“La mia macchina dei desideri non è sincronizzata con la macchina del lavoro, non è sincronizzata con la macchina dei biglietti dell’autobus, non è sincronizzata con la macchina sociale del giusto e dell’illegale” così recita uno dei passaggi più famosi di Boccalone, di Enrico Palandri, che nel ’79 scriveva questo piccolo capolavoro che dava voce alla generazione dei giovani del ’77, pieni di tensioni libertarie, studi (post) marxisti e con la consapevolezza che il mondo che avevano costruito per loro gli stava troppo stretto.

Come ho avuto modo di scrivere più e più volte, la nostra generazione, quella di coloro cresciuti a cavallo dei due millenni, non ha ancora trovato il suo libro generazionale: non un Holden, non un Werther, neanche un Bazarov.
Sballottati fra miseria e nobiltà, fra passioni politiche e riflussi che si succedevano anno dopo anno alla stessa velocità con cui la tecnoscienza avanzava, siamo rimasti dei giovani vecchi senza voce: troppo adolescenziali per raccontare il passato dietro di noi, troppo vecchi per sentirci parte di qualcosa.
Eppure negli ultimi anni un mosaico di voci individuali hanno provato a raccontare la nostra storia collettiva, e ho provato spesso, su queste “pagine”, a tracciare un filo fra le varie esperienze, dal ritorno alla cittadina di provincia natìa di Grilli all’arrivo in città di Diacono.
Uno dei tasselli di questo mosaico è _t_w_i_g_ (da ora TWIG), acronimo di Tobia Wilson Iacconi Gabbriellini, classe 1984 e bolognese d’adozione. Il suo romanzo d’esordio, Nitrito, era uscito per “Fulmicotone”, collana di Agenzia X dedicata al furore della gioventù, e che in poco più di un anno di vita è riuscita a pubblicare libri altrimenti “impubblicabili” per la loro refrattarietà alle logiche commerciali? come Natura Corta, buona raccolta di racconti a firma Diego Leandro Genna, e Mastica’zine, ero una fanzine, che è letteralmente una fanzine sull’eroina tramutata in libro, una cosa che magari non molti se ne sono accorti ma che è letteralmente un pugno nel ventre molle dell’editoria.
E Nitrito, appunto, che apriva questa collana e di cui ho parlato alla sua uscita, era un lungo monologo, in forma di lettera, in cui venivano scaraventate in faccia al lettore tutte le passioni, le abiezioni, le delusioni e lo spaesamento dell’autore, in una forma che pareva Thomas Bernhard sotto speed.
Una bella sorpresa, malgrado il libro soffrisse di alcune cadute ingenue e retoriche, che infatti è diventato un piccolo caso editoriale ricevendo un riscontro di pubblico e critica altamente positivo.
Come scrissi all’epoca – e questo momento autoreferenziale mi va concesso perché sono stato il primo ad averlo recensito: “Forse la generazione dei trenta/quarantenni sta incominciando a sentire la necessità di trovare una voce collettiva che ruggisca (anzi, nitrisca) i propri disagi.”
Poco più di un anno dopo, TWIG ritorna con un nuovo libro, in uscita sempre per “Fulmicotone”, un’altra prova del coraggio – o del sadomasochismo (no kinkshaming) – di questi ragazzi e ragazze che pare vogliano ribaltare tutte le norme editoriali.
L’attesa era tanta, anche perché, come diceva Caparezza – un artista che mio malgrado la generazione millennial ha conosciuto molto bene – “Il secondo album è sempre il più difficile nella carriera di un’artista.” Questo libro non solo non ha deluso le aspettative, ma è un notevolissimo passo avanti rispetto all’esordio.
Dismessa la forma pseudo-romanzesca, il libro è una raccolta di poesie, pensieri, racconti brevi, senza un’apparente soluzione di continuità, ma che in realtà vanno a comporre il mondo interiore proteso verso l’esterno dell’autore.
Un libro grind-core, potremmo dire, poiché le sequenze rappresentate da TWIG sono brevi e violentissime nel loro mal de vivre e allo stesso tempo dolcemente “attaccate alla vita”, poiché l’autore,scrive nel libro: a volte usa la dolcezza per riempire i vuoti di senso”.
La concisione aiuta TWIG, che firma momenti di amarezza divertita come “Appunti di grazia e bulimia postcoloniale”, che è un riuscitissimo vademecum su come “divorare sé stessi senza dimenticare la felicità”, un po’ come trascinare Celine in un ristorante di pesce, per poi passare alla poesia senza titolo che inizia con il titolo del libro: “Ma il giorno è indegno e il giardino è logoro, l’ora è tarda e il vino amaro” carica di retaggi del cosiddetto “maledettismo” francese.
Sì, perché non si direbbe fra i turbini di sborra e ketamina, ma c’è tanto Rimbaud in questo libro, lo stesso rancore sordo e le stesse visioni cupe sotto sostanze stupefacenti, che ha sostituito il Beckett e il Bernhard del romanzo d’esordio.
Ha perfettamente senso, tutto ciò; la generazione dei maudits era a cavallo fra l’epoca della Restaurazione e l’avvento del socialismo internazionale, sballottati fra l’imperialismo di Napoleone III e il sorgere di una Repubblica poliziesca e conservatrice che affogava nel sangue i comunardi.
E noi, a cavallo fra il secolo delle cruente passioni e quello del trionfo della merce, sballottati fra l’imperialismo delle potenze internazionali e il sorgere di una Repubblica poliziesca e conservatrice che affoga nel mare i migranti.
Entrambi, noi e i maudits, personaggi secondari di una sattelzeit (epoca-cerniera), a buttarci su droga, sesso e politica, senza capire come mai sappiamo più dei nostri genitori e più dei nostri figli eppure non riusciamo ad avere un’identità.
Un libro quindi che riesce a essere ancora più generazionale del precedente, e che sembra essere stato scritto al ritmo della cassa dritta di un set tekno di un free-party in un capannone, mentre l’isteria della speed e la sensazione di amore ovattato e luccicante dell’emmedi fanno a schiaffi per avere il predominio sul tuo sistema nervoso.
Anche per noi la macchina dei desideri non è sincronizzata con la macchina del lavoro ma promettiamo che , parafrasando TWIG, “non vivremo né moriremo per voi”, e non perché siamo tossici, bamboccioni, pigri, “sessualmente confusi”, ma solo perché siete indegni come indegno è il giorno.