Poso la videocamera sulla scrivania. Ho osservato le riprese della camera durante la notte, senza trovare altro che l’immagine in movimento del mio corpo agitato, e nient’altro. Chiudo gli occhi per qualche secondo, stringendo le palpebre e i denti fino a quando mi sento implodere la faccia.
Il rumore di graffi contro la parete si è fatto incessante, continuo. Dalle piccole casse appoggiate sul pavimento congelato serpeggiano le note della musica; a qualunque volume la metta, non riuscirebbero mai a cancellare lo stridio delle unghie sul muro. L’unica cosa da fare è guardare fuori: la neve inizia a scendere sulle superfici dei tetti, lentissima e inutile come qualcosa destinato a evaporare dopo qualche ora.
Mi alzo, cerco di fare meno rumore possibile, e mi volto verso il muro. Il poster mi fissa con una faccia cattiva, di sfida, con tutta la malvagità della bellezza di una donna che ride nel sole. Quell’immagine è lì solo per nascondere un grosso buco nel muro. Un muro sottilissimo, cavo all’interno. Lo ricordo bene: questa stanza la conosco in ogni singolo anfratto. Questa stanza calda, accogliente come un mondo inventato.
Eppure è lì dietro, e lo sappiamo entrambi: qualcosa che rumoreggia, che si fa sentire, che prima fingeva di nascondersi e ora non ci prova nemmeno più.
Allungo la mano verso il poster, poi la ritiro. La avvicino di nuovo. Busso contro la parete, il suono è lungo e rotondo.
Strappo via il poster con un colpo solo, scoprendo quel foro largo un pugno che si apre nell’oscurità. Con la mano a mezz’aria muovo le dita verso il buio. È solo quando ho le dita già dentro la parete, che mi accorgo che sto accarezzando un volto umano.
Nel buio sono spalancati due occhi, i suoi occhi – identici ai miei. C’è una faccia dentro al muro, che mi fissa con lo spavento di un animale braccato.  Se la accarezzo, sento solo un gran freddo. Se mi concentro per ascoltare, non sento più nessun rumore.
– Papà?