa che ha macinato le ossa e mischiato le stelle, scuote la bussola, infrange le frontiere. La parola è detta, insistente come un coro: la coralità del battito, sapere di essere plurale.  I cani che si aggirano per le strade adesso ballano.

Ni trabajar ni rezar
ni estudiar en la madrugada
junto a los perros románticos
.[14]

Galipò raggiunge i punti nevralgici delle agitazioni, non registra: si getta come flusso inarrestabile dentro i tempi e i luoghi. Lungo questo viaggio, da Istanbul a Salonicco a Cuba, la parola è tozzo di pane che ai cani si dà in pasto, è risposta viva e inconsulta alla fame. Una – del tutto imprudente  – forma di resistenza.

Nessuna follia lucida, soltanto quello che siamo, immantinente: «insegne pubblicitarie» e «luci al neon» sparate dentro il buio per toglierci il sonno e farne ricordi contundenti, futuri incerti e contraltari. La parola poetica diventa un grimaldello per scolpire la realtà, per mutarne la condizione.

Mentre rifiuti
e sacchi di immondizia
si stratificano
sul nostro avvenire.

Davide Galipò, Ballano i cani, da Kebab con tutto (Edizioni del Faro, 2024), p.19

Galipò disinnesca e reinstalla le insegne: l’accesso diventa libero alle persone non autorizzate, ci ritroviamo in una Zona Temporaneamente Autonoma. La litania che sono le nostre voci, tutte insieme, sovrasta ogni cosa. La poesia è un tilt luminoso e sonoro; sono i «canti dei mullah»[15]; sono i «cassonetti incendiati / a Exarchia di ritmo primordiale»[16]; sono sussurri ed «effusioni nelle metropolitane»[17]. Ma come arrivarci?

Esci dai margini
e poi rientraci
appena prima che gli altri ti aspettino
che tu faccia o dica
ciò che gli altri si aspettano
.
[…] Non vagare a caso.
Concentrati.
Ci sei quasi.
[18]

Annotazioni: su Google, tra le domande consigliate, appare: “cosa succede se butto giù un cartello stradale?”

Come scrivono Deleuze e Guattari in Mille Piani (Ortothes Editrice):

Chiamiamo parola d’ordine non una categoria particolare di enunciati, ma il rapporto di ogni parola o di ogni enunciato con atti di parola che si compiono nell’enunciato. Il linguaggio non è informativo, né comunicativo, non è comunicazione d’informazione ma trasmissione di parole d’ordine, sia da un enunciato all’altro sia all’interno di ogni enunciato, in quanto un enunciato compie un atto e in quanto l’atto si compie nell’enunciato.

G. Deleuze, F. Guattari, Postulati della linguistica, Mille piani, 1980

Allora possiamo fare tutto. Se la parola è formula, chiave, parola d’ordine per passare attraverso tutti gli strati, varcare ogni codice, ogni soglia e frontiera.

MIND THE GAP

Contaminazioni, Cetty Di Forti

Si metteva a sedere con gli occhi chiusi o con lo sguardo perso, rivolto verso luoghi lontani, insondabili, oppure continuava a ballare, ma in maniera controllata, e balbettando o canticchiando a bocca chiusa, descriveva con voce cantilenante i luoghi in cui si trovava, quello che vedeva e quello che gli succedeva.

K. E. Müller, Sciamanismo (Bollati Boringhieri, 2001)

Di Forti può viaggiare a suo piacimento tra le dimensioni. Conosce le geografie affastellate sul cuore. E ne fa uso, pronunciando tutto. «La voce trova sempre il modo»[19]: la parola, così come il silenzio, va maneggiata con cura e senza cautela; è una scialuppa che si scorda di rimanere allacciata, tralascia il «percorso abituale» e si lancia all’esplorazione.

 Al llegar, soltó el cuerpo, flojo, como si lo hubieran descoyuntado. Destrabó difícilmente los dedos con que había venido sosteniéndose de su cuello y, al quedar libre, oyó cómo por todas partes ladraban los perros.[20]

Lo strato epidermico, che Di Forti sente come «punto più sensibile del corpo» si fa transito, luogo di scambio: è attraversato. La poeta non precipita, riacquisisce il «diritto al sé»: contaminata, senza scampo; non più preda ma presente. 

Si unisce a me la parola
rubando un istante
con essa mi travesto
slegata dall’impronta
passeggera e piatta
la corrente ingoia convinzioni
si scrive nella mente umana
mi fermo e studio la carovana.

Cetty Di Forti, Contaminazioni (Il leggio), p. 28

Poesia vale a dire fare finta di scivolare sbadatamente oltre il segnale che urla “NO TRESPASSING”, “KEEP OFF”, perché si sa come fare. Mettersi in pericolo e farlo per salvarsi. Conquistandosi l’assenza di territorio, conquistando una sé «multiforme e plurale». La fuga durava da millenni, la fune che ci assicurava il rientro adesso vibra producendo suoni che non sono nostri e sono i nostri. Tagliare la corda.

Illustrazione di Aleksandra Czudżak

Elena Cappai Bonanni è nata nel 1996 e vive a Torino, dove si è laureata in Lingue e Letterature Moderne con una tesi sulla poesia e sul teatro di Buñuel e García Lorca. Scrive poesie in lingua italiana e spagnola. Suoi testi sono comparsi su «Inverso», «Split», «Agua», «Utsanga», «Clean» e «La morte per acqua». Nel 2020 pubblica l’EP Madrigale con il progetto spoken word Spellbinder. La sua opera di poesia concreta in.odore è stata selezionata dalla Fondazione Berardelli di Brescia ed esposta nell’ambito della mostra La poesia visiva come arte plurisensoriale, a cura di Lamberto Pignotti. È redattrice della rubrica di poesia “Poiein” per «Neutopia – Rivista del Possibile». Vincitrice del Premio Roberto Sanesi di poesia in musica con il progetto Karōshi, con cui ha pubblicato l’EP omonimo. La sua prima silloge, Gradienti (Terra d’Ulivi), è risultata finalista al premio Bologna in Lettere nel 2023.


[1] Alma Spina, Corpi abitati, p.20
[2] Juan Rulfo, ¿No oyes ladrar los perros?, 1953: «Tu che hai le orecchie fuori, vedi di sentire se abbaiano i cani.»
[3] Nicola Barbato, I cani nel cervello (Eretica, 2024), p.26
[4] Ivi, p.34
[5] Juan Rulfo, ¿No oyes ladrar los perros?, 1953: « Succede che è già notte fonda e devono aver spento le luci del paese. Ma almeno dovresti sentire se i cani abbaiano.»
[6] Nicola Barbato, I cani nel cervello (Eretica, 2024), p.18
[7]Ivi, p. 73
[8] Virginia Woolf, Orlando (1928): «Perché sembrerebbe – il suo caso lo ha dimostrato – che scriviamo non con le dita, ma con tutta la persona. Il nervo che comanda la penna si snoda attorno ad ogni fibra del nostro essere, infila il cuore, trafigge il fegato.»
[9] Alma Spina, Corpi abitati (peQuod, 2024), p.7
[10] Ivi, p.8
[11] Ivi, p. 11
[12] Ivi, p.24
[13] Virginia Woolf, Orlando, 1928: «Sono stanca da morire di questo particolare sé. Ne voglio un altro.»
[14] Roberto Bolaño, Los perros romanticòs, 1994: «Né lavorare né pregare/ né studiare fino a notte fonda/ insieme ai cani romantici.»
[15] Davide Galipò, Ballano i cani, da Kebab con tutto, p.25
[16] Ivi, p.30
[17] Ivi, p.31
[18] Ivi, p.28
[19] Cetty Di Forti, Contaminazioni (Il leggio, 2024), p.36
[20] Juan Rulfo, ¿No oyes ladrar los perros?, 1953: «Una volta arrivato, lasciò andare il corpo, floscio, come lo avessero disarticolato. Staccò a fatica le dita con le quali si era tenuto e, liberandosi, sentì finalmente i cani abbaiare ovunque.»

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