I gatti sanno anche quando devono rompere i coglioni.
Britta mi faceva le fusa sul collo, ed era la terza volta che provava a svegliarmi.
Poco c’era da dire e poco c’era da fare, l’unica soluzione era esularmi dal mondo prendendo per la collottola Britta e tutto quello che rappresentava e scagliarla contro il vetro.
Erano le due del pomeriggio.
Ero rientrato in casa verso le quattro della notte prima; l’ennesima notte sbagliata, passata a trovare risposte alle domande che alimentavano le mie giornate da anni.
Perché quando cerchi di dare solo il meglio ormai il peggio è fatto?
Perché tanto rimpianto quando è meglio il pianto?
Non sono un filosofo, sono uno scrittore che non si è mai posto il problema del bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto, ma ha sempre visto un bicchiere da riempire o da svuotare. Dietro ogni bicchiere si nasconde la quotidianità e dentro ogni bicchiere il coraggio di affrontarla.
Quella notte l’ultima cosa che ricordo è il sapore di una sigaretta nelle labbra di una donna conosciuta un paio di ore prima nel locale di un mio amico, estimatrice dei miei scritti tanto da ringraziarmi con un pompino eseguito a regola d’arte, giocando molto sulla punta e inghiottendo tutto lentamente con un gioco di lingua tale da farmi dimenticare che stavano bussando da cinque minuti alla porta del bagno.
Espletato il ringraziamento, passammo alle presentazioni. Claudia, il suo nome. Si accese un’altra sigaretta perché le sue labbra riconquistassero il sapore notturno e abbandonassero il sapore dolciastro del mio succo. Mi hanno sempre detto che ho il sapore di ananas. Se non altro brucio i grassi.
Io mi chiamo Carlo.
Il telefono squillò mentre mi stavo preparando un caffè.
Era la caporedattrice di un settimanale, mi chiedeva a che punto fossi con un racconto da scrivere per loro e da pubblicare con il numero natalizio.
Per vivere , cioè pagare le bollette, leggevo pubblicamente le mie poesie e i miei racconti e ogni tanto scrivevo per qualche rivista dietro compenso.
I libri non rendevano un cazzo.
Risposi al telefono che ero a buon punto, mi mancava il finale. In realtà non ero neanche all’inizio.
Versai dalla macchinetta del caffè per due persone tutto il contenuto nella mia tazza lunga raffigurante il drugo Lebowski. Lo allungai con un po’ di acqua calda e ci misi tre cucchiaini di zucchero pieni.
Era dicembre e dalla finestra, aperta per scacciare gli odori della solitudine della cucina, entrava profumo di neve in arrivo e castagne calde.
Abitavo non lontano dal centro della città e non lontano dalla periferia sud. Abitavo in un compromesso più che in un condominio. Ma le case di ringhiera hanno il potere magico di essere come una macchina del tempo, basta appoggiarsi alla ringhiera e improvvisamente sei nel 1958, oppure ai primi del ‘900 quando il treno carico di carbone entrava nel cortile e gli inquilini lo scaricavano per scaldare le case. Era nato come un caseggiato per dipendenti ferrovieri, attaccato alla stazione di Porta Romana, a Milano.
Mentre il caffè scendeva pensavo a come avrei potuto iniziare il racconto.
Le storie di Natale hanno sempre quel risvolto diabetico che poco amo, ma per una volta avrei potuto giocare facile e cospargere di miele ogni parola e tutta la storia. Il buon proposito durò circa trenta secondi, giusto il tempo di accendermi una sigaretta, tirare due colpi di tosse e cominciare a maledire la caporedattrice, la festa di Natale e il Paese di merda nel quale vivevo. Il più bello del mondo in potenza, ma di una bellezza relegata ai ricordi che si era giocato la sua dignità per il mantenimento di un’immagine sempre più simile alla forma che geograficamente ricordava: uno stivale da troia.
Alle quattro del pomeriggio uscii di casa.
Speravo di incontrare una storia nascosta in un paio di occhi o al tavolo di un caffè o anche in due buste della spesa che tornavano dal supermercato.
Mentre vagavo per il marciapiede, mi ritrovai alla fermata del tram e mi sedetti ad aspettare non so cosa, forse il momento giusto, la storia giusta, la faccia giusta o la risata sbagliata.
Si sedette accanto a me un uomo anziano, ben vestito, anzi diciamo dignitosamente vestito, con un giaccone bretone doppiopetto, quelli da marinaio, una sciarpa a quadrettoni con le frange, pantaloni in flanella e scarpe da montagna. Non era un barbone. La sua figura mi faceva venire in mente i nuovi poveri, quella parte di gente che aveva perso tutto, tranne la dignità.
Ci scambiammo un paio di sigarette, mentre decisi di aspettare il tram con lui.
Mentre mi parlava lo guardai negli occhi.
Avevano il colore del cielo nel giorno in cui crocefissero Cristo.
Speravo mi raccontasse la sua storia, cosa c’era dietro quegli occhi; l’avrei seguito sul tram, sarei sceso alla sua fermata, gli avrei spiegato che ero uno scrittore che stava cercando uno spunto per un racconto di Natale e magari gli avrei offerto una cena anche in casa sua, ci saremmo ubriacati, avremmo riso e lui si sarebbe sentito più leggero e io sarei tornato a casa con la mia storia.
Mi disse invece che io avevo bisogno di camminare, che nei miei occhi aveva visto la resa, due lampadine fulminate che vedevano solo al buio, e vedevano solo il buio.
Mi invitò ad andare con lui, ma in silenzio. Nessuno dei due avrebbe dovuto parlare.
Esitai per un attimo, poi mi convinsi, non avevo niente da perdere e soprattutto non avevo niente da scrivere. Decisi di seguirlo, in silenzio come mi aveva chiesto.
Arrivò il tram che non era affollato di gente, ma pregno di odori di umanità varia che sembrava un ceffone in pieno viso. Mi ero già rotto il cazzo, non amo la folla, figuriamoci il suo odore. Sarei sceso alla fermata successiva.
Mi invitò a sedermi accanto a lui e a guardare fuori dal finestrino la città che ci scorreva sotto gli occhi, frenetica per il periodo natalizio, pateticamente giovanile, una vecchia signora appena uscita dal chirurgo plastico.
Questo era quello che vedevo. Non ci vedevo niente di particolare, il solito declino dell’assenza, l’assenza di consapevolezza di chi si era, di chi si è stato e di chi si potrebbe essere se non si cercasse di essere un’imitazione, un vero falso originale come le illusioni di ricchezza che riposavano sulle bancarelle abusive.
Il vecchio signore cominciò a sorridere come se avesse capito che avrei resistito poco e come se leggesse nei miei occhi quello che vedevo.
Mentre lui mi sorrideva, lentamente le immagini che scorrevano dal finestrino cambiavano ritmo, colore e sensazioni.
Era come se io cominciassi a vedere con i suoi occhi.
Dopo sette fermate mi disse che dovevamo scendere, e scendemmo aspettando un altro tram.
Continuava a sorridermi, senza parlarmi, come se le parole avessero rovinato tutto.
E forse avrebbero rovinato tutto, perché era come se la città avesse incominciato a parlare e noi non dovevamo fare altro che ascoltarla.
Arrivò un altro tram, di un numero diverso, salimmo e trovammo posto vicino al finestrino e mentre il vecchio continuava a sorridermi, io vedevo scorrere dal finestrino la vecchia Milano.
Vedevo le notti che inseguivano l’alba, scrittori giornalisti e poeti che si consumavano nelle osterie, musicisti che facevano da colonna sonora a un furto d’auto, mentre appena distanti due impermeabili se la ridevano.
Vedevo sorrisi pronti a guarnire le cadute di stile, una mano sempre pronta a svuotare le tasche mentre gli occhi sorridevano piangendo la corsa di un cavallo.
Malinconie gaudenti come antidepressivi.
Un cappotto che entrava in un bar stringendo le spalle mentre fuori pioveva e incrociava il sorriso dell’unica bottiglia di Strega in alto a sinistra sulla vetrina del bancone.
Il senso dell’umorismo che riempiva il quartiere, la vita che faceva finte di corpo per tutelare la serietà.
Vedevo un gatto che faceva le fusa a una macchina da scrivere in un appartamento di via Lomellina.
Vedevo un romanzo, un romanzo popolare.
Dopo sette fermate scendemmo per aspettare un altro tram che prendemmo per altre sette fermate. Così avanti per sette volte, senza sapere dove si sarebbe arrivati, mentre le immagini, i suoni e i sapori scorrevano lenti dai finestrini, lenti come un tram, come la vita stessa dovrebbe essere.
Alla settima fermata del settimo giro, senza sapere dove fossimo, il vecchio signore e io entrammo in un’osteria, il posto dove ogni giro sarebbe dovuto finire per fare un brindisi alla città.
E solo allora il vecchio cominciò a parlarmi e mi spiegò che lui, ogni sette giorni, faceva questo giro, partendo da un luogo a caso di Milano. Aveva scelto il sette perché sette sono i vizi capitali e li aveva percorsi tutti, e ora era il momento di pareggiare i conti. Quindici anni prima stava diventando cieco, non ci vedeva quasi più per un problema alle cornee. Era un reduce della malavita romantica milanese, aveva vissuto di espedienti, piccoli furti sempre tutto a mano disarmata. Adesso faceva il bidello in una scuola elementare. Solo un trapianto di cornea poteva ridargli la vista e una sera arrivò la notizia della possibilità di trapianto.
Un uomo aveva avuto un incidente. Era finito sotto un tram.
Andò all’ospedale e quando arrivò si rese conto che, per ironia della sorte, si trattava del suo vecchio amico Oreste, compagno di bagordi e di strada.
Lui aveva le cornee di Oreste e da quella sera decise che attraverso il tram avrebbe ripercorso con Oreste la loro vecchia città, lo avrebbe tenuto in vita in questo modo. Non avrebbe permesso che un regalo così grande si perdesse davanti a un televisore. Le strade erano piene di ricordi e immagini nascoste che non andavano dimenticate. E alla fine di ogni giro gli occhi si riempivano di lacrime che ridevano, pensando ai tempi in cui rubava tutto quello che poteva e che per una strana legge di contrappasso, una vita rubata di un vecchio complice gli aveva restituito la possibilità di vedere ancora.
Lui, questa possibilità non l’avrebbe sprecata, girava per la città da quindici anni, non guardando, ma vedendo quello che c’era e quello che ci sarebbe potuto essere.
Il tram ha gli occhi tristi, ma i suoi non lo sarebbero più stati.
Beppe, si chiamava.
Brindammo tutta la sera, a Oreste, alla città, anche al Natale.
Avevo la mia storia, ma non ero contento.
Salutai Beppe, presi il tram per tornare a casa e dai finestrini scorrevano i suoni e i sapori di una vita spesa veloce che continua ancora a regalarmi l’inestimabile capacità di ridermi addosso e di non prendermi mai troppo sul serio.
La vita e la voce di una Milano che quando è bella, è bella davvero, mentre il cielo aveva preso il colore del giorno in cui crocefissero Cristo.
Collage di Joe Webb
Vincenzo Costantino, detto Cinaski, nasce a Milano nel 1964. Nel 1994, dall’incontro umano e letterario con Vinicio Capossela nascerà un’amicizia duratura e sincera, che sfocerà in un reading/tributo a John Fante, Accaniti nell’accolita, e successivamente in un libro scritto a quattro mani edito da Feltrinelli nel 2009: IN CLANDESTINITÀ – Mr Pall incontra Mr Mall. Nel 2010 pubblica per Marcos y Marcos la sua prima raccolta poetica dal titolo Chi è senza peccato non ha un cazzo da raccontare, seguita nel 2015 da Nati per lasciar perdere e nel 2019 da Il più bello di tutti. Nel 2013 ha pubblicato la raccolta di racconti Non sembra neanche dicembre per ‘round midnight edizioni. Nel 2021 per Hoepli ha pubblicato il saggio I (miei) poeti rock.
