Lo scatto I Mirko Vercelli

أنت، التقط صورة! أنت، التقط صورة!

Le voci echeggiano per tutta la valle.  Ancora, più forte. Continuo a camminare, determinato. Forse è stanchezza per il caldo afoso del pomeriggio, forse è qualcosa che non voglio ammettere nemmeno a me. Allungo il passo. Le voci continuano al punto che sarebbe stranissimo ignorarle, ora. Non voltarsi sarebbe un’ammissione di colpevolezza. E d’altra parte, il tono mi pare accusatorio. Ripasso a mente, in ordine, tutte le mie ultime azioni. 

Non ho fatto niente di male, mi pare. Ma i ragazzi che mi accompagnano mi hanno lasciato indietro e io dopo due settimane so a malapena dire shkran, grazie. 

Il sole straziante confonde i pensieri e li rallenta. Le ciabatte di sughero ancora gonfie per aver guadato il fiume. La fotocamera a tracolla che sbatte contro il petto. Non voglio parlare con nessuno. Il sole di maggio incendia la valle. Da tutto il giorno, non capisco le loro parole, non conosco i loro costumi, e la mia goffa imitazione della loro lingua li diverte e li imbarazza allo stesso tempo. Eppure stamattina abbiamo ballato assieme, ho cantato o almeno preteso di farlo mentre suonavano i tamburi e ci siamo raccontati delle nostre vite aiutandoci più con gli occhi e con le mani che con le parole. Ci siamo protetti all’ombra delle piante ricurve sul fiume. Un fiume a tratti maestoso che scava un sentiero verde nel deserto, lungo e tortuoso. C’era qualcuno seduto con la sedia direttamente in acqua, chi dalle sponde masticava semi di girasole. Oggi è festa e hanno tutti invaso il fiume.

Abbiamo condiviso del pane ripieno preso in mattinata lungo la strada, venendo, nascosti dal sole come vespe nei cancelli. Il Cappy, il succo di frutta della Coca-Cola, che qua è ovunque, sostituisce l’acqua e sembra nettare. Un ragazzo getta nel fiume la bottiglia vuota, io mi alzo e la recupero dalla corrente, sentendomi un estraneo. Un’oasi nel deserto che scava la roccia dai tempi di Cristo, crocevia di pascoli atavici ed è piena di bottiglie e carte abbandonate da chi ha pranzato. Non sembra un problema, anzi, dagli occhi loro è quasi rincuorante. Anziché essere divorata dalla polvere e dimenticata dalle mappe, le strade sono ancora battute, ci sono segni di fuochi, di vita e di musica. Non è che la popolazione non senta la sacralità di quest’oasi, credo, ma è proprio che sentendola sa che gli appartiene, appartiene alla sua identità. Difficile da spiegare. Non mi sono più alzato.

Quella donna che vedi, lì, mi ha fatto qualcuno ad un certo punto, ha perso tutta la famiglia. La guardo. Una signora avvolta in un lungo vestito scuro, di un’età indefinita. Indefinita anche per il colore dei suoi occhi, siede a lato del fiume. Sorride, gioca con un bastone, come una bambina. Il viso coperto per metà dal burqa che pare una protezione dall’arsura. Ha perso il marito durante una protesta, mi dicono. Sbatte in acqua il bastone e schizza i passanti, ridendo, a ritmo sempre più veloce. Davanti a lei, un uomo, tiene per mano due bambine, attraversa il fiume e le ripara dagli schizzi della donna. Ha perso entrambi i figli, martiri della resistenza, mi dicono. Non ha più niente. Nota che parliamo di lei. La guardo, insistendo, per scorgere paura o colpa, eppure gli occhi non sono quelli di una vedova che ha visto morire i figli. Sono quelli di una bambina colta in un attimo di intimità. Schizza pure verso di noi e ci saluta con la mano, proteggendosi dal sole. Oggi, per qualche motivo, non esiste l’occupazione, oggi c’è solo una donna e la sua terra.

Dopo, abbiamo camminato seguendo le sponde. Il fiume non termina sottosuolo. Non crea un lago o non si spinge ardimentoso a cercare il mare. Il fiume dell’oasi viene inghiottito dalle turbine israeliane che estraggono l’acqua per distribuirla illegalmente alle colonie. Il verde che cresceva attorno alle sponde cede il passo a polvere e arbusti secchi nel giro di una decina di metri. Le grate sono altissime, i cartelli in israeliano minacciano pene severe per chi valica il confine. Mi vergogno per aver pensato a una bottiglietta di plastica. Mentre passiamo davanti, dei giovani palestinesi stanno usando le canaline dove viene convogliata l’acqua come uno scivolo. Vanno giù a turni e ridono come in un parco divertimenti. Uno degli strumenti dell’occupazione viene disinnescato da questa spontaneità. Perché oggi non esiste l’occupazione, oggi ci sono dei ragazzi e la loro terra.

! أنت، التقط صورة

Vengo riportato alla realtà. No, non dovrei aver fatto niente di male stamattina, ma continuano a chiamare e sicuramente ce l’hanno con me. Mi giro. All’ombra di un albero, forse l’unico per chilometri, dei ragazzi stanno facendo il bagno in una conca creata deviando il fiume con le rocce. Mi chiedono una foto, fanno il gesto dello scatto con le mani. Alcuni sono divertiti, altri mi stanno pregando. Crolla tutta la tensione, eppure mi sento in imbarazzo, colto impreparato.

L’idea di avere davanti una ventina di giovani palestinesi, tutti poco più che adolescenti, in un momento di gioco rapisce la mia immaginazione. Come se in un secondo, catturato dallo sguardo di tutti l’aria si fosse saturata delle loro storie, appena supposte da quelle spalle larghe, da quei visi adolescenti e le canottiere bagnate. Quali perdite, sofferenze e desideri si nascondono dietro le loro risa e i loro ammiccamenti? Molti di loro avranno poco più di diciotto anni. Chi tra di loro ha visto uccidere? Chi ha preso un’arma in mano? I volti sereni mascherano un’identità che è già dolore, che è già tensione e memoria. Eppure l’innocenza che mostrano è imperturbabile e ordinaria.
Volontaria azione, involontaria pulsione.

Ci sono diversi tipi di resistenza: uno di questi è non muoversi, continuare con la normalità. La differenza è che non ci si aspetta un cambiamento, ma lo si diventa, quando tutti gli altri scappano

Non so perché, il pensiero corre in ritardo sulle parole e non riesce a trattenerle, dico “no” e scuoto il capo. Aggiungo anche un gesto con le mani, per essere chiaro. Sono delusi.  Poi, appena tutti si voltano, scatto una foto.  Oggi non c’è l’occupazione, oggi ci sono gli uomini e la loro terra.

Fotografia dell’autore


Mirko Vercelli (Torino, 2000) è laureato in antropologia all’Università di Torino. Si occupa di cultura pop, politica e media e collabora con il Centro Studi Sereno Regis. Direttore e fondatore della rivista indipendente «bonbonniere», ha pubblicato il romanzo Linea Retta (bookabook, 2021) con il patrocinio di CUAMM Medici con l’Africa e il saggio Memenichilismo (Novalogos, 2024). Oltre alla sua attività di narratore, si dedica alla poesia performativa e non.

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