Dopo diversi anni di silenzio, a metà novembre sono tornati sulle scene i Carver, duo formato da Matteo Cantaluppi (il sig. Lupo), già produttore di progetti come Bugo, Ex-Otago, Arisa e molti altri, alle produzioni e da Marco M. Colombo (il sig. Colombo), romanziere e autore, ai testi. Il loro comeback, preannunciato dal singolo La Martesana pt.1, è L’altra Faccia della Luna, un album a tinte fosche, pulp, ambientato tra la Brianza e Milano e più nello specifico in quei recessi scuri dove una vita sotterranea brulica, nascosta ma non troppo, agli occhi di chi ne vive solo la sua parte più bianca – l’altra faccia. Le narrazioni dell’album prendono per mano l’ascoltatore per mostrargli spiragli di questo mondo, andando a comporre un mosaico dal sapore definito e intenso. Questo tour non ci è bastato, li abbiamo voluti intervistare per un paio di giri extra.
Il ritorno sulle scene dei Carver arriva dopo anni di silenzio: cosa vi ha spinto a tornare a questo progetto, e perchè proprio con un’opera come L’Altra Faccia Della Luna, dalla portata immaginifica così coerente che, nell’alternarsi delle scene descritte, ha più la struttura di un concept album che quella di una raccolta di racconti?
Volevamo tornare con un qualcosa di più strutturato e di diverso rispetto le cose che avevamo fatto in precedenza. Ambivamo ad un disco che fosse monolitico, claustrofobico, cinematico, letterario; ma oltre a questo che contenesse una giusta dose di black humor,che stemperasse qua e là la forte tensione. È sicuramente un concept, è un disco sulla mala milanese più oscura, nascosta, lontana dai clichè romanticizzati della ligera e della sua estetica anni settanta, l’altra faccia della luna, appunto. La sfida era che l’album fosse composto da pezzi che potessero vivere singolarmente di vita propria, ma che messi assieme avrebbero formato un puzzle, sia sonoro che lirico, che avesse una coerenza narrativa e che funzionasse come racconto unico. È un lavoro che sembra concedere poco all’ascoltatore, ed è una scelta consapevole che va nella direzione del concetto di immersione totale nell’opera, ed è quindi non votato ad un ascolto distratto o superficiale. Ma allo stesso tempo, meno in superficie, contiene forti elementi di apertura, di ironia e di leggerezza.
Nell’universo sonoro del disco giocano un grande ruolo la presenza di ambienti reali, registrati in presa diretta e poi rimaneggiati in studio. Qual è la storia dietro a queste scelte sonore, e a quali luoghi appartengono questi suoni?
L’universo sonoro del disco è caratterizzato da ambienti reali registrati prevalentemente a Berlino, durante la lunga permanenza di Matteo nella capitale tedesca, gli androni della metropolitana milanese e diverse location nelle metropoli asiatiche come Hong Kong, Tokyo o Shenzhen. Abbiamo cercato di utilizzare registrazioni prese in luoghi che avessero una storia alle spalle, come ad evocare certi fantasmi che certe città si portano dietro. Ci sembrava che un lavoro così cupo ed evocativo avesse necessità di certi suoni che contenessero anch’essi una storia. Ci sono registrazioni d’ambiente fatte nelle immense sale del Funkhaus, la sede della radio pubblica della Germania Est, altre nei bunker sotterranei dell’Ufo Sound Studio, sempre a Berlino, dove persino Joseph Goebbels fece la sua apparizione, altre ancora per le strade cinesi dove sinistramente si stava diffondendo la pandemia. C’è una ricerca sonora molto specifica e consapevole nei lavori dei Carver, ed anche i suoni hanno un ruolo narrativo importantissimo.
L’approccio al testo che Marco ha, nel restituirlo al microfono, si addensa in una parlata notturna, sussurrata, grave, che ben si sposa con le tinte fosche dell’intero progetto e con le sonorità di Matteo. L’impasto di suoni è così ben dettagliato da restituire, già da solo, il mood dell’intera narrazione. Come avete scelto questa direzione sonora, sia per la voce che per i soundscape?
Il parlato notturno, sussurrato, grave, è una scelta che si sposa sia con le tinte fosche e claustrofobiche del soundscape sia con il mood della storia raccontata. È in sostanza la confessione di un appartenente alla criminalità organizzata alle prese coi suoi demoni privati, con il senso della sua vita, del suo posto nel mondo, sempre in bilico fra la apparente redenzione e l’orgogliosa rivendicazione di un ruolo in quel sottobosco torbido, oscuro e tetro. La scelta dello stile dello spoken word non poteva che andare nella direzione che fosse più aderente al resto dell’opera.
La comparsa del video di Brianza, in rete, è accompagnata da un sito ed un lavoro di comunicazione legato al nome di Bianca Brianza e alla storia della sua scomparsa, con un rimando all’evento di presentazione dell’album. Chi è questo personaggio, e che ruolo ha all’interno del vostro immaginario? Ha legami con il brano Bianca, tratto dal vostro EP2?
Bianca Brianza non è una persona reale, non ha legami con il brano Bianca contenuto nel nostro EP2, né è un personaggio della storia raccontata nell’album. Bianca Brianza è una metafora: molto spesso certe lande, certi territori, certe cittadine, sono percepite o dipinte come bianche, pure ed innocenti ma altrettanto sovente nascondono un lato torbido e sinistro che per scelta o poca consapevolezza, si tende ad ignorare. Ed anche qui torna il concetto dell’altra faccia della luna, che dà titolo al lavoro. Ci interessava che il tutto poggiasse sul principio cardine della parte nascosta delle cose, più profonde, come gli abissi neri in cui ogni tanto sprofonda il protagonista del racconto. Le acque profonde del resto, sono sempre un bel posto dove immergersi e cercare di nuotare.
Il nome dei Carver è presente, attorno all’ambito della spoken word italiana, da molti anni, e ne avete potuto saggiare dall’interno le sue evoluzioni in questi ultimi anni. Come considerate la scena spoken attuale?
I Carver sono un progetto veramente ampio ed aperto che per definizione non è proprio possibile catalogare in una scena precisa. Per L’altra faccia della luna ci sembrava funzionale utilizzare lo spoken word come mezzo espressivo che si sposasse con il concept del lavoro, ma non è così scontato che in futuro si prosegua su questa linea o si prenda un’altra direzione, dipenderà da molte cose. Nelle cose più vecchie dei Carver c’era un’alternanza fra i silenzi, lo spoken word, il cantato ed i sample, che era una dimensione che non ci dispiaceva, ma appunto come detto, per questo album ci sembrava più congeniale utilizzare un recitato sinistro, confidenziale e grave. La scena italiana attuale, al di là di un genere preciso, ha diverse cose interessanti e ascoltiamo sempre con molto piacere i dischi più strani, assurdi, coraggiosi e sperimentali. C’è bisogno di questo, non del conformismo imperante e della ricerca di frivola approvazione, e siamo ben felici di non essere i soli a pensarla in questo modo.
La Martesana pt. 1
Una nutria sulla riva t’è sembrata un topo. Ho riso, dimenticando per un attimo la mia tendinite. Guarda i palazzi, a picco sulla troppa Milano. I migranti gambiani, accampati nelle tende, ridono sotto il murales di Darth Fener. Il devastante silenzio del cortile di Villapùn, le sue vetrate spoglie in questa domenica d’Alaska. I panni stesi si sono ghiacciati. No, non sei in forma smagliante. Hai già lasciato casa, abbandonato la macchina: devi sparire. È così facile sparire, lasciarsi indietro tutto, puf. Evaporare. Mi parli di un ritorno ad una vita più austera, frugale, come moderni umiliati. Le ragazze fanno jogging mattutino in abbigliamento tecnico fluorescente. Le biciclette, le Nike, le nostre camminate lungo la Martesana. Camminiamo, come sempre. Non riesco a dirtelo, ma mi mancheranno le nostre chiacchierate lungo la Martesana. E mi ritorna in mente la tua faccia da giovane belva, dentro l’auto, in quella notte nebbiosa di come non ce ne sono più, tanti anni fa. Era la mia prima volta, Santo, e le mie ombre hanno cominciato quella notte a fare capolino, te l’ho mai detto? Là, dove la strada curva, lanci il cellulare in acqua dopo aver tolto la scheda e averla gettata in un tombino.